di Giovanni Bernardini
Nella Sezione di Commissariato Militare d’Ancona, dove mio padre era il Comandante interinale, prestavano servizio, tra gli altri ufficiali, due tenenti sardi, Delitàla e Pitzalis. Dei sardi il più simpatico, Delitàla, dai forti lineamenti, bruno come cotto dal sole, ogni tanto passava libri a mia madre. Ricordo La luce che si spense di Rudyard Kipling e Madame Bovary.
Non mancavano due impiegati civili, il signor Lovera anziano e il signor Cicerone, bell’uomo brizzolato. Ogni sabato si verificava una situazione paradossale in quanto Cicerone, indossando la divisa fascista col grado di seniore della Milizia, diventava superiore di mio padre Capitano. Aveva però il buon senso e il merito che, presentandosi a mio padre, intrecciava le braccia dietro la schiena affinché non spiccassero i galloni cuciti sulle maniche.
Nei locali pubblici si leggeva la targhetta La persona civile non bestemmia e non sputa per terra; negli uffici Qui non si fa politica, si lavora. In concreto la politica la faceva il Regime reprimendo la critica e ampliando il consenso, che in quegli anni Trenta raggiunse il culmine. Già nel ’26 era stata istituita l’Ovra (Organizzazione Vigilanza Repressione Antifascista), servizi segreti di polizia politica. Quanto alla stampa, nel medesimo anno fu messo a tacere Il Becco Giallo, giornale satirico, che nell’ultima testata si presentò con un grosso lucchetto conficcato nel becco. Adeguandosi alla situazione, continuarono a pubblicarsi giornali umoristici quali Il Travaso delle idee e Marc’Aurelio. Personaggi tipici ma “innocui”di tali pagine Il gagà che aveva detto agli amici, Genoveffa la racchia, La vedova scaltra, quest’ultima reinventata da una commedia del Goldoni.
Nella cerchia delle nostre amicizie militari e borghesi di politica non si discuteva o se ne discuteva molto poco. Mio padre comprava la Domenica del Corriere con la prima pagina illustrata da Beltrame e il Giornale d’Italia diretto da Virginio Gayda. Non so quanto lo leggesse e quanto lo condividesse. Sicuramente però fra Regio Esercito e Milizia Volontaria non correva simpatia.
Ciò non impedì una certa amicizia con la famiglia Vitali: l’avvocato, la moglie e Federico, figlio unico come me, minore d’età. In vero l’avvocato non era un effettivo della Milizia. Al pari del signor Cicerone, in determinati giorni indossava la divisa col grado di centurione e istruiva i balilla. Era grande appassionato di musica classica e buon pianista. Una cena in casa loro si era conclusa con due esibizioni: verbale di Federico, ancora bambino, e musicale dell’avvocato. Federico aveva detto: “Abbiamo mangiato bene, abbiamo bevuto bene, abbiamo tagliato bene”. Intendeva sottolineare d’aver rispettato scrupolosamente le raccomandazioni di buon comportamento a tavola. Il padre già s’era messo al piano eseguendo con evidente perizia numerosi brani che ci trattennero piacevolmente sin quasi alla mezzanotte. Furono scattate anche delle foto.
Giorni dopo, una domenica d’adunata, l’immagine dello squisito interprete di Chopin e di Beethoven fu offuscata ai miei occhi da quella del centurione che, guanti in mano, schiaffeggiava ripetutamente un piccolo balilla forse irrequieto.
Assurdo istituir paragoni; si vuol soltanto notare che non era lontano il tempo in cui nazisti, amanti dei canarini e della grande musica, avrebbero mandato a morte migliaia di bambini, buttandoli financo nelle fornaci ardenti, in mancanza di gas asfissiante.
Ho detto sopra che quegli anni Trenta segnarono il massimo consenso al Fascismo, tanto più che l’11 febbraio 1929, con abile mossa diplomatica e lunghe trattative con il Cardinal Gasparri, l’ex socialista anticlericale Mussolini aveva firmato i Patti Lateranensi. Questi ristabilivano la pace fra Italia monarchica e S.Sede, rotta dalla conquista di Roma del 20 settembre 1870 e seguita da varie scomuniche pontificie. Per tale accordo finiva la laicità dello Stato: la religione cattolica, fra l’altro, entrava nelle scuole quale insegnamento obbligatorio e il Crocefisso veniva appeso nelle aule e negli uffici.
Papa Ratti, Pio XI definì Mussolini “uomo della Provvidenza” proprio in virtù dei Patti. Questa definizione circolò ampiamente prevalendo e finendo con l’occultare o dar scarso rilievo -almeno per la stragrande maggioranza- al conflitto apertosi tra Chiesa e Regime in rapporto al tentativo fascista di sopprimere l’Azione Cattolica. Infatti, a due anni dal Concordato, il Pontefice emanò l’Enciclica “Non abbiamo bisogno”, usando per chiarezza la lingua italiana.
In tedesco poi, nel ’37, emanò l’Enciclica per mettere in guardia i vescovi della Germania dal nazionalsocialismo, quale dottrina pagana.
Fra ’38 e ’39 fu stilata una bozza di Enciclica contro l’antisemitismo. La morte di Pio XI nel febbraio ’39 troncò l’elaborazione di quella bozza, rimasta segreta e rivelata addirittura nel 1995 dalla stampa straniera.
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In piazza Cavour, dominata dalla statua del grande statista, eravamo in molti a giocare, compresi alcuni compagni di scuola, come i fratelli Giancarlo e Sergio Giorgetti, Cappelletti, Rossini e altri. I giochi variavano: prevalevano “a nascondino”, “moscacieca”, corse a piedi o in triciclo, i girotondi “Chi ultimo arriva male alloggia” e “Oh, quante belle figlie avete, madama Dorè!” Se, giocando a palla, questa finiva dentro un’aiola e ci entravamo a recuperarla, subivamo le minacce del vigile che, con lieve disprezzo, chiamavamo “pizzardone”, termine romanesco.
Il mio padrino di Cresima, dottor De Paoli, modenese, trovava troppo grande per un bambino il mio nome, mi chiamava Dindìn.
Psichiatra, copriva il ruolo di vicedirettore del Manicomio, ma esercitava la professione specialistica anche all’esterno. Il più singolare dei suoi pazienti risultava un certo Sfornt, ricchissimo tanto da possedere una macchina con autista, cosa piuttosto eccezionale a quei tempi. Il suo cervello era sconvolto dal terrore di contrarre malattie a contatto di qualsiasi oggetto. Perciò usava sempre guanti e pinze. Quando poi si sentiva malsicuro delle sue precauzioni, ordinava all’autista di andare a prendere il dottore. E il mio padrino, dal carattere tranquillo e gioviale, si metteva ogni volta pazientemente in macchina per fugare le paure immaginarie del malato, la cui ricchezza gli offriva l’unico vantaggio d’avere il medico a portata di mano e di tasca, senza concedergli un minimo di felicità.
Viceversa le tasche della mia famiglia, tenuto conto del modesto stipendio di mio padre, che oltretutto aiutava quattro sorelle nubili e un fratello malato, non hanno permesso mai grandi spese. Comunque eravamo abbastanza sereni e contenti, tolte le mie ansie infantili quando si accendeva un litigio fra i genitori. Allora ne scrutavo i volti ed ogni minimo gesto fino al sospirato momento della riappacificazione.
Il mio avvio alla pratica religiosa rispondeva alle consuetudini di un’Italia cattolica come, su piano diverso, il mio ingresso tra i balilla rispondeva alle consuetudini di un’Italia ormai fascistizzata. Non credo che su questi aspetti i miei genitori si siano posti particolari problemi. D’altra parte, mentre il cattolicesimo era ampiamente scontato, il Fascismo, tramite un’abile propaganda, penetrava capillarmente nella società e trovava facile pascolo fra i giovanissimi, sprovveduti e senza maestri di democrazia. Vestire un’uniforme, impugnare un’arma -sia pure giocattolo- esercitava un innegabile fascino. Da balilla indossavo calzoni corti grigioverde, camicia nera, fazzoletto azzurro al collo, fez in testa. Passai poi a balilla moschettiere con tanto di guanti neri alla moschettiera. Il motto l’aveva lanciato Mussolini in persona: Libro e moschetto / fascista perfetto, dal balcone di Palazzo Venezia, mostrando alti nelle mani l’uno e l’altro. In tempi posteriori, per i piccolissimi, furono creati i “Figli della Lupa”. S’intendeva la Lupa capitolina, che -secondo la leggenda- aveva allattato i gemelli Romolo e Remo.
Cantavamo Giovinezza, primavera di bellezza o Fiero l’occhio, svelto il passo,/ chiaro il grido
del valor:/ Ai nemici in fronte il sasso,/ agli amici tutto il cor, ricordando il ragazzo genovese Giovan Battista Perasso, detto Balilla. Egli nel 1746, scagliando una pietra, aveva sollevato il popolo contro gli Austriaci invasori.
Le canzoni erano tante. I nostri quaderni esibivano copertine a colori vivaci con la figura d’un balilla tamburino e la scritta “I bimbi d’Italia si chiaman Balilla” o figure di avanguardisti rurali che, pala in spalla, si recano al lavoro nei campi. In altre copertine apparivano le Forze Armate:
Esercito, Marina, la giovane Aviazione con l’invito “Medita sulle glorie della tua Patria!”. Un misto insomma di militarismo e patriottismo, fondamentali del Regime.
Glorie della Patria erano pure quelle conquistate sui campi sportivi, sicché nei quaderni comparivano i più famosi campioni a dimostrare come anche nello sport l’Italia fascista fosse ai primi posti. In quegli anni infatti conquistammo alcune vittorie mondiali, come nel pugilato “pesi massimi” col gigante friulano Primo Carnera, nel ciclismo su strada con Alfredo Binda, nel calcio riuscimmo due volte campioni. Ma si possono citare altre glorie: ad esempio Ondina Valla nella staffetta femminile, Beccali nei 1500 piani, Straulino nella vela. Venivano celebrati perfino alcuni campioni come Nedo Nadi (scherma: fioretto, sciabola, spada) che aveva dominato negli anni ’20, in parte prima del Fascismo.
I cinegiornali presentavano il Duce al galoppo da provetto cavallerizzo o con gli sci a dorso nudo sulla neve. Starace, Segretario del Partito, saltava attraverso il cerchio di fuoco e gli altri gerarchi, magari malvolentieri, per ragioni di prestigio dovevano imitarlo. Insomma immagini di prestanza fisica e sprezzo del pericolo. Non a caso sui nostri quaderni figurava anche il detto latino “Audaces Fortuna iuvat” (La Fortuna arride agli audaci). Starace aveva introdotto il “Saluto al Duce” al quale si rispondeva col grido “A noi!” e il “sabato fascista”: meno ore di lavoro, ma obbligo di mettersi in divisa o, quanto meno, in camicia nera e frequentare le adunate o i circoli dopolavoristici.
Solo nel dopoguerra appresi che su di lui, nato a Sannicola, presso Gallipoli in provincia di Lecce, e sul suo attivismo, circolava fra i pochi antifascisti locali questa strofetta:
Respira Roma quando Starace parte,
esulta Taranto quando Starace arriva.
Lecce, città dell’Arte,
se ne fotte quando arriva
e quando parte.
Più tardi fui avanguardista, pantaloni tipo zuava e pugnale alla cintura; poi giovane del GUF (Gruppi universitari fascisti); infine Allievo ufficiale della Milizia universitaria. Il lavaggio del cervello aveva funzionato bene.
Le ragazze erano inquadrate in piccole e giovani italiane, le adulte in donne fasciste, tutte con rispettive divise. Da loro, attraverso la “campagna demografica”, i “premi di natalità”, l’ONMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia), il Regime pretendeva figli, soprattutto maschi al servizio della Patria, in sostanza carne da cannone.
I miei genitori, a Monteroni, chiamavano scherzosamente il più piccolo degli inquilini Rizzo, invece che Silvano, lu tremila lire, in rapporto alla somma ricevuta per la sua nascita.
Naturalmente s’incoraggiavano e favorivano i matrimoni, sicché nessuna meraviglia se fu istituita una tassa sul celibato, vera e propria multa, per gli uomini dai 25 ai 65 anni non sposati, differenziata secondo l’età. Così il Fascismo, oltre alla pubblica, invadeva anche la vita privata e le scelte personali dei cittadini. Condizionava il linguaggio e il saluto: abolizione del lei a beneficio del voi e del tu; abolizione della stretta di mano (poco igienica!..) sostituita dal braccio destro teso alla maniera degli antichi Romani.