di Ferdinando Boero
Cattedrali nel deserto
Quando si inizia un’impresa si deve fare un piano industriale che valuti i costi e i benefici di quel che si sta per fare. E il piano deve essere a breve, medio e lungo termine. Certo, si possono fare imprese di vita breve, in cui si sfrutta un’occasione nel breve periodo e poi si chiude. Come fanno i negozi temporanei che sempre più sorgono nel periodo natalizio. Ma se si costruiscono grandi edifici che costano milioni e milioni di euro non si può pensare solo nel breve termine.
Il nostro territorio è stracolmo di cattedrali nel deserto. Si costruisce qualcosa perché c’è un finanziamento per farla, ma non si sa bene cosa poi si farà di quel che si è costruito. Succede anche per le ristrutturazioni di gioielli architettonici che stavano andando in malora. Si rimettono a posto, ma poi non si sa che farne. E dopo qualche decennio tornano quel che erano: ruderi.
Il classico del nostro paese è l’edificio bello nuovo, usato poco, che, pian piano, si deteriora. Non si fa manutenzione, i muri cominciano a scrostarsi, gli impianti si rompono, e magari i vandali iniziano ad agire. I vetri rotti non si riparano e inizia, appunto, la proverbiale sindrome del vetro rotto: si comincia con una piccola cosa e poi si finisce con il degrado totale.
L’unico modo per far prosperare un edificio è usarlo in modo proficuo. Prima, magari, accadeva che il politico che aveva “trovato i soldi” per costruire o restaurare, poi li trovava anche per assumere un bel po’ di persone che, in molti casi, facevano persino finta di lavorare, tenendo aperto un luogo che non frequentava nessuno. Ma i tempi sono cambiati. I posti fissi per non far niente sono sempre più rari. Mentre continua la disponibilità di moltissimo denaro per fare appalti per costruire edifici o per restaurarli. L’appalto è sempre in voga.
Il piano edilizio dell’Università del Salento ammontava a 300 milioni di euro, qualche anno fa. Poi è stato un pochino ridimensionato, ma i pacchi di milioni sono comunque pronti per essere appaltati. Intanto non si sostituiscono i docenti che vanno in pensione, gli studenti sono diminuiti, e i fondi per il funzionamento sono sempre meno. Avremo magnifici edifici e pochi professori ad animarli, il che richiamerà meno studenti. Non ci saranno i fondi per la guardiania, il riscaldamento, la manutenzione. Già non ci sono per l’esistente.
L’Università sta anche utilizzando un edificio ristrutturato per il suo valore architettonico, a Lequile. Bellissimo. Ma non è facile arrivarci, se non si ha l’automobile. E gli studenti che dovrebbero utilizzarlo in molti casi non hanno l’automobile. Lo stesso vale per un altro bellissimo palazzo, a Cavallino.
Vale la pena di collegare questo con la protesta della ricercatrice che ha vinto un progetto dell’European Research Council e che ha contestato il ministro Giannini perché è vero che a vincere è stata un’italiana, ma il progetto si farà in Olanda, perché in Italia quella ricercatrice non ha trovato collocazione. L’hanno trovata ricercatori che non vinceranno mai un progetto ERC.
Benissimo costruire grandi strutture, ma poi si devono riempire di ricercatori che vinceranno milioni di finanziamenti, con i quali si finanzierà la ricerca in quelle strutture, tenendole vive, in modo che attirino studenti e producano nuova conoscenza.
E invece il sistema non si cura di questo aspetto. Anzi, chi produce a alto livello viene espulso e va all’estero. Restano quelli che protestano perché non ci sono soldi per la ricerca e che si aspettano che i soldi arrivino a pioggia, indipendentemente da quel che si fa. Chi partecipa ai bandi europei, e li vince, viene espulso.
Ecco, nel piano industriale di queste nuove strutture bisogna prevedere l’utilizzo di personale ad altissima qualificazione, che farà progetti e li vincerà. E che sarà supportato da personale amministrativo efficientissimo, che aiuterà in tutto e per tutto ad affrontare le sfide che la progettualità europea impone.
La ricercatrice che ha vinto il progetto ERC ha portato sei milioni di euro di finanziamenti all’istituto che l’ha assunta. In Olanda. Penso che non sarà che il primo di tantissimi finanziamenti che questa persona produrrà. Il suo stipendio sarà ben compensato dalle acquisizioni che i suoi progetti produrranno. Le valutazioni del sistema universitario sono lo strumento per capire dove si può andare. Le bocciature di agraria e di scienze motorie, basate sull’inconsistenza delle proposte anche in base alla produzione scientifica sugli argomenti dei corsi, hanno difeso la nostra Università dal velleitarismo. Speriamo che questo non prevalga con la costruzione di altre cattedrali nel deserto. C’è un enorme edificio ancora vuoto: le foresterie dell’ISUFI. Sarebbe bello vederlo funzionare alla grande, assieme alla struttura ISUFI nel suo complesso, e poi iniziare a progettare altre cattedrali, in modo che non crescano in un deserto sempre più grande.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì 18 febbraio 2016]
E’ giusto premiare il merito
E’ in corso la protesta dei prof. universitari contro il blocco degli scatti stipendiali automatici. La protesta consiste nel rifiutare di presentare prodotti della ricerca ai fini della valutazione della qualità della ricerca (VQR). Tutto questo potrebbe essere superato in modo molto semplice, sia per incentivare il merito, sia per valutare le Università, senza spendere un soldo. La valutazione della qualità della ricerca, la cosiddetta VQR, alla quale saranno sottoposte tutte le Università italiane per attribuire i fondi che premiano la ricerca di buon livello, non è la valutazione dei singoli ricercatori. Questa è già stata fatta, anche se non viene molto sbandierata. Ciascun professore universitario appartiene ad un settore disciplinare (io, per esempio, appartengo al settore che studia gli animali: la Zoologia) e ne faccio parte assieme ad un certo numero di colleghi, sparsi nelle varie Università. All’interno di ciascun settore disciplinare è stata stilata una classifica dei professori ordinari che va da quello con la produzione scientifica più rilevante a quello con la produzione meno rilevante. Poi si identifica il punto che divide la classifica in due parti uguali (la mediana). Metà dei professori è sopra la mediana di riferimento e metà è sotto. Chi sta “sopra” può andare in commissione, per selezionare i futuri professori, chi sta “sotto” la mediana non è idoneo a decidere chi debba essere promosso. La logica è che chi sta al “sopra” tenda a promuovere i candidati migliori, mentre chi sta “sotto” tende a promuovere propri simili. Anche per i professori associati e per i ricercatori esistono criteri per definire chi sta “sopra” e chi sta “sotto”. E, quindi, per ogni docente universitario si conosce la collocazione rispetto alle “mediane di riferimento”.
Una domandina potrebbe essere: quanti in una certa università sono sopra le mediane di riferimento? Eh già, perché questa valutazione si fa per tutte le Università e non è detto che metà dei docenti di un’Università sia “sopra” e l’altra metà sia “sotto”. La migliore Università, da questo punto di vista, avrà la maggioranza dei docenti “sopra” e la peggiore avrà la maggioranza dei docenti “sotto”, con tutte le posizioni intermedie. La valutazione del sistema della ricerca sarebbe semplicissimo, valutando la qualità dei docenti che afferiscono ad ogni Università. Non costa niente, perché è già stata fatta. Sapete perché, invece, facciamo la VQR? Per garantire l’anonimato dei contributi alle valutazioni. Non sia mai che si possa dire che il prof. X ha contribuito più del prof. Y alla valutazione di un’Università! Posso dirlo? E’ una follia che costa centinaia di milioni di euro per pagare la valutazione dei prodotti. Fondi che potrebbero essere spesi per finanziare la ricerca. Come mai allora si decide altrimenti? Lo ha deciso il Parlamento, dove ci sono molti professori universitari. Magari sono sotto le mediane di riferimento… Sono problemi legati a un esercizio strampalato della democrazia. Le politiche delle Università sono decise in modo democratico. Può succedere, quindi, che nelle Università dove la maggioranza è al di sotto dei valori accettabili di produzione scientifica si eleggano a Rettore o Direttore di Dipartimento colleghi con simili qualifiche. Lo stesso vale per i Senati Accademici. L’autonomia lo consente, e non è difficile capire come sia arduo che si attui la tanto auspicata promozione del merito, in queste condizioni. Se la maggioranza è “sotto” sarà difficile che favorisca la minoranza di chi è “sopra”.
Oltre a valutare le Università in base ai valori dei singoli docenti, sarebbe anche facilissimo incentivare il merito attraverso l’attribuzione degli scatti biennali di stipendio, ora bloccati. Chi è “sopra” viene incentivato con l’aumento. Chi è “sotto”, no. Ma i risultati delle valutazioni scorse non sono stati tenuti in gran conto per decidere la politica di molte Università. E quindi uno potrebbe dire: ma perché devo contribuire alla valutazione, se poi il mio contributo all’attribuzione delle risorse ministeriali non viene tenuto nella minima considerazione quando si decide localmente come dividerle? E qui si torna al sistema democratico, in cui la maggioranza vince. Le Università dove la maggioranza dei docenti è “sotto” il livello qualitativo ritenuto accettabile raramente realizzano politiche che penalizzerebbero la maggioranza degli elettori. Le Università “virtuose” stanno iniziando a reclutare i professori “sopra”, in fuga dalle Università che li penalizzano e che sprofonderanno sempre più “sotto”. Con questi comportamenti si sta realizzando la divisione in Università di serie A e di serie B. Sarebbe bene rendere esplicita questa strategia, perché incide molto sul livello qualitativo delle Università in cui si formano le nuove generazioni. Ogni città deve chiedere alle proprie Università: voi in che direzione state andando?
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 6 marzo 2016]
Il mio sciopero contro l’università dove il merito non conta
Lo stipendio dei professori universitari è bloccato da anni. Non è chiaro il motivo di questa punizione “a pioggia”, a fronte di continue dichiarazioni di valorizzazione del merito. In queste settimane sono state rese note le soglie di produzione scientifica che i singoli docenti devono superare per entrare in commissioni che valutano candidati alle abilitazioni a ruoli superiori. Un segnale forte. Chi non raggiunge le soglie non è ritenuto idoneo a decidere gli avanzamenti di carriera. Continuo a leggere, e scopro che posso fare domanda per far parte delle commissioni, sempre che la mia produzione scientifica superi la soglia. La supera. Ma non farò domanda. Andare in commissione significa far fronte a procedure bizantine in cui domina la compilazione meticolosa di verbali. E questa sarebbe l’incentivazione del merito? Mi aspettavo qualcosa tipo: questa è la lista di chi supera le soglie, da questa saranno estratti i commissari per le abilitazioni e per chi supera i livelli di qualità lo stipendio sarà sbloccato. Chi è sotto non andrà in commissione e il suo stipendio resterà bloccato. Mi aspetterei anche di più. Chi è sotto le soglie minime di qualità, oltre a non poter giudicare i candidati alle promozioni, non dovrebbe avere accesso ad alte cariche, come Rettore, Direttore di Dipartimento, Senatore Accademico. Per queste cariche l’asticella dovrebbe essere superiore rispetto alle semplici abilitazioni. Invece questi limiti non esistono, con il paradosso che a dirigere un’Università ci sia chi non è ritenuto idoneo a giudicare chi aspira a cariche superiori. Il “premio” per chi supera le soglie qualitative è di poter fare domanda per assolvere adempimenti burocratici. No grazie! In passato i professori sgomitavano per andare in commissione per piazzare i propri allievi. Sarebbe questo il premio? La mia personalissima protesta contro la disincentivazione del merito consiste nel sottrarmi agli incarichi burocratici, continuerò a privilegiare gli obiettivi rispetto agli adempimenti. Le tre missioni dell’Università sono: didattica, ricerca, rapporti con il territorio. La burocrazia non fa parte della nostra missione e, invece, sta diventando la parte preponderante del nostro lavoro. Con una vessazione burocratica che stiamo accettando con troppa rassegnazione. I concorsi non si dovrebbero fare. Ognuno dovrebbe scegliere chi gli pare. Poi le valutazioni (e non i verbali di un concorso) dovrebbero ratificare la bontà della scelta, con sanzioni anche su chi l’ha effettuata, in termini di blocco stipendiale, e di penalizzazione delle Università, in caso di scarso rendimento dei vincitori. Innescando una competizione tra Università per accaparrarsi i docenti migliori. Ora siamo a metà del guado. Valutiamo, ma poi? Lo stipendio di chi raggiunge i requisiti di qualità è identico a quello di chi non li raggiunge. E, ora, è bloccato per tutti. Lo stipendio di un mio omologo francese è doppio rispetto al mio.
“La Stampa” e “Il Secolo XIX” di sabato 20 agosto 2016]
La ricerca di base è il motore dell’innovazione
Il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca ha appena istituito nuovi corsi di dottorato di ricerca, sono innovativi e a forte vocazione industriale. E sono rivolti alle regioni del sud del paese. Dovrebbe essere una buona notizia, in parte lo è, ma in parte no. Nel nostro paese gli investimenti privati in ricerca sono molto esigui: il mondo produttivo è frammentato e non ha la massa critica per intraprendere ricerca di grande respiro. Ai consorzi di ricerca privata nel nostro paese non ci si pensa gran che, e quindi, alla fine, ci si aspetta che sia il pubblico a dover investire in ricerca. Questi dottorati a vocazione industriale dovrebbero essere finanziati dall’industria: i soldi pubblici dovrebbero essere investiti per la ricerca di base che, invece, viene penalizzata. E’ un paradosso italiano. Croce e Gentile disegnarono i percorsi scolastici dando rilievo alla cultura umanistica, confondendo la scienza con la tecnica e dando dignità scientifica solo alla matematica. Nell’istruzione pre-universitaria il messaggio è univoco: la cultura umanistica è essenziale, formatrice, utilissima. C’è un pochino di dignità alle scienze: la settimana della cultura scientifica concede che, su 52 settimane, almeno una sia della scienza. La tecnologia è di livello inferiore e, quasi invariabilmente, non viene considerata cultura.
All’università le cose cambiano. Chi segue la naturale propensione alla cultura derivante dai percorsi formativi si ritrova in corsi di laurea molto affollati e che non danno grandi possibilità occupazionali. La massa enorme di precari nella scuola ne è la testimonianza più drammatica. Le facoltà umanistiche e quelle scientifiche “pure” non offrono grandi opportunità occupazionali nel “mondo produttivo”, mentre quelle tecniche sono più promettenti. Un mondo rovesciato rispetto a quello della scuola. Da sempre mi batto per il riconoscimento a pieno titolo della scienza come forma altissima di cultura e ora, parlando di scienza di base, mi riferisco anche a quelle branche del sapere che chiamiamo scienze umane. E la distinguo dalla ricerca applicata. La scienza di base non ha fini applicativi, ma è il motore dell’invenzione e dell’innovazione; ne è, appunto, la base. L’innovazione non si prevede, soprattutto quella più rivoluzionaria. Le nuove strade si trovano facendo “altro”. Se si concentra tutto sulla ricerca applicata si lavora a breve termine e non si guarda lontano: bisogna promuovere entrambe. Al nord le industrie private sono abbastanza grandi da potersi permettere ricerca innovativa, ma al sud no. Anche al nord la ricerca di base è marginalizzata. Ma la ricerca applicata va avanti con buone risorse. Il ministero dà ora anche al sud questa opportunità, e quindi finanzia questi dottorati innovativi a carattere industriale. Per me è un errore. Il sud ha le potenzialità per diventare il luogo dove sviluppare la scienza di base, senza bisogno di scimmiottare il nord. Scienze umane e scienza pura, guidata dalla curiosità, possono essere coltivate in modo esemplare qui al sud. Nel medio e lungo termine anche queste hanno valore applicativo e preventivo. Penso ai beni culturali, alla cura dell’ambiente, e a tutte le branche del sapere non tecnico. Penso alla filosofia e alla storia, alle antiche lingue. Tutto questo richiede ricerca. I dottori di ricerca servono al paese per essere avviati alla ricerca scientifica. In qualunque campo. E invece una miope visione del progresso regala agli industriali dalla manina corta (avari di finanziamenti alla ricerca) i fondi per creare risorse umane che forse, ripeto forse, potrebbero utilizzare in futuro. Dico forse perché ci siamo già passati. Il Pastis di Brindisi era stato concepito per sostenere (con denaro pubblico) la ricerca tecnologica da mettere al servizio dell’industria (privata). E’ fallito. Il mondo produttivo non lo ha saputo valorizzare. E corriamo il rischio che questi dottori di ricerca non trovino impiego per produrre nuova conoscenza tecnologica, attraverso la ricerca, ma siano utilizzati per la produzione di cose “inventate” da altri, altrove. Continuando la tradizione di disinteresse per la ricerca da parte del mondo privato nel nostro paese. Il sud potrebbe essere il centro del pensiero che evolve e che supporta culturalmente l’azione. Il nostro Paese ha abbandonato la ricerca di base e sta rapidamente declinando anche per drammatiche carenze culturali. La ricostruzione del Paese passa dalla cultura e il sud ha la giusta vocazione per diventare la fabbrica della cultura del paese. E invece continuiamo a fare gli stessi errori del passato, immemori dei fallimenti continuiamo a perseverare, diabolicamente. Proprio come i milioni destinati all’edilizia universitaria, che sarebbe stato “un peccato” perdere, questi dottorati possono avere solo finalità applicativa. La scienza di base non è prevista. E quindi li faremo, come abbiamo fatto edifici per cui ora non abbiamo risorse per gestione e capitale umano, visto che il personale universitario diminuisce. E, ancora una volta, si avverte la carenza di visione politica. Se i soldi arrivavano solo per bandire appalti edilizi, e ora arrivano solo per dottorati a vocazione industriale, significa che qualcuno ha scelto di destinarli a questo. I politici servono a dare linee di sviluppo, e pare sappiano solo ripetere gli stessi errori, con una esemplare e pervicace vocazione al fallimento.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 8 settembre 2016]
Il futuro dell’università dipende da quanto di eccellente ha da offrire
Leggiamo che ogni anno, a centinaia di migliaia, gli italiani hanno ripreso ad emigrare per cercare condizioni migliori e, questa volta, non sono braccianti analfabeti con le valigie di cartone ma, invece, laureati che trovano altrove il riconoscimento del valore del proprio titolo di studio. Qui non lo trovano. Inoltre, diminuisce il numero di iscritti all’Università. Tutto questo indica un degrado del livello culturale del nostro paese. Gli elementi più validi, preparati a spese dello Stato, vanno via perché il paese non sa che farsene di loro; altri elementi potenzialmente validi rinunciano a livelli alti di istruzione, consci che questo non migliorerà le loro prospettive di sviluppo personale. Il sistema universitario si trova tra due fuochi. Da una parte non viene più visto come ascensore sociale, dall’altra vede che ciò che produce è inutile per la crescita del paese e viene invece assorbito da altri paesi.
Paradossalmente potremmo arrivare alla conclusione che l’Università non serve più a soddisfare i bisogni del Paese. I giovani con alta formazione finiscono nei call center (che però si stanno trasferendo in paesi dove chi risponde al telefono viene pagato molto meno che da noi) oppure se ne vanno. I fortunati che trovano impiego sono pagati pochissimo e faticano a formarsi una famiglia in modo indipendente.
A questo punto che si torni al bracciantato in agricoltura. Che poi è quello di cui abbiamo bisogno: le nostre campagne sono stracolme di immigrati che lavorano per la mera sussistenza. Fanno lavori che noi italiani non vogliamo più fare ma che, volenti o nolenti, saremo costretti a riprendere. Un ritorno al proletariato, incoraggiato dal fertility day.
Inutile dire che un paese con questa prospettiva è sulla via del declino totale. Non possiamo accettare questo stato di cose. Noi universitari che possiamo fare? Ci hanno bloccato gli stipendi: perché investire su risorse umane (noi) che producono solo problemi? Un laureato disoccupato o sottoccupato è arrabbiato e insoddisfatto, un semianalfabeta accetta di buon grado un lavoro sottopagato. Noi non serviamo più.
Mi guardo attorno e mi dico: che senso ha il mio lavoro? Cosa posso fare? La mia risposta, per quel che vale, è questa. Ogni università deve fare un inventario accurato del suo potenziale e decidere quali sono le aree in cui ha raggiunto livelli (ora uso una parola usurata) di eccellenza. L’eccellenza si esprime con la produzione di nuovo sapere e con l’attrazione di fondi per la ricerca. Non vale la pena ora spiegarlo in modo dettagliato ma, vi assicuro, che non è difficilissimo capire quali siano i punti di forza di ogni università. La didattica deve essere offerta nelle aree in cui ogni Università esprime il meglio di sé. In modo che il titolo acquisito dia le migliori garanzie di qualità. In tutto il mondo, il prestigio delle Università è legato al prestigio dei docenti.
Inutile sperare di costruire cose nuove, in un periodo di recessione e di restringimento dei fondi. Si corre il rischio di erodere il buono che si ha da offrire per costruire qualcosa che ancora non c’è e che richiederà investimenti impossibili. L’offerta didattica va ridimensionata alle “eccellenze” e su queste si deve puntare per attirare finanziamenti per la ricerca, in modo da innescare circoli virtuosi che tendano a far aumentare la valenza dell’ateneo. Se non si hanno personalità di prestigio, gli studenti non sono attirati.
Il nostro dovere, proprio in questo momento di crisi, consiste nel perseguire risultati ambiziosi, per arrivare a livelli qualitativi molto alti, in modo da attirare i giovani che aspirano a formazione di alto livello. Questa strategia è sancita in ogni pronunciamento che persegue la “valorizzazione del merito”. Ma non basta dirlo, bisogna farlo. Deve passare il concetto che se si vuole una formazione di alto livello nella disciplina A bisogna andare nell’Università X, mentre se le aspirazioni sono nella disciplina B bisogna andare nell’Università Y. Non esistono Università dove il livello è alto in tutte le discipline. Ogni Università deve prendere atto della situazione che storicamente si è determinata al proprio interno, e deve puntare sulle aree in cui si sono raggiunti obiettivi di rilevanza nazionale e internazionale. Il sistema universitario pugliese, in un tale contesto, ci dice che a Foggia si ottiene una ottima formazione in un dato campo, a Bari in un altro, a Lecce in un altro ancora. E, se si riesce a raggiungere una qualità sufficiente, si può pensare di attirare studenti da altre regioni.
Vedo che sono in molti a contestare le valutazioni ministeriali. Che si trovino altri criteri, ma non si può dire che in tutte le Università il livello qualitativo sia identico in tutte le aree del sapere. Sappiamo che non è così. Le Università che comprenderanno quale strategia perseguire, e io non ne vedo altre, riusciranno, magari consorziandosi, a sopravvivere e, nel medio termine, a prosperare. Quelle che non sapranno leggere i segnali fortissimi che ci stanno arrivando da tutte le parti si troveranno sulla via del declino inarrestabile, ridotte a semplici esamifici, succursali di Università che “hanno capito”. Le loro lauree saranno di livello qualitativo inferiore rispetto a quelle erogate da università prestigiose nei loro campi di elezione.
E’ una visione difensiva, la mia. In un mondo perfetto, potremmo pensare che è meglio avere moltissimi laureati anche mediocri, rispetto a moltitudini di non laureati. In ogni caso il livello qualitativo della popolazione aumenterebbe. Il fatto è che, nel breve termine, non ce lo possiamo permettere, e che creiamo aspettative che non trovano soddisfazione. Nel medio e lungo termine dovremmo perseguire un sistema-paese che abbia bisogno di una popolazione di alta qualificazione intellettuale perché è solo così che si esce dal declino. Ma questo pare che sia ancora lontano dai piani di chi disegna il nostro futuro. Noi universitari, ora, dobbiamo pensare a tenere in vita gli Atenei e l’unica strada percorribile è la valutazione del merito nel costruire nuovo sapere (la ricerca) e l’alta qualificazione dell’offerta formativa. Se non lo capiremo… distruggeremo la nostra Università.
Questo problema non è solo dell’Università ma di tutto il territorio. Riuscite a concepire, oggi, il Salento senza l’Università del Salento? E’ un patrimonio comune e deve essere salvaguardato da tutti, e non solo dagli universitari. Non possiamo essere lasciati soli a risolvere questo problema.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 9 ottobre 2016]
Università al bivio: didattica, o ricerca e didattica?
La nostra reputazione è quello che gli altri dicono di noi. Sono state rese pubbliche le valutazioni della ricerca e l’Università del Salento, nel suo complesso, ha una posizione bassa nella classifica. Tutti i media ne parlano e questo mina la nostra reputazione. Il valore di una laurea dipende dal valore di chi la conferisce, e l’attrattività didattica è condizionata dalla qualità della ricerca. Un’Università ai primi posti nelle valutazioni della ricerca attrae più studenti di un’Università che naviga nella bassa classifica.
L’esito della valutazione è anche legato a una protesta dei professori, perché il nostro stipendio bloccato da sei anni mentre tutti gli altri comparti pubblici non sono stati penalizzati. Esiste una volontà diffusa di criminalizzare le Università e i professori universitari sono spesso dipinti come clientelari, nullafacenti e inefficienti. Se i laureati italiani emigrano all’estero, significa che lì sono molto apprezzati e se lo sono significa che non facciamo poi tanto male il nostro lavoro. Alcuni hanno scelto di protestare non presentando i prodotti della ricerca ai fini della valutazione; i prodotti non presentati vengono contati come mancanti e questo influisce sulla valutazione. Pur condividendo la protesta, molti hanno ritenuto di presentare i prodotti (me compreso) ma l’adesione dei docenti di Unisalento è stata molto superiore rispetto a quella delle altre Università e questo ci ha certamente penalizzato. Il punteggio ottenuto dall’Università del Salento è il risultato dei punteggi ottenuti dai vari Dipartimenti che, a loro volta, sono il risultato della somma dei punteggi ottenuti dai singoli ricercatori afferenti. Alcuni Dipartimenti sono stati valutati bene o abbastanza bene, altri sono agli ultimi posti in Italia. Il risultato totale è la media dei risultati dei Dipartimenti. Le valutazioni rivelano Dipartimenti con buona ricerca e altri che non sono all’altezza delle aspettative, a volte a causa di una maggiore adesione alla protesta. Qualificazioni particolarmente basse annullano le qualificazioni alte, ed ecco il basso risultato della nostra Università.
Sarà bene analizzare accuratamente i risultati della valutazione e prendere adeguati provvedimenti per le prossime. Ci sono aree in cui i livelli dell’Università del Salento raggiungono standard europei. In altre raggiungiamo standard nazionali e in altre ancora siamo al cabotaggio regionale. E’ necessaria una politica di incentivazione del merito, per valorizzare quel che di buono esprimiamo e lavorare perché ciò che è meno buono diventi buono. In democrazia, se la maggioranza rientra nella categoria del “meno buono”, la maggioranza prevale (come nella statistica). E se il “meno buono” rifiuta le proprie responsabilità e promuove politiche di conservazione del proprio status indipendentemente dalla valutazioni, le conseguenze si pagano. Diminuiscono i fondi, diminuisce l’attrattività verso gli studenti, diminuisce la motivazione di chi ha ottenuto buone valutazioni. Le altre Università reclutano i soggetti competitivi, magari attingendoli dalle liste di abilitati a ruoli superiori, senza che si investano risorse per farli restare. Uno è partito per Trieste l’altro ieri.
Questo mina la nostra reputazione e porta l’Università verso il declassamento. Se la ricerca è di basso profilo e si punta solo alla didattica, si diventa un esamificio. Invece di essere un ascensore sociale, l’Università diventa un ammortizzatore sociale e serve per tenere impegnati per qualche anno i futuri disoccupati intellettuali.
La valutazione della ricerca non è svolta in modo ottimale, sono il primo a dirlo. E’ come la democrazia: è un sistema imperfetto, che si può migliorare, ma ne conosciamo di migliori? Possiamo migliorarla internamente e indirizzare su questo le strategie future. Per garantire la nostra immagine dobbiamo valorizzare i buoni risultati e, internamente, lavorare per incentivare il miglioramento. Pensando anche a penalizzazioni per chi si ostina a non ritenere importante la buona qualità della ricerca. Oramai non si può più ignorare che la ricerca è importante e le decisioni future andranno ben meditate alla luce di queste valutazioni. Il Salento ha le carte in regola per esprimere un’Università di serie A (con didattica e ricerca) e non di serie B (con poca ricerca e molta didattica) e l’Università ha la possibilità di essere all’altezza delle aspettative. Se si guardano le valutazioni ci sono molte aree in cui siamo un’ottima Università e, nonostante questo risultato apparentemente negativo, sono fiero di appartenervi!
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 22 dicembre 2016]