di Paolo Maria Mariano
Siamo impastati di memoria; essa partecipa alla definizione della nostra identità, anzi ne è il primo motore: siamo il risultato di quello che siamo stati, o meglio, della macerazione di quello che siamo stati. La memoria, però, è volatile; talvolta la sfuma e la colora perfino il desiderio di offrire un’immagine che giustifichi (o perfino nobiliti) il desiderio di rispetto, di potere, o solo di vanità, nell’evanescente presente.
Per questo, perché quella volatilità della memoria non vanifichi il senso e il significato di ciò che è stato e soprattutto di quello che può insegnare, non basta avere una percezione della storia come scenario di altre discipline; bisogna affrontare con attenzione lo studio della storia di per sé, per lo meno percepire il mestiere di storico. È uno dei fattori necessari alla qualità della formazione culturale di base. Così è fattore necessario lo studio della filosofia, sia essa intesa come indagine teoretica sul senso e sul significato del nostro pensare e degli strumenti logici che lo esprimono, sia come storia delle idee.
La scelta della struttura dei percorsi formativi concerne anche il mercato, quindi il modo con cui si sviluppa la gestione di potere, che al mercato si rapporta e ne è influenzata; il risultato riguarda la dignità della persona e dei gruppi sociali, o meglio il modo con cui ciascuno di essi la percepisce. Il depauperarsi della percezione della dignità, quindi dell’identità di singoli o di gruppi, è, infatti, sorgente di frustrazione e di conseguente rabbia, sociale o personale che sia, modulata dal livello etico del singolo e da aspetti perfino inconsci.
Il tentativo di rendere infantili le masse, riducendone la capacità critica, quando questo tentativo si persegua, consciamente o inconsciamente, è strumento di gestione di potere. Così lo è la sistematica distrazione dell’attenzione attraverso l’urlo, l’enfasi, in quel progressivo processo d’identificazione sostanziale della discussione politica con l’intrattenimento, l’affabulazione, la favola, la mistificazione compulsiva, processo che si riconosce in vari periodi storici, in diversi gradi d’intensità. In questo processo, la ricerca del consenso diventa ossessiva, fine a se stessa; soppianta la riflessione e l’azione costruttiva; è spinta con frenesia perché la velocità favorisce la supremazia dell’emozione, dell’istinto, e tende a sfocare la visione che necessariamente deve accompagnare ogni sforzo progettuale sia nella vita del singolo, sia nella gestione della struttura sociale.
Si avanza spesso la necessità di avere più laureati; le università cercano modi per essere attrattive; hanno bisogno di studenti per giustificare le loro dimensioni e anche le attività di contorno alla ricerca, e che talvolta e per qualche singolo sostituiscono la ricerca quasi in toto. Nel cercare di attirare studenti, la progettazione dei percorsi formativi è stata troppo spesso ridiscussa al ribasso; era la scelta che sembrava più semplice, quella che offriva apparentemente la fatica minima, sebbene quella di maggior miopia, sia per chi l’ha proposta o la ripresenta, sia per chi l’ha seguita o la cerca nuovamente. In quei casi, il risultato è stato quello di svilire i titoli di studio e far tendere in qualche modo l’incremento dei laureati a qualcosa che potrebbe talvolta assomigliare a un mero fatto cosmetico.
L’opposizione alla competenza è talvolta giustificata dall’indicarla quale sorgente di sperequazione sociale, perfino solo potenziale. Così, però, si tende a distruggere l’ascensore sociale, cristallizzando quella sperequazione che già esiste, evitando di assicurare il necessario ricambio, l’afflusso di forze nuove che ridistribuiscano il potere nella società e rafforzino la sua struttura democratica in pesi e contrappesi, e il rafforzarla è atto di coscienza civile. Si è poi giunti in alcuni casi a mostrare con orgoglio la propria incompetenza quando, invece, è la competenza che è necessaria; e non lo è solo quella specifica in un dato settore. L’ostentazione in ogni caso è attività triste, talvolta dannosa. Soprattutto chi è chiamato a indicare il modo in cui una qualche struttura sociale debba svilupparsi, e poi a gestire il processo, ha necessità di avere una visione prospettica in senso storico e filosofico, oltre che tecnico. Deve poter intendere, interpretare e sintetizzare, perfino avere argomenti per contrastare o, al contrario, essere convinto concretamente di poter accettare quello che gli specialisti gli possano indicare, ciascuno dal suo punto di vista, ciascuno a sua volta interpretando. Ha bisogno di un bagaglio di conoscenze, che sia personale, meditato, che sia il risultato di un percorso formativo mai veramente interrotto. E ha bisogno di possedere senso del limite, quello che emerge dall’avere un’etica costruttiva, non dal solo senso rapace della convenienza. Quel senso del limite è indispensabile ed è misura di qualità dell’umano, misura che accompagna ciascuno anche quando è all’apparenza solo, a guardarsi in silenzio davanti a uno specchio.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 14 marzo 2019]