di Andrzej Nowicki
Il programma riformistico della nobiltà polacca più progressista poneva dei problemi e rendeva difficile un giudizio complessivo. La lotta per i propri privilegi aveva aspetti decisamente negativi: rafforzamento dello sfruttamento dei contadini, servitù della gleba, impedimento dello sviluppo della città. Ma presentava anche aspetti positivi: lotta per il diritto di esprimere le proprie opinioni politiche e religiose, libertà di coscienza, libertà di stampa, tolleranza, allargamento del numero delle persone autorizzate alla partecipazione nelle decisioni politiche ed economiche dello Stato. La trasformazione della monarchia da ereditaria in elettiva creava la possibilità di imporre al candidato le condizioni per la sua elezione.
Dell’interregno, dopo la morte di Zygmunt August (1572), vale la pena ricordare i cosiddetti “articoli enriziani”, cioè le condizioni poste dalla nobiltà polacca al principe francese Enrico di Valois, che venne eletto re di Polonia nel maggio del 1573 (nove mesi dopo la strage degli ugonotti nota come la “notte di San Bartolomeo”, agosto 1573).
Prima dell’incoronazione il principe dovette giurare “inter dissidentes de religione pacem tuebor” e approvare la “confederazione di Varsavia” del gennaio 1573, nella quale i nobili polacchi, cattolici e protestanti, avevano promesso di conservare la pace religiosa “pro nobis et successoribus nostris in perpetuum sub vincolo iuramenti, fide, honore et conscientiis nostris”.
Tra le altre condizioni meritano la nostra attenzione e ammirazione due richieste relative ad esigenze culturali: il trasferimento di certi professori dalla Francia all’Università di Cracovia e la concessione del governo francese di cento borse di studio per consentire ai polacchi di studiare all’Università di Parigi.
L’attività svolta da Warszewicki nei periodi di interregno può essere giudicata da diversi punti di vista. Dal punto di vista della Polonia sorgono molti dubbi. Ma Tamborra sostiene che Warszewicki si elevò a posizioni più alte di “spirito cosmopolitico ed europeo”. Scrive: “Egli guarda dunque alla Polonia in chiave europea ed il confronto fra l’anarchia polacca e l’assolutismo regio che dominava negli Stati contermini, lo conduceva a sostenere la necessità di un adeguamento degli ordinamenti polacchi alle forme dell’assolutismo, perché la Polonia potesse sopravvivere. Egli mostra così di guardare giusto e lontano”.
Sarei d’accordo con Tamborra che guardare alla Polonia dal punto di vista degli interessi particolari è una posizione inferiore rispetto a quella di guardare “in chiave europea”. Ma quando egli esalta l’assolutismo regio e sostiene “la necessità di un adeguamento degli ordinamenti polacchi alle forme dell’assolutismo”, vedo che tra i nostri modi di intendere il concetto di “spirito europeo” c’è un abisso.
Per me lo “spirito europeo” è lo “spirito della libertà”, libertà di coscienza, di parola, di stampa, di ricerca, di associazione, libertà da tutti gli assolutismi e totalitarismi. La mia simpatia per il “secolo d’oro” della Polonia cinquecentesca sorge dal fatto che in quel periodo di guerre religiose, di roghi della santa inquisizione, di persecuzioni di “eretici”, la Polonia fu una delle poche oasi di libertà, dove tanti italiani, costretti a fuggire dall’Italia, trovarono una seconda patria.
Per gli italiani del Cinquecento “oasi di libertà”, ma per Angelo Tamborra “anarchia polacca”.
L’attribuzione di “spirito europeo” a Warszewicki serve a mascherare il tradimento della patria. Tamborra sa bene che Warszewicki fu “al servizio degli Asburgo”. Guardare alla Polonia in chiave europea significava guardare dal punto di vista degli interessi dell’Austria. Anche per Tamborra, Warszewicki “finisce per auspicare l’unione della Polonia all’Austria, sotto la dinastia aburgica”.