Il premio Nobel alla voce di Andrea Camilleri

di Antonio Errico

Allora mi sono chiesto a che cosa può servire mai un premio Nobel per la letteratura, se non lo si riconosce ad un cantore che è capace di rappresentare l’antico e il moderno, il presente, il passato, il futuro, la memoria e la fantasia, il sentimento e la ragione, la verità e la menzogna, la realtà e la finzione.

Me lo sono chiesto qualche sera addietro, mentre guardavo, mentre ascoltavo Andrea Camilleri raccontare in televisione il suo Tiresia portato in scena nel giugno scorso, seduto al centro del Teatro Greco di Siracusa. Mi sono chiesto a che serve un premio Nobel per la letteratura, se non viene riconosciuto per quell’impersonare con tragicità, con leggerezza, con ironica saggezza il senso essenziale, archetipico, della narrazione, che consiste nel tramandare una storia attraverso la voce. Poi, nel pomeriggio successivo, mi è stato fatto il dono straordinario di Conversazione su Tiresia, il libretto di sessanta pagine che raccoglie il testo. L’ho letto, in poco più di due ore. Però mentre lo leggevo mi rendevo conto che non era la stessa cosa, perché mancava la voce, perché mancava la fisicità del narratore: quella voce arrochita che pareva provenisse dall’antro di una misteriosa antichità, quelle parole scandite che s’inchiodavano nell’aria, e mancavano anche le mani, le mani che si aprivano e si congiungevano, le braccia che si stendevano ad abbracciare il pubblico e la sera, e poi si appoggiavano sul petto, come per cercare un riposo. Mancava il suo volto che sembrava scolpito nella pietra. Omero rassomigliava a Camilleri. Cieco come Camilleri. Gli occhi coperti di buio per scrutare al di là del buio.

Dice Camilleri che da quando Zeus, o chi ne fa le veci, ha deciso di togliergli di nuovo la vista, questa volta a novant’anni, ha sentito l’urgenza di riuscire a capire cosa sia l’eternità. Ma forse l’eternità si può percepire soltanto attraverso l’azzardo di un vaticinio, di una profezia, con l’energia di uno sguardo cieco che trapassa la densa fumaglia del presente e raggiunge orizzonti di verità diversamente impensabili, e vede una luce che senza quella cecità non si può vedere.

In Amore lontano, Sebastiano Vassalli ricorda che gli antichi attribuivano ai ciechi una capacità di inventare, di elaborare e di raccontare le storie degli uomini, superiore a quella di coloro che vedono. Avendo meno percezioni, i ciechi avevano più vita interiore. Erano dei veggenti che sapevano riempire il buio in cui vivevano di figure apparentemente reali.

Il monologo di Tiresia, scritto e interpretato da Andrea Camilleri, è un confronto, forse anche un corpo a corpo, con l’ansia o la speranza o il desiderio nemmeno nascosto di comprendere l’eternità. La voce vortica nell’aria di Siracusa. Camilleri si fa Tiresia. L’indovino, la creatura multiforme, colui che, come dice Dante, mutò sembiante/ quando di maschio femmina divenne/ cangiandosi le membra tutte quante, fa esperienza dell’azzardo di una profezia, penetra nell’universo scuro dell’incognita e lo attraversa con il raggio di un pensiero che vorrebbe metterci sull’allerta come sentinelle a difesa dei nostri destini.

Comincia con il mito, la narrazione di Camilleri, e si conclude con l’orrore. Ne La chiave a stella, dice, Primo Levi racconta che nel campo di concentramento nazista rischiò una metamorfosi peggiore di quella di Tiresia: quella da uomo a non uomo. Poi Tiresia confessa che non fu capace di prevedere quell’orrore, perché era al di fuori di qualsiasi immaginazione.

Andrea Camilleri racconta e riempie il buio di Siracusa con un universo di colori immaginari, fantastici, con un meraviglioso onirico che in qualche modo compensa il suo sguardo sbarrato.

Lui sa perfettamente che, al principio, non c’è una scrittura ma una voce. Probabilmente è questa la ragione profonda del suo Tiresia raccontato con la voce. E’ il ritorno all’origine, alla radice, all’essenza della narrazione. Al respiro che si fa una sola cosa con l’aria, con il vento, l’umidore, la calura, il silenzio. Al racconto che non è mai definitivamente chiuso, che si rende disponibile alla sovrapposizione delle voci, ad una continua riformulazione, alla contaminazione, al rimando, all’innesto, alle interferenze, alle manipolazioni, che si sfrangia in digressioni, si interrompe, riprende, si dilata, che subordina la sua possibilità di esistenza esclusivamente alla possibilità della memoria.

Probabilmente il Tiresia di Andrea Camilleri è la messa in scena della narrazione che si riproduce ininterrottamente, che perfora il tempo, sconfina da ogni spazio, si affida ad una voce che dice in una lingua ogni volta diversa, che si affida alla modulazione, alla sonorità, all’eco.

Almeno per questo suo Tiresia, a Camilleri spetterebbe il Nobel per la letteratura. Per questa sua rifondazione semantica della narrazione orale al tempo del terzo millennio, perché si costituisce come conferma della condizione sostanziale dell’atto narrativo.

Allora mi sono chiesto se non sia inevitabile tenere in conto tutte queste e molte altre ragioni nell’assegnazione di un premio Nobel per la letteratura.

Per una benedizione e una maledizione, Tiresia poteva scaraventare lo sguardo del pensiero nella nebbia del futuro, e diradarla. Andrea Camilleri non può. Nessun essere che sia umano può. Per fortuna. Ciascuno di noi può soltanto affidare il proprio futuro ad un Dio, se ci crede, oppure semplicemente alla buona sorte.

Alla fine del suo monologo, Camilleri dice: Può darsi che ci rivediamo tra cent’anni in questo stesso posto. Me lo auguro. Ve lo auguro. Nessuno di coloro che hanno vissuto quell’istante si ritroverà, lì, fra cent’anni. Ma alla fantasticheria di uno strabiliante contastorie, di questo sogno si può anche fare concessione.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 10 marzo 2019]

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