C’è un detto antico secondo cui le parole sono pietre, e si possono scagliare, come Davide fece contro Golia in un gesto poi imitato fin troppe volte, talune a ragione, altre a torto, non solo in quelle terre di Davide. E come le pietre, le parole scagliate possono ferire anche il corpo tramite lo stress psicologico. Possono anche alterare i rapporti tra i paesi e le istituzioni, creando danno o portando vantaggio non solo personale, in dipendenza dal ruolo di responsabilità di chi le pronuncia, dal loro senso, dal loro significato.
Le parole possono manipolare individui e gruppi umani, possono rassicurare e consolare, indicare una strada, mettere sull’avviso, intristire, rallegrare, commuovere, educare.
La tecnologia permette una sempre più ampia e accelerata diffusione delle parole. Siamo continuamente investiti non solo dal chiacchiericcio dell’ambiente a noi vicino ma anche – e indifferentemente – da parole che partono da luoghi lontani e a noi giungono quasi nel tempo in cui sono pronunciate, con la rapidità che tecnologia e prontezza umana permettono.
Si assiste alla fiera delle parole, al provvisorio e vacuo luccichio del circo. Si creano e si distruggono personaggi: critici d’arti visive o di letteratura la cui sostanza è inversamente proporzionale all’enfasi che li accompagna, scienziati mediocri pubblicizzati con noiosa insistenza come detersivi per ogni loro futile esternazione, economisti e giuristi appellati con titoli che hanno solo sfiorato con qualche grossolana approssimazione, truffatori che s’ammantano di dottorati conseguiti solo in sogno; una penosa e sempre più frenetica fiera delle vanità – in cui si è famosi per il solo fatto di essere famosi – che appartiene alle paludi (per così dire) che ricoprono parte del territorio delle parole. Per fortuna ci sono porzioni vaste del territorio delle parole in cui il monologo stordente e ripetitivo delle paludi, spesso sordo perfino alla ragionevolezza, diventa dialogo, riflessione. In questi spazi la mente può risiedere se di essi si riesce a riconoscere il valore e a coltivarlo.
Socrate ha insegnato a chiunque lo abbia incontrato, di persona o sulle pagine di qualche libro, che l’atto stesso del dialogare ha un contenuto etico. Il dialogo – puntualizzava Pierre Hadot, che insegnò filosofia nel Collège de France, chiamatovi da Michel Foucault, sebbene il pensiero di Hadot fosse per tanti aspetti lontano da quello del suo sostenitore nella più alta istituzione accademica di Francia – il dialogo, dicevo, presuppone il reciproco riconoscimento tra gli interlocutori e in questo (e proprio per questo) è un esercizio etico. D’altra parte è la conoscenza di quello che l’interlocutore è e rappresenta, della sua affidabilità, che determina il riconoscimento. Se così è, esso non è solo formale e così non è il dialogo conseguente.
Certo, questa conoscenza è sempre parziale ma la sua profondità e il suo grado di esattezza determinano caso per caso la natura, la qualità e perfino l’opportunità del dialogo, che è in sé un atto costruttivo, per lo meno in potenza. In mancanza del riconoscimento reciproco, la discussione, quando non è futile e volatile, diventa in fondo una corsa al prevalere, anche solo per sentirsi più forti, non avendo altro. È un gioco di manipolazione nei riguardi dell’interlocutore o degli astanti, una piccola favola vuota che non costruisce bellezza – quella che per Iosif Brodskij, giacché poeta, è la sorgente dell’etica – ma diventa un esercizio di dominio, quello che si vede in tanti dibattiti televisivi o in sfoghi semi-anonimi diffusi in internet. Quando questo avviene, ci troviamo smarriti in una foresta di parole e per questo siamo soltanto più soli.
Questa solitudine rumorosa alimenta il mercato della paura. E la paura rende folli, cedevoli, irragionevoli, pronti a rinunciare alla libertà in nome di un’illusione di sicurezza, più inclini – semmai non si fosse così già in maniera evidente – a diventare, come suggerisce la Storia, servi volontari di chi si veste da plenipotenziario di turno, dichiarandosi “incoronato” per volere superno, o dal volere del popolo, o dalle armi, o perfino da sé stesso, come fece Napoleone, forse con meno ipocrisia di altri, di certo con estro. Il suo gesto – quello di Napoleone che si auto-incoronò, intendo – fu lontano prodromo alla caduta, quella che infine accompagna Icaro, che tentò di volare fino al sole senza possedere i mezzi necessari e, soprattutto, senza conoscere la natura del sole.
Bisogna aver cura delle parole, evitare il morbo dell’ipocrisia, far sì che le parole siano l’espressione della freschezza del nostro animo, ove ci sia in noi freschezza, altrimenti cercarla.
Tendo a credere che una qualche tendenza all’economia di parole aiuti a sceglierle, a vagliarne il peso e le conseguenze su se stessi e sugli altri; promuove la riflessione; può persino suggerire la necessità di usare il tempo del silenzio per non guardarsi solo allo specchio e, semmai, impiegare quel tempo per rafforzare la propria formazione, per ambire a conoscere ciò di cui s’intende parlare o, altrimenti, capire che è meglio tacere.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 18 febbraio 2019]