Un romanzo che si può definire storico, se necessario, come quelli scritti da Antonio Errico, ma non solo; è riduttivo costringere un lavoro in un determinato tempo, se c’è un tempo, è quello dell’esistenza, dell’individuo, di una soggettività che muta. C’è tuttavia, anche un cominciamento di storie lasciate e poi riprese, come nel primo scritto “Stralune” o ancora nel romanzo “L’Esiliato dei Pazzi”: amori, passioni, confessioni tra ombre, enigmi, menzogne, rivelazioni. Nella notte, nel buio, la coscienza si disvela e acquista consapevolezza del suo essere, o di ciò che sarà il suo destino.
Ma, la “rotta non c’entra”, dal momento che interessano le metamorfosi dei soggetti, l’evoluzione della parola, l’ermeneutica dell’essere e dell’apparire. Non ci sono pause. Si alternano i silenzi del confessore, l’attesa di un’assoluzione. Non c’è la retorica della finzione bandita dalla scrittura di Antonio Errico la cui “astuzia della Ragione” muove i fili delle scene della tragicità del contemporaneo. Il pensiero affonda tra le cornici di un quadro medievale, senza però, dimenticare che il dipinto dell’Io è dell’oggi e del domani. Sempre. E nella neve, che si consumano le morti, si interiorizza la morte per rinascere purificati a nuova vita. Si spera. Nel frattempo, l’autore gioca e nel gioco si confessa con un’abilità che gli è propria: conscio di ciò è accaduto, o avverrà. Consapevole persino di un destino che alle volte si prende beffa dell’attore o spettatore sociale; di sicuro, non sembra importi granché allo scrittore: l’uomo si manifesta anche nel buio illuminato da una fiamma flebile di candela.
Approcciando a “Peccata”, il lettore pone se stesso a conoscersi senza restrizione, con il desiderio di osservare il volto, l’autenticità dell’umano. Noi, scrive Jung, contiamo qualcosa solo in virtù dell’essenza che incarniamo, e se non la realizziamo, la vita è sprecata.
Da osservare, inoltre, alcune peculiarità del romanzo, quella essenziale sembra riguardare la natura delle “confessioni” che rimanda al pensiero di S. Agostino o di Rousseau: una sorta di narrazione del sé, un’autobiografia per comprendersi, interpretare l’umano per quanto possibile. È questa possibilità certamente, la possiede Antonio Errico che ancora una volta, mostra – dietro l’apparire – le ombre, i misteri che contraddistinguono ciascun individuo, “come se gli occhi perforassero il tenebrore”, ma che alle volte, è proprio difficile ammettere, si ha paura del “giudizio divino”, dell’“inferno”. E dunque, nell’interiorizzare il sé, il noi, i tratti che contraddistinguono una personalità, l’ironia della maschera, l’ambiguità delle relazioni umane, il ‘segreto’; ecco, a un tratto, appare quell’ombra rischiarata dalle candele dei fedeli, – i segreti – che resteranno pur sempre tali nei confini di un’abbazia.
Così, il viaggio prosegue. “La rotta non c’entra”, nemmeno i “peccati”.
[“Affari italiani” del 21 marzo 2019]