Sanremo, all’Ariston le contraddizioni dei desideri di noi italiani

di Antonio Errico

Il festival di Sanremo è una contraddizione della storia. Il termine contraddizione non ha necessariamente un significato negativo, perché può anche accadere che una contraddizione esprima una visione delle cose accettabile nella stessa misura di una coerenza.

In quasi settant’anni, Sanremo è rimasto sostanzialmente identico alla formula iniziale. Come se intorno tutto fosse uguale a quando è iniziato. Come se non fosse cambiato assolutamente niente. Come se l’Italia fosse ancora quella che era, rurale e analfabeta, allegra nella sua innocenza, triste nella sua miseria. Quando cominciò era il principio degli anni Cinquanta. Un chilo di pane costava 115 lire, la pasta 180, la carne 870; un paio di scarpe da uomo 4.700, un biglietto del cinema 130 lire. Di quello che esisteva non esiste più niente. Nel bene e nel male. Il Paese ha cambiato identità, fisionomia. Un po’ per fortuna, un poco per sfortuna. Quella mutazione antropologica di cui parlò Pier Paolo Pasolini ha completato il suo processo. La politica, l’economia, i linguaggi, hanno assunto conformazioni completamente diverse. Il nostro modo di pensare, le preoccupazioni e le speranze, le storie che accadono sono completamente diverse.

Soltanto Sanremo è rimasto strutturalmente com’era. Una contraddizione, dunque. Ma forse solo apparentemente, in quanto il festival, in fondo, ha sempre voluto essere una grande illusione; anzi, una grande evasione, come dice il titolo di un libro di Gianni Borgna. Il festival racconta un universo che gira soltanto su se stesso, che non considera e non rappresenta altro che se stesso.

Forse non ha voluto e non vuole rappresentare altro che un altrove nel quale dimenticare il dove si è, il come si è veramente. Per decenni, soprattutto negli anni Settanta, noi abbiamo investito quell’universo con tutto il carico di ideologie, gli abbiamo scaraventato addosso massi di accuse di retorica, di ipocrisia, di perbenismo, di conformismo, di meschina borghesia. Ma non voleva essere altro che un mondo di canzonette, fatte per un italiano consapevolmente e orgogliosamente medio, che non voleva farsi inquietare da nulla e da nessuno, nemmeno da quell’urlo silenzioso che Luigi Tenco alzò nella notte tra il 26 e il 27 gennaio del Sessantasette.

Sanremo è passato, indifferente, attraverso il Sessantotto, gli anni di piombo, la stagione delle stragi, gli anni del riflusso, quelli dell’effimero; ha osservato, indifferente, i costumi, le mode, le voghe, i governi che cambiavano, i partiti che sparivano.

Sanremo cantava. Era questa la sua funzione. Anche nei termini di una contraddizione rispetto ai contenuti e agli scenari sociali. Una coerente contraddizione. Ha vissuto cinquant’anni di un secolo che ha entusiasmato e spaventato, è entrato nell’altro che sembra poggiare su di un terreno in continuo smottamento, e di quest’altro ne ha vissuto quasi altri venti. Cantando. Perché è questa la sua funzione.

Guardava ogni cosa che arrivava e si diceva: anche questa passerà, e quella passava, e il festival restava a cantare il suo disimpegno.

Ma probabilmente la salvezza del festival è stata proprio il disimpegno, che lo ha tenuto al riparo da qualsiasi turbolenza. Ha voluto concedere all’eroico italiano medio la possibilità di mettersi in poltrona, stendere le gambe e ascoltare le canzoni fino all’assopimento. Non voleva e non vuole essere attuale, Sanremo. Voleva e vuole essere una contraddizione della storia. Non accetta e non sopporta le interferenze del presente. Quello che succede fino all’istante in cui si accendono le luci, appartiene a quell’ altro universo ribollente. Il suo è fatto con la materia della quiete. Cambiano i cantanti, più o meno; cambiano le canzoni ( quasi per niente); ma l’impaginazione è quella di sempre. Me ne sono reso conto guardandolo per circa un’ora ogni sera: composto, elegante, educato. Per cui mi sono chiesto se non sia proprio di questa compostezza, di questa eleganza, di questa educazione fuori tempo che noi abbiamo desiderio, più o meno inconsciamente. Mi sono chiesto se non abbiamo desiderio, più o meno inconsciamente, di uno spettacolo fine a se stesso.

Un altro universo. Il festival comincia subito dopo il telegiornale, ed è un altro universo. Mi sono chiesto se l’eroico italiano medio, quell’italiano che ha fatto l’Italia e che continua a farla ancora adesso, non abbia proprio desiderio di questo, per qualche ora di qualche giorno l’anno. Mi sono chiesto se con queste domande non stessi, ancora una volta, commettendo l’errore di ideologizzare qualcosa che non vuole e non può essere ideologizzato, se non con il rischio di snaturarne la forma e la sostanza.

Allora, la messa in scena del disimpegno, probabilmente soddisfa un nostro desiderio, antico e consapevole: il desiderio della felicità. E’ questo che tutti vogliamo, che vuole ciascuno di noi. La felicità. Semplice. Domestica. Quotidiana. Che si può considerare come sinonimo di tranquillità, di serenità di vita e di pensiero. Vi chiediamo scusa, veramente, ma vogliamo dire che quando si guarda Sanremo, dopo neanche un’ora ci si addormenta con una sensazione di felicità senza pretese. Per neanche un’ora forse si riesce anche a non pensare a niente, se non ai contenuti di quelle canzoni che ancora – fortunatamente- raccontano un mondo che non c’è. Ne abbiamo bisogno. Vi chiediamo scusa di questo bisogno piccolo borghese. Perché il mondo che c’è lo sentiamo ogni minuto dentro, addosso, e a volte pare che ci sovrasti, che non ci faccia respirare. Vogliamo Sanremo a dispetto di certa presunzione intellettuale che intende ricondurre tutto in una dimensione rigorosamente razionale, coerente, coesa.

Ma a volte può farci comodo – certo, banalmente comodo – una contraddizione. Come quella di Sanremo. Che se ne frega di cosa accade nel mondo vicino e lontano, e continua con le sue canzoni, con i sorrisi fatti a forza, con il suo essere fuori dalla storia. Il festival vuole svagare l’eroico italiano medio che tutto il giorno si arrabatta per portare il pane a casa e, al tempo stesso, per mantenere in piedi quest’Italia.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 10 febbraio 2019]

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