La terra si salva soltanto con il rispetto di tutti

Mi accade di ripensare e di associarle alle parole di due grandi poeti di queste parti. Uno è Vittorio Bodini. Con una straordinaria capacità di analisi e una potenza visionaria lo aveva detto, ci aveva avvertiti che questa terra, questo paesaggio sarebbe vissuto in uno “sgocciolio suicida”. Lui ha rappresentato, attraverso alcuni simboli, la tetraggine della pianura industriale, l’angoscia, l’abbandono, il vuoto di senso, la perdita di ogni riferimento, i nostri vigliacchi soprusi sulla natura.

I bulloni schiodati e l’odore della nafta bruciata, i nidi di plastica e di cemento che si sarebbero alzati dov’erano anfiteatri d’uve e dizionari d’ombre, le pinete ridotte a cimiteri di alberi, “alti scheletri arsi in un incendio senza canti”, le spiagge come millepiedi, il mare sporco di nafta. Lui aveva già visto tutto.

Talvolta si avverte la sensazione che tutt’intorno la sozzura ci assedi, ci insidi dai marciapiedi, si apposti agli angoli per risucchiarci. Carcasse di elettrodomestici, materassi sventrati, water abbandonati ai cigli delle strade. Rifiuti. Rigetti. Corpi estranei. Esiti di un processo negativo, di un’eccedenza, di conati culturali. Feticci di una civiltà in degrado, che seppellisce se stessa sotto il suo nuovo letame che non è biodegradabile, che non concima e quindi non rigenera, ma che s’insinua come veleno nelle vene della terra, la destina ad una fine senza scampo.

Il maiale quando si sazia fa rotolare il trogolo. Questa civiltà sazia, ingozzata, satolla, sta prendendo le abitudini del maiale. Questa civiltà rovescia spazzatura dappertutto. Con un gesto di spreco sfrontato, balordo, prodotto sostanziale e simbolico di una società egoista, viziata, dissoluta, indifferente. Stupida.

L’altro poeta si chiama Antonio Verri. Trentatré anni fa scriveva: cambia, cambierà, di molto, il volto della campagna, degli aggregati umani, di interi paesi; è cambiato dal dopoguerra ad oggi, cambierà ancora tra due, tre generazioni. Quello che non cambierà mai sarà l’idea del dialogo con la terra che l’uomo ha stabilito dal tempo dei tempi, il grosso respiro, il sibilo lungo che si può udire solo di mattina, mirando nella vastità dei campi, con accanto quelle sentinelle silenziose che sono gli alberi di ulivo.

Lui aveva speranza nel dialogo con la terra, nella nostra capacità di ascoltarla e di parlarle. Lui aveva speranza nella letteratura che fa pensare, che riesce a mutare i comportamenti. Anche in questo aveva speranza, addirittura.

Il sibilo lungo di cui diceva si può chiamare anche l’anima del luogo.

Ma a volte l’anima di un luogo è costretta a darsi alla fuga, o a morire. L’anima scappa dal chiasso, dalla sfacciataggine, dalla violenza, dalla mancanza di misura, dall’enormità, dal minimalismo, dice James Hillman nell’ Anima dei luoghi.

L’anima muore quando non ci sono più parole per raccontare il desiderio ansioso di cercarla o la sapiente pazienza di aspettarla, o quando scompaiono le maniere di rispettarla.

L’anima appartiene alla storia: l’anima è la storia che si manifesta, rappresenta la propria persistenza, la propria essenza per mezzo del passato che risorge costantemente, prepotentemente, e si proietta in ogni senso di futuro, quale che sia: ipotesi, speranza, desiderio di un altro sentimento, di un’emozione nuova, l’abbozzo del disegno di un tempo che rinnovi l’evento della vita.

Tutto quello che esiste, è testimonianza della presenza di un’anima che giace nelle tombe affioranti che ribadiscono un vincolo come privilegio e condanna al tempo stesso, che urlano la loro ansia, la loro pretesa di essere dissepolte, disoccultate, riportate alla luce, riconsegnate al divenire del mondo, all’avvicendarsi del mattino e della sera, a riconferma perpetua dell’origine, della cifra primordiale, dell’archetipo ineludibile, irreversibile.

La terra viene prima delle creature; durerà oltre le creature. Quando si dissolveranno i corpi, e le memorie dei fatti, quando non resterà nulla dei sogni, né delle parole di una poesia, quando non si sentirà più sul petto il peso della terra, e tutto diventerà leggero come un pulviscolo, e sembrerà misterioso come un singulto di civetta, allora l’ulivo saraceno sarà ancora una silenziosa e significante traccia dell’anima del tempo di un luogo. Lo saranno le tombe di antenati sconosciuti e visceralmente venerati, i tramonti che non esistono nel loro colore; lo saranno gli occhi di coloro che verranno, stupefatti come sono gli occhi di quelli che ci sono.

Mi accade di ripensare alle parole del mio maestro della scuola elementare, certe volte, e di associarle alle parole dei poeti, e di considerare che non siamo riusciti a comprenderle, per niente. Ma forse facciamo ancora in tempo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 24 aprile 2019]

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