di Antonio Errico
Sono passati quasi centotrent’anni da quando in una pagina del capitolo VIII del “Ritratto di Dorian Gray”, Oscar Wilde faceva riferimento a certa gente all’antica che non capiva di vivere in un’epoca in cui le cose superflue sono le sole necessarie.
Ma le epoche, per molti aspetti, si somigliano tutte. Probabilmente era la stessa cosa anche prima che Wilde lo dicesse, è così in quest’epoca, sarà così nelle epoche che verranno.
Probabilmente, per poche o molte cose dell’esistenza il nostro desiderio è richiamato prevalentemente dal superfluo, da quello che eccede la necessità, che non incide sulla condizione sostanziale dell’essere, sulla nostra quotidianità, sul nostro ordinario benessere. Del necessario si sente il bisogno più o meno forte; del superfluo si avverte il desiderio nella stessa misura, più o meno forte.
Accade la stessa cosa anche nei processi di conoscenza, nella nostra costante approssimazione al sapere.
Ci sono cose che è necessario, indispensabile conoscere, perchè molto spesso determinano la nostra relazione con gli altri, la nostra stessa sopravvivenza.
Ce ne sono altre che non sono altrettanto indispensabili, ma delle quali avvertiamo il desiderio, qualche volta anche inspiegabilmente. Le cose che in qualche modo hanno un rapporto con la bellezza, per esempio, quelle che si può dire che rientrino nella sfera dell’estetica.
Quelle non sono necessarie. Se la Cappella Sistina non esistesse, se non esistesse l’Infinito di Leopardi e nemmeno una musica di Mozart, la nostra vita sarebbe esattamente com’è, non avrebbe nessuna privazione. Eppure noi penseremmo in maniera del tutto diversa da quella in cui pensiamo, avremmo una visione del mondo diversa da quella che abbiamo, forse avremmo addirittura anche una diversa concezione degli altri e di noi stessi.
Siamo consapevoli che la Cappella Sistina, l’Infinito di Leopardi, una sinfonia di Mozart, non ci sono affatto necessarie, che non abbiamo bisogno di nessuna di queste cose per vivere con gli altri o per sopravvivere, che non ci danno nulla da cui trarre un vantaggio, che in fondo sono superflue, ma avvertiamo il desiderio di conoscere quella bellezza. Non solo. Ogni volta che s’incontra un’espressione di quel superfluo, si ha l’impressione di scoprire qualcosa di cui non ci si era accorti prima, ci si lascia sorprendere da una nuova meraviglia, e quanto più si conosce la cosa tanto più cresce la meraviglia.
Accade mentre si attraversa una città, e si incontra la facciata di una chiesa barocca, già incontrata decine e forse centinaia di volte, e ogni volta si scopre un particolare al quale non si era mai fatto caso, e ogni volta si avverte un nuovo o rinnovato stupore. Ma quella facciata in fondo è superflua: non ha la stessa necessità di un condominio di case popolari, o di un viadotto. Non agevola la nostra vita, non serve praticamente.
Si tratta di una situazione di cui è possibile fare a meno senza che la sua assenza condizioni in qualche modo pratico la nostra esistenza. Non solo la bellezza non è essenziale; non ha neppure un significato che la renda funzionale.
E’ soltanto desiderata, più o meno inconsciamente. Provoca un effetto di seduzione. Può non avere nessuna importanza che si conosca l’origine, la tecnica, la motivazione di un opera di Caravaggio. Però si rimane magari per ore a guardarla, come per un’ipnosi, senza capirla. Soltanto assaporandola. Interpretandola attraverso i sensi, che non rispondono a canoni. Non si entra nei significati di quella bellezza; si resta sulla sua soglia, sospesi, disorientati, ammaliati dall’amplesso della luce e dell’ ombra. Oppure si entra nell’opera con i significati delle proprie impressioni, delle percezioni e delle sensazioni, delle emozioni e delle commozioni, anche confuse a volte, senza nessuna organizzazione in categorie estetiche, in generi di forme. E’ la bellezza che si fa pelle d’oca, dice Remo Bodei: è quel sentirsi “colpiti all’improvviso da un sentimento più grande di noi, che non coincide con la situazione in cui ci troviamo. E’ estasi, il venire trasportati fuori da sé”.
Allora la bellezza del superfluo attribuisce un senso alla dimensione interiore: che non ha un’importanza minore rispetto al senso della dimensione esteriore: tutt’altro. La complessità e l’unicità dell’identità e della personalità si compongono di interiorità ed esteriorità, di superficie e di profondità, di significanti e di significati che producono effetto soltanto nell’equilibrio di una interrelazione, di una costante compensazione, di una dinamica reciprocità.
Si configurano situazioni in cui la comprensione dei significati della bellezza non si rivela determinante rispetto alla sua fascinazione. Non ha importanza individuarne i simboli, conoscerne le metafore, le stratificazioni semantiche.
La bellezza è lì: Esposta. Nuda. Superflua. Forse anche ridondante. Non ha alcuna intenzione di dire qualcosa, non ha la pretesa di significare, non vuole neanche stabilire relazioni con la storia. La bellezza proviene da una storia ma va oltre la storia. Forse è anche per questo che deve essere superflua. Perché il superfluo trascende il contingente, sconfina dal proprio tempo, si rende disponibile alla presunzione di immortalità. Immortale è qualcosa che riesce a non appartenere ad un tempo definito.
L’Odissea è immortale perché pur collocando la propria origine in un contesto temporale, con la pluralità e la costante rigenerazione dei suoi significati è riuscita a superare il contesto ed a richiamare chiunque, indipendentemente da qualsiasi competenza di storia o di filologia. Probabilmente colui che si ritrova dentro le scene, nel confronto con i personaggi, non si domanda nulla che abbia a che fare con la dimensione particolare ma rimane soltanto sbalordito da un ritmo e dalla rappresentazione dei destini che forse sono sempre gli stessi, in ogni tempo e in ogni luogo, per cui non hanno storia e non hanno geografia, ma una fisionomia in cui ciascuno ritrova una inquietante rassomiglianza oppure una dissomiglianza che lo consola.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 3 Febbraio 2019]