di Gianluca Virgilio
Giornata di Assemblea degli Studenti. Vista con gli occhi di uno studente degli anni Settanta, quale io sono, l’Assemblea degli studenti nell’anno corrente appare molto diversa. Tutto vi è disciplinato in modo puntuale e preciso da un comitato organizzativo di rappresentanti d’Istituto degli studenti diretti da un docente fiduciario del dirigente scolastico, con la supervisione del dirigente stesso. La componente anarchica delle assemblee degli anni Settanta, ovvero l’autogestione dell’assemblea, che a volte scatenava una lotta tra gli studenti su chi dovesse gestirla, è del tutto scomparsa. Rimane un’atmosfera di vacanza dovuta all’interruzione dell’attività didattica, durante la quale la scuola diventa un luogo dove si mangia, si fa musica a tutto volume, si ascolta più o meno distrattamente (cioè usando sempre il cellulare per non rimanere fuori dalla Rete) la conferenza di qualche malcapitato relatore, ecc. Il normale rapporto pedagogico studente-docente viene meno, in cambio di una – sembra – riappropriazione, a volte scomposta, degli spazi scolastici da parte degli studenti, mentre ai docenti è delegata una mera funzione di vigilantes. In realtà, tutto nell’Assemblea è previsto, tutto è stato disciplinato da un’apposita dettagliata circolare. Lo spazio della festa mensile studentesca è lo spazio chiuso degli ambienti scolastici, il tempo è scandito ora per ora, con un abbuono finale, che comporta l’uscita di scuola con un’ora di anticipo, del che tutti sono contenti.
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Le nostre città militarizzate in nome della sicurezza. Soldati pattugliano le strade per consentire che la vita scorra tranquilla, ovvero che il divertimento e anche lo sballo dei giovani non abbia interruzioni, che ci si possa perdere dietro il concerto di un cantante famoso o nella ressa allo stadio per assistere ad una partita di calcio. Che cosa è successo all’Occidente in cui viviamo (e non solo)! Quello che un tempo si chiamava popolo è ridotto ad una massa addomesticata, che il potere riesce a tenere a bada dentro ben precisi recinti. Quando parlo di potere, intendo il potere vero, come quello che hanno i mandriani sulle pecore, ovvero l’1% della popolazione mondiale sul restante 99%.
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Mai come oggi sembra rispondere al vero il detto di J. J. Rousseau, II, in Opere, Sansoni, Firenze 1972, nota IX, p. 81: “Non senza fatica siamo arrivati a renderci così infelici”.
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A scuola, rifletto con i miei studenti di quinta sulla gita scolastica, quello che si dovrebbe chiamare il viaggio d’istruzione. Ogni alunno vorrebbe raggiungere una meta diversa ma alla fine tutti gli studenti concordano nello scegliere Londra; solo che un viaggio di istruzione a Londra, organizzato da un’agenzia, costa troppo, e allora ciascuno è disposto a rinunciare al viaggio, che semmai farà con un gruppo ristretto di amici dopo la maturità o durante le feste di Pasqua. Siccome in me è sempre desto il demone dell’analogia, non posso fare a meno di pensare alla mia classe come allo specchio della nostra società disgregata. I miei alunni non trovano l’accordo su quanto un tempo si riteneva di importanza relativa, la meta da raggiungere. L’importante era stare insieme in un luogo lontano. Il viaggio prima della maturità era oggetto di discussioni infinite da ottobre fino al giorno della partenza e la meta, qualunque meta, sarebbe stata per mesi l’oggetto del desiderio e una ragione di vivere, di andare a scuola e studiare.
Aprile 1981: il mio primo viaggio verso una città fuori dalla Puglia, in terza liceo. Si andava a Firenze in treno e per tutta la notte rimanemmo svegli, aspettando l’arrivo del treno a Bologna verso le cinque, dove si sarebbe fermato per circa un’ora in attesa che i ferrovieri provvedessero a cambiare la motrice. Non riesco a credere che avemmo il coraggio, in quell’ora di sosta, sottraendoci alla vigilanza dei nostri insegnanti, di uscir fuori dalla stazione e di risalire lungo via Indipendenza fino a Piazza del Nettuno e a San Petronio, che ci si staglio all’improvviso davanti agli occhi nella luce nebbiosa dell’alba. Bologna, la città che mai dorme, si diceva, e noi diciottenni svagati, fatto dietrofront, a correre per non perdere il treno che ci avrebbe sbarcati a Firenze prima delle otto del mattino!
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A scuola, ho spiegato ai miei allievi della seconda classe che cosa significa l’espressione latina “panem et circenses”. Poi, con un volo pindarico, ho paragonato le pratiche del potere romano, con cui si teneva a bada la plebe urbana, a quelle del potere odierno, che, mutatis mutandis, non differisce di molto dall’antico. Ho aggiunto che difficilmente 60 milioni di italiani riuscirebbero a convivere fraternamente, se non ci fossero dei sistemi disciplinari tali da “inquadrare” tutte queste persone. Sarebbe il caos! I programmi televisivi, quelli sportivi, gli eventi di massa, i corpi dello Stato, compresa la scuola, servono a questo, a disciplinare la massa informe degli uomini. Mentre il discorso storico scivolava in tal modo, mi sono accorto che nella classe il livello dell’attenzione era notevolmente salito e tutti i miei alunni, in silenzio, mi guardavano con gli occhi spalancati, come se stessi rivelando loro una grande verità che li illuminava anche su un aspetto della loro vita personale.
In effetti, quando per una volta non ci limitiamo a fare quello che siamo abituati a fare, ma riflettiamo sulle nostre azioni, scoprendo a noi stessi le ragioni profonde dei nostri comportamenti, allora ci sembra che un nodo dell’esistenza si sia improvvisamente sciolto, e noi si sia capito qualcosa di molto importante per la nostra vita.
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Il tempo passa in fretta. Più passa il tempo più esso sembra accelerare. Mattini, pomeriggi, sere e notti si ripetono uguali ad un ritmo sempre più incalzante, tanto veloce da divenire incalcolabile. La lenta scansione del tempo dell’orologio appare addirittura insensata. In realtà, portiamo dentro di noi il tempo. Così nel tempo della vacanza sono già a scuola come nel periodo del lavoro ero già in vacanza. E così il tempo del viaggio e quello della lettura, il tempo delle passeggiate e quello del riposo, il giorno e la notte, il tempo della vita e della morte, il tempo della scrittura, in definitiva ogni tempo è qui con me come tempo condensato della mente, che non sa più cosa sia il movimento delle lancette o il battito del cuore, ma sente tutto questo contemporaneamente, come si legge il mondo intero in una mappa.
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Mi viene il dubbio che il mio giudizio sui giovani sia influenzato dall’età che avanza, dall’incipiente vecchiezza. È tipico del vecchio, infatti, denigrare i giovani a causa di un incontrollato sentimento di invidia; egli preferisce la laudatio temporis acti e la deprecatio temporis agentis, che sono sempre due facce della stessa medaglia: l’incapacità di capire il presente. Che il mio atteggiamento nei confronti dei giovani stia assumendo questo aspetto? Che io insomma non capisca più i giovani?
Confrontando i giovani di ieri e quelli di oggi, come posso dimenticare il conformismo dei miei coetanei, la sostanziale acquiescenza alle condizioni di vita nelle quali siamo vissuti, i miti, dai quali mi sono affrancato con non poco lavoro su me stesso? Ho forse dimenticato tutto questo? In realtà, i giovani d’oggi non sono molto diversi dai giovani di ieri, non sono migliori né peggiori, forse sono solo meno rozzi e più addomesticati. Come i miei coetanei di quarant’anni fa, sono ideologicamente ben allineati, vivono senza rimpianti e la loro unica preoccupazione, che dirige interamente il loro approccio alla vita, è di trovare una collocazione più che soddisfacente all’interno delle condizioni date e, se è il caso, darsi da fare per crearle. Vogliono farsi una “posizione”. Chi potrebbe biasimarli?
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Scrive Gustave Flaubert a George Sand: <<Mi sono incantato, è già otto giorni, davanti ad un campo di zingari che si erano stabiliti a Rouen. È la terza volta che ne vedo. E sempre con rinnovato piacere. L’ammirevole è che costoro eccitano l’Odio dei Borghesi, sebbene inoffensivi come agnelli. Mi sono fatto del male nel vedere la folla che dava loro qualche soldo. Ho, pure, ascoltato parole carine alla Prudhomme. Quest’Odio ha a che vedere con qualcosa di molto profondo e complesso. Lo si ritrova in tutte le persone perbene. Si tratta dello stesso Odio che si nutre verso il Beduino, l’Eretico, il filosofo, il solitario, il Poeta. C’è paura in quest’odio. A me che sono sempre per le minoranze, quest’odio mi esaspera. È anche vero che molte sono le cose che mi esasperano. Nel giorno che non sarò più indignato, cadrò riverso, come una marionetta cui avranno reciso i fili.>> (Flaubert a Sand, [Croisset], 12 [giugno 1867] mercoledì sera, in Fossili di un mondo a venire, Aragno, Torino 2004, p. 125).
Che cos’è che incanta Flaubert fermo davanti a un campo di zingari? Da dove deriva e in che consiste il “piacere” di quella visione? Nel campo di zingari Flaubert vede se stesso, la propria condizione di vita, il proprio essere beduino, eretico, filosofo, solitario e poeta. Il suo è lo sguardo di chi vive, come gli zingari, ai margini della società borghese, la società del perbenismo, dell’odio e della paura. Il suo “piacere” deriva appunto dal constatare che esiste ancora chi si sottrae alla logica borghese dell’odio e della paura. Flaubert guadando il campo di zingari non si sente più solo, sa che esistono altre persone che ragionano secondo criteri diversi rispetto a quelli della morale borghese, persone che mantengono intatto un incanto senza eguale nel mondo moderno. Vedi la risposta di George Sand che gli parlerà di un gruppo di pescatori che vive isolato nel Nord della Francia.
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Vado negli uffici della Posta per pagare le tasse. Mi guardo intorno e penso che improvvisamente qualcuno potrebbe entrare nella grande sala d’attesa, armato fino ai denti, e fare una strage. È l’effetto delle stragi quotidiane, di cui dà notizia la televisione, che in questo modo ha il potere di cambiare le nostre sensazioni, emozioni, il nostro modo di guardare agli altri e di stare insieme agli altri.
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Il sentimento della solitudine può essere gradevole, ovvero può generare una sorta di interiore contentezza? Quando si sia trascorsa la vita in modo attivo, la solitudine non può fare paura. Essa si accompagna sempre con un senso di pienezza, che nasce dalla consapevolezza che tutto quello che si è fatto e pensato aveva un prezzo da pagare e questo prezzo si chiama solitudine. Ma la solitudine era il presupposto per stare con gli altri su un piano superiore dell’esistenza, che non è quello della chiacchiera o dell’incontro mondano, ma quello del dialogo, della comune riflessione, dello scambio reciproco. Se non ci fossi tu, non ci sarei neppure io.
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Riflessione sul mio rapporto con la scrittura. Per me la scrittura non è mai stato il frutto di una pianificazione a tavolino, di una programmazione precisa, bensì il risultato di una condizione esistenziale che di volta in volta, senza neppure che io lo volessi, si traduceva in un racconto, un pensiero, una prosa. Mi sembra di capire che essa assolva al compito di portare ordine in una data situazione esistenziale, illuminandola, chiarendola, risolvendola. Senza la funzione ordinatrice della scrittura, ho timore che la mia vita scorrerebbe allo stato magmatico e non avrebbe forma.
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Il voler scrivere è un’espressione semanticamente sbagliata: sarebbe come forzare la vita. In realtà, è la scrittura che ci forza, come la vita.
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A tarda sera, non è il caso di uscire. Rimango in casa, in compagnia di Ornella, e considero l’attivismo delle mie figlie adolescenti e le numerose relazioni che esse intrattengono coi loro amici: proprio come accadeva a me tanti anni fa. Ne deduco che la nostra vita di adulti si è andata via via impoverendo di relazioni umane amicali, deprivandoci della voglia di uscire e andare qua e là insieme/incontro agli altri. Rimaniamo in casa, in compagnia del cane e dei gatti. Ci chiediamo se davvero abbiamo perso qualcosa strada facendo oppure se non siano stati proprio quell’attivismo e quelle numerose relazioni a portarci diritto verso la nostra attuale situazione esistenziale; insomma, se la calma di una serata come questa sia l’antefatto di una futura solitaria vecchiaia oppure il sintomo di una saggezza finalmente conquistata. In questi casi, sarà bene attenersi alla regola aurea di comportarsi quanto più naturalmente è possibile, senza strappi e senza forzature di sorta.
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Nella zona del mercato di Santa Maria al Bagno ho osservato il marciapiede che corre fino al lungomare; un marciapiede tutto particolare, diviso in tante parti quanti sono gli spazi antistanti le case che si affacciano sulla strada, resa angusta dalle numerose auto parcheggiate su entrambi i lati. Ogni proprietario di casa ha provveduto a pavimentare la “sua” porzione di marciapiede con mattoni utilizzati per il pavimento della propria casa, e così il continuum del marciapiede è variamente pezzato come il vestito di Arlecchino. Originale, vero? Certo! Lo spazio pubblico come il vestito di Arlecchino!