di Guglielmo Forges Davanzati
La recessione nella quale si ritrova di nuovo l’economia italiana ha una molteplicità di cause, fra le quali il rallentamento del commercio mondiale, le incertezze derivanti dalla crisi dell’Unione Monetaria Europea (Brexit inclusa), la restrizione del credito e il conseguente calo degli investimenti privati non compensato da un aumento degli investimenti pubblici e, non da ultima, il calo demografico.
Quest’ultimo interessa l’Italia nel suo complesso, con forte accentazione nel Mezzogiorno e rischia di accentuarsi a seguito della c.d. secessione dei ricchi (l’autonomia chiesta da Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna). E’ bene ricordare che, nel Rapporto annuale di tre anni fa, SVIMEZ, il principale centro studi sul Mezzogiorno, fece riferimento a una prospettiva – imminente – di “tsunami demografico” nelle aree più povere del Paese.
Qualche numero può dar conto dell’entità del fenomeno. Negli anni sessanta del Novecento, l’Italia era fra i dieci Paesi più popolati nell’ambito dei Paesi OCSE. Nel 2019, stando ai dati rilasciati da Neodemos (la rivista dell’associazione dei demografi), l’Italia è – per numero di residenti – al di sotto della ventesima posizione, con un peso relativo nell’ordine dello 0.8 rispetto alla popolazione mondiale, a fronte del 35% di Cina e India. E’ un fenomeno tipicamente italiano, che non riguarda, o riguarda molto meno, i principali Paesi dell’eurozona. L’invecchiamento della popolazione – misurato dall’incidenza degli over 65 sul totale dei residenti – è abbastanza contenuto in Francia, Spagna e Regno Unito (meno del 20%), più alto da noi (circa il 23%).
Le cause sono agevolmente intuibili. Innanzitutto, l’Italia ha dato la massima accelerazione ai processi di precarizzazione del lavoro, ai quali si è associata una contrazione di notevoli dimensioni della quota dei salari sul Pil. In secondo luogo, le misure di austerità attuate in Italia con maggiore intensità rispetto agli altri Paesi europei sono state calibrate essenzialmente come smantellamento del sistema di Welfare. In terzo luogo, la continua crescita della disoccupazione giovanile si è associata a un continuo aumento dei flussi migratori dall’Italia verso l’estero, senza successivi rientri. Si calcola, a riguardo, che nel solo 2018 le emigrazioni hanno riguardato 160 mila persone, senza flussi di rientro.
Il combinato di queste politiche ha reso sempre più costosa la scelta di far figli, riducendo i tassi di fecondità. Le nascite nel 2018 si sono contratte del 22% rispetto al 2008.
A ciò si è aggiunta la politica migratoria di questo Governo. A fronte di una riduzione dei flussi migratori in entrata – in atto già da qualche anno, anche per effetto del rallentamento della crescita economica italiana – il contrasto alle migrazioni ha prodotto una condizione di incertezza che ha scoraggiato l’afflusso in Italia.
Gli effetti macroeconomici di segno negativo di un saldo demografico in calo sono evidenti e riguardano:
- La tenuta del sistema pensionistico. Sebbene si tratti di questione molto controversa, giacché è da riconoscere che la tendenza degli ultimi trent’anni ad aumentare l’età di pensionamento non ha prodotto (come nelle intenzioni dichiarate) un aumento dell’occupazione giovanile, va riconosciuto che l’invecchiamento della popolazione – in assenza di misure di contrasto alla disoccupazione giovanile e alle migrazioni, e in assenza di politiche meno restrittive sui flussi migratori in entrata – impatta negativamente sulla sostenibilità del sistema pensionistico.
- La dinamica dei consumi. Poiché i giovani esprimono una più alta propensione al consumo, vi è da attendersi (cosa, peraltro, già in atto) che il progressivo invecchiamento della popolazione riduca i consumi interni, con effetti di segno negativo sulle prospettive di crescita dell’economia italiana.
- La produttività del lavoro. Per molte mansioni, i lavoratori giovani sono più produttivi dei lavoratori più anziani e, anche per questa ragione, l’invecchiamento della popolazione può incidere negativamente sulla crescita economica.
Non da ultimo, un saldo demografico negativo crea anche pressioni sul sistema sanitario, amplificando i flussi migratori da Sud a Nord per cure mediche. E’ in questo caso, forse più che in altri, che si rende palese l’ampliarsi dei divari regionali, che è destinato ad aumentare dovesse andare a buon fine la c.d. secessione dei ricchi, ovvero la richiesta di maggiore autonomia da parte di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. In altri termini, l’autonomia chiesta dalle Regioni più ricche del Paese rischia di accentuare i flussi migratori dal Mezzogiorno e di accentuare, per conseguenza, il problema dell’invecchiamento della popolazione residente.
La richiesta di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna è basata sull’assunto per il quale quelle Regioni – quelle nelle quali il Pil pro-capite è più alto – contribuiscono alla fiscalità generale più di quanto ricevono dallo Stato in termini di trasferimenti. La questione – apparentemente tecnica – attiene al c.d. residuo fiscale e alla volontà di trattenerlo in quei territori.
Non esiste, al momento, una stima attendibile del residuo fiscale. E, a riguardo, si possono porre le seguenti obiezioni rispetto al modo in cui le Regioni potenzialmente secessioniste intendono calcolarlo (ovvero come differenza fra entrate e risorse trattenute in loco), mettendo in evidenza che:
- le entrate nelle regioni del Nord sono più alte anche per effetto dei maggiori trasferimenti pubblici a loro vantaggio negli ultimi anni. In altri termini, come documentato, fra gli altri, dalla Ragioneria generale dello Stato, le politiche di austerità hanno penalizzato maggiormente le regioni del Sud, determinando un minore ammontare di spesa pubblica pro-capite;
- le uscite nelle regioni del Nord sono più alte non solo per il maggior reddito pro-capite, ma anche per effetto della minore tassazione che può aver contribuito all’attrazione di investimenti in quell’area.
C’è poi il duplice problema del come quantificare la detenzione di titoli del debito pubblico – detenuti prevalentemente da residenti al Nord – e soprattutto come quantificare l’apporto al Pil regionale derivante da produzioni intermedie derivanti da imprese meridionali. Si potrebbe aggiungere il problema della quantificazione del residuo fiscale sulla base del lavoro erogato in quelle regioni da soggetti provenienti da altre regioni, così come di imprese con residenza fiscale in quelle regioni ma con assetti proprietari in altre aree (del Paese o all’estero).
In sostanza, si tratta di una richiesta tecnicamente irricevibile. Solo con l’istituzione di un’agenzia terza che quantifichi l’esatto ammontare del residuo fiscale – oltre a fissarne i criteri per la sua sostenibilità nel ciclo economico – e dei c.d. livelli essenziali delle prestazioni l’operazione potrebbe avere una sua legittimità formale ed essere oggetto di una discussione su dati nelle Regioni che ambiscono a maggiore autonomia. Preoccupa il fatto che di un evento che potrebbe portare a una vera e propria secessione sono in pochi ad esprimersi, e che il principale – se non unico argomento dei secessionisti – sia l’annosa riproduzione della visione di un indifferenziato popolo meridionale nullafacente, vittimista e assistito con risorse provenienti dalle aree ricche.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 16 febbraio 2019]