di Evgenij Permjak
Dalle nostri parti qualunque monte è una favola, qualunque poggio è la premessa faceta ad una favola. Sarebbe difficile fare mente locale ad ogni avvenimento del passato, qualcosa, tuttavia, si può estrapolare ed esaminare minuziosamente. Ecco, diciamo, perché non menzionare la storia del monticello Calvo e di Diavolossaev stesso…
C’era una volta e viveva sul monticello Calvo un uomo di nome Fëdore di cognome Ogol’zov, in lingua italiana sarebbe Fëdor Denudaev, un cognome che già per sé era tutto un programma: è come dire, che era assai poco protetto Fëdor, nudo davanti ad ogni sorta di disgrazie. Come se non bastasse, la gente aveva dato a Fëdor Denudaev anche un soprannome: “Grazia Divina”. Venne chiamato così, perché Fëdor Denudaev aveva subito innumerevoli incendi di casa per “grazia divina”, da fulmini. Non appena si ricostruiva la casa, vi si trasferiva per abitarvi con la famiglia, paff – un fulmine -, pscik – una vampata –, non c’era più la casa. Al suo posto rimaneva un mucchio di fuliggine: poteva, giusto, toglierne l’eccesso, zappare l’orto e piantarvi le rape.
Sul terreno bruciato le rape crescono meravigliosamente: dolci, oleose.
Per Fëdor Denudaev però era assai amaro ricostruirsi la casa tutta daccapo. Era poco consolante sapere che il legname lo aveva gratuitamente, come le sue braccia, che non doveva comprare, ma doveva faticare, eccome, con l’accetta per tagliare dalle dodici file di travi rotonde quarantotto angoli da incastro. Queste erano soltanto le travi portanti, che andavano messe direttamente sul muschio del terreno. Ma c’erano pure le travi maestre del solaio, anch’esse da mettere ad incastro per montarvi sopra le assi di legno dei soffitti e dei pavimenti, in modo tanto fitto, da non lasciar alcuna luce tra loro, se non vuoi farti scrosciare la terra in testa, quando i padroni di casa, insieme agli ospiti alle feste, si gettano in una frenetica danza alla russa. Eppure senza le capriate, un’isba non era un’isba vera. Se la copertura della casa era a quattro capriate, si dovevano sempre segare otto cappi e dopo incastrarli. Per non parlare delle finestre! Ammettiamo pure fossero solo tre. Si trattava comunque di sei infissi a ventiquattro vetri. Solo di stucco per vetri se ne doveva consumare un grosso mucchio, se non volevi che il freddaccio dormisse insieme ai tuoi figlioli, sulla stufa con giaciglio alla russa.
Si arrabattava Fëdor, si sbracciava, si estenuava, ma non si dava per vinto.
«Ma perché non abbandoni, Fëdor, il tuo monticello Calvo della malora?» – dicevano tutti.
E lui: «Non posso. Non posso assolutamente! Si tratta di un lascito di mio padre. E’ una terra di famiglia. Inoltre c’è una bella vista dal monte. Per non parlare delle coltivazioni: le verdure crescono sul monticello come in una serra. Sul versante meridionale il sole scalda, coi raggi diretti, la terra in profondità, non meno che fino a settanta centimetri.»
Ed era vero, le verdure sul monticello Calvo crescevano e maturavano da lasciar tutti a bocca aperta. Il monticello era collocato assai bene. Su un’area aperta in cui il sole batteva tanto forte che sarebbe potuto bastare per riscaldare alcune regioni, il vento non si faceva né sentire né vedere, in quanto il monticello Calvo era protetto da un altro monte. Anche la vastità del terreno sul monticello era da godersi all’infinito. Ai piedi del monte la neve, di solito, stava appena appena per cominciare a sciogliersi, sopra il monte invece era oramai asciutto. Fai quel che ti pare: se vuoi gioca ad aliosso, se vuoi mettiti a vangare un orto.
«Non me ne andrò da nessuna parte lontano dal mio monticello Calvo. Da nessuna parte!» – disse Fëdor, dopo aver ricostruito per la quinta volta la sua casa.
Da lì a poco subì un tale incendio che se la cavò a gran fatica. Tirò fuori dalla casa in fiamme a malapena i suoi bambini, ma della vacca pregna non rimasero né corna né zoccoli. Si trasferì ad abitare nel loro bagno-russo, che si trovava a dovuta distanza dal monticello. Fëdor si installò nel bagno e si mise a riflettere. Tanto si impensierì, che divenne nero in volto.
I parenti e gli amici si misero ad esortare Fëdor.
«Abbandonalo, il tuo monticello! Costruisciti una casa a valle! Smettila una buona volta di fare a braccio di ferro con il fulmine e di sfidare la volontà divina! Non sfidare il fato. Sii ragionevole, smettila di contrariare Dio.»
Fëdor taceva. Si morse la punta della barba. Mancò poco che se la staccasse coi denti a furia di ponderare. Arrivò sul monte anche un prete locale – Padre Michail – che si mise a predicare, dicendo: «E’ probabile che qui una setta di vecchi credenti abbia affermato con le preghiere il suo credo, cosicché Dio maledì per sempre questo monte.»
La fermezza di Fëdor cominciò a vacillare. Decise, a questo punto, quasi definitivamente di scendere dal suo monticello Calvo e di stabilirsi per sempre a valle, quando capitò nella sua casa una povera donna di passaggio. Una di quelle povere disgraziate che si trascinavano da un villaggio all’altro, da casa in casa, per domandare un po’ d’ospitalità e l’elemosina. Fece una breve sosta presso Fëdor e, venendo a conoscenza dei suoi guai, disse: «Puoi, brav’uomo, credermi o no, ma hai soltanto una via d’uscita: rivolgerti a Diavolossaev per un consiglio. Potrei io, se vuoi, combinarvi un incontro. Non ti farà male di certo. Peraltro, lui non pretende del denaro per un consulto. Per il suo aiuto, la gente lo ripaga con affetto.»
Qui facciamo una breve sosta per raccontarvi di quest’uomo che aveva lo strano nome di Diavolossaev.
Di quali origini fosse quest’uomo, non lo so dire. Un deportato, un confinato dalle nostri parti a vita, un apostata dello zar, non si sa. Dove abitasse, pure non si sapeva. Quello che so per certo è che era ben voluto dalla gente semplice, pur se era un po’ temuto. Bene o male, il nome soltanto, Diavolossaev, era sufficiente per capirne la ragione. Era come dire, che aveva un legame stretto e un patto con il diavolo. In verità, invece, quest’uomo di scienza non riconosceva né Dio né Lucifero. La gente cattiva – funzionari ed ufficiali di polizia corrotti – avevano soprannominato Diavolossaev, quest’uomo senza nome, per fare paura e per spaventare i popolani semplici, ai quali egli veniva sempre in aiuto. Era ben conosciuto anche dai locali signori, poiché dava buoni consigli agli uni e smascherava le malefatte degli altri. Tra i signori c’era pure gente assai diversa. Ma quelli di loro, di cui Diavolossaev contrastava i disegni, sarebbero stati felici di farlo fuori una volta per sempre. Ma come? Rovini lui, distruggi te stesso. Diavolossaev sapeva moltissime cose dei capi locali. Peraltro la gente del popolo difendeva a spada tratta il suo benefattore, perché era capace di proteggere e nascondere un poveraccio da cento ufficiali di polizia e in modo che era meglio non cercarlo, perché rischiavano loro stessi di finir male.
E’ così che viveva, è così che si nascondeva tra i nostri boschi degli Urali un brav’uomo con uno strano, incoerente soprannome, Diavolossaev.
Un giorno Diavolossaev giunse sul monticello Calvo e disse a Fëdor Denudaev: «Fatti forgiare, Fëdor, una lancia di rame lunga tre sagene e grossa quanto un braccio. Allunga il piede della lancia con un massello di ferro, grande come un grosso ciocco di legno e poi piantala nella terra per un metro e mezzo. Pesta bene attorno la terra, in modo che la lancia stia bella solida e dritta. Dopo mettiti a costruire una nuova casa. Eccoti, prendi, centoventicinque rubli.»
Diede a Fëdor una cartamoneta da cento rubli, denominata dal popolo “Katen’ka”, per il ritratto della zarina Ekaterina stampata sopra e cinque zecchini da cinque rubli l’uno, i cosiddetti “canterellini”.
«Se ti dovesse bruciare la casa un’altra volta» – disse, – «non mi dovrai restituire un solo soldo. Se invece la casa rimarrà intatta, dovrai dare una metà di ciò che ti svelerà il fulmine ciarlone, a quelli che ti farò conoscere dopo.»
Così disse e con ciò svanì nel buio.
I mastri-fabbri forgiarono una grossa e lunga lancia di rame. Al piede della lancia attaccarono un grosso mastello di ferro e Fëdor la piantò per un metro e mezzo nel terreno sullo spiazzo della futura casa, proprio sul cucuzzolo del suo monticello Calvo. Si drizzò la lancia con la punta verso il cielo, come se cercasse di sfidare il fulmine in una battaglia. Persino il popolo si mise a mormorare. La cosa parve alla gente mal fatta. Si trattava comunque del cielo. Non stava per niente bene irritarlo!
Fëdor tuttavia non volle badare alle voci della gente. Aveva subito degli incendi tante volte, grazie al cielo, e quindi, lasciate stare, gente, e dite: che razza di grazia e di stragrazia divina è questa? Per quale ragione non smetteva il cielo di graziarlo sempre in questa orrenda maniera? Non sarà, perché lavorava con il sudore della fronte, come un dannato? O, forse, sarà per il suo buon cuore d’oro?
Fëdor ingaggiò coi soldi di Diavolossaev tre carpentieri e si mise insieme a loro a costruirsi la casa nuova con la forza di tre accette. Non volle costruirsi una semplice isba, ma una bella solida casa a cinque mura. Mise la copertura in lamiera di ferro. Verniciò le facciate con minio di piombo e verso l’inverno si trasferì con la famiglia nella nuova casa, che aveva doppi pavimenti, doppi vetri e infissi doppi alle finestre. Allegramente usciva il fumo denso dal fumaiolo della nuova casa e dal culmine del tetto sporgeva la lunga lancia di rame. Sporgeva, brillando d’oro ramato al sole, in quanto Fëdor aveva preso l’abitudine di lucidarla ogni sabato: «Bada con chi hai a che fare!»
Arrivò l’estate. Venne il primo temporale. Tutta la gente uscì per strada, non distoglieva lo sguardo dal monticello Calvo. Cosa sarà? Chissà, quale risposta darà il cielo ad un tale affronto?
Brillò il fulmine, scoppiò il tuono. La freccia infuocata piombò con inaudita violenza sulla lancia di rame. Gemette la gente lamentosamente. Accecò il fulmine, illuminò il monticello Calvo. Ma la casa di Fëdor, come stava sul cocuzzolo del monticello, così rimase.
Si sciolsero le lingue: «E’ un caso… Capita… Le avvisaglie di Elia profeta… Riporrete la lancia!.. Vedremo cosa diranno i temporali estivi, qual sarà allora la grazia divina!»
Arrivò la giornata terribile di Elia profeta. Si mise a lanciare dal cielo Elia le sue frecce, corse nel cielo nero sulla sua fragorosa, tuonante carrozza, gettò i suoi fulmini contro la lancia di rame, ma la casa di Fëdor rimase intatta, come fatata.
«E’ una magia di Diavolossaev» – disse il padre Michail, – «non è altro.»
Passarono i temporali estivi. Diavolossaev salì sul monticello Calvo per andare a trovare Fëdor.
«Allora, cosa mi dici, “Grazia Divina”? Ti sta proteggendo a dovere la mia lancia?»
«Protegge, eccome, lo vedi tu stesso!»
«Perché credi che ciò succeda? Il fulmine colpisce, ma non uccide.»
«Non lo saprei dire, nostro benefattore, carissimo, Diavolossaev.»
«Ma è possibile che il fulmine ciarlone non ti abbia svelato ancora il segreto?»
«Nossignore, e, dopo tutto, come avrei potuto parlare io con il fulmine?»
«Avresti dovuto chiedere invece, se è seppellito dentro il tuo monticello Calvo qualche tesoro.»
«Quale tesoro, salvatore nostro, carissimo, Diavolossaev?»
«Non so quale. Forse di rame, o, forse, di ferro. Lo sai bene che il fulmine ama molto il rame e ferro. Non per niente, dovunque prenda la mira, cerca sempre di centrare la tua lancia di rame e, attraverso essa, entra dentro la terra.»
«E’ proprio così, Diavolossaev. Che mi dici, non dovrei per caso, mettermi a scavare il monticello?»
«Certo, mettiti a scavare, Fëdor. Io ti mando degli aiutanti. Non avrai dimenticato il nostro patto?»
«No, non l’ho dimenticato» – rispose Fëdor, – «e la mia parola è salda.»
Passarono alcuni giorni e Diavolossaev portò sul monticello Calvo dieci uomini: poveracci, tra i più poveri disgraziati e umiliati dal destino e dai signori-capi delle miniere. Straccioni fra gli straccioni. Pezzenti. Li portò Diavolossaev da Fëdor e disse: «Ecco, gente, vi do venticinque rubli a testa. Li restituirete dopo, non appena vi metterete in sesto. Adesso, mettetevi a scavare una galleria di prova e quando arriverete al tesoro, fatemi un fischio. Vi dirò come vi dovrete comportare dopo.»
Diavolossaev indicò il punto esatto per scavare e, come sempre, si inoltrò nel fitto del bosco. Dovettero scavare pochissimo gli uomini. Molto presto il tesoro si presentò ai loro occhi. Era di una tale ricchezza, che ai poveracci venne da sudare freddo.
Avevano scoperto il minerale fossile di ferro puro. Non esigeva altro il minerale come questo, che essere staccato col piccone ed essere caricato nei carrelli per il trasporto verso gli altiforni.
Come sempre succedeva in quei casi, arrivò sul monticello Calvo moltissima gente. Di ogni portata e sorta. Fra loro c’era chi cercava l’arricchimento facile. Gente senza scrupoli. Accaparratori e incettatori.
«Fëdor, vendi il monte. Cinquemila rubli subito in contanti, i dividendi a parte.»
E i signori-capi delle miniere: «Questo monte non può essere venduto. E’ un monte che appartiene alla corona. Qui si aprirà una nuova miniera di ferro dello stato. A Fëdor saranno conferiti una medaglia e cinquanta rubli di pensione, vita natural durante.»
Fëdor, però, non era tanto sempliciotto. Aveva tutte le carte in regola sul possesso del monticello Calvo. Diavolossaev pure fece di tutto per salvare il monte dai cavillosi e dai procuratori, con ragionamenti che non facevano una grinza.
«Questo monte è il ricordo del padre» – diceva il furbo Fëdor, – «il minerale fossile di ferro, invece, è la grazia divina. Come potrei consegnarlo al tesoro dello stato o, peggio ancora, venderlo? Farò in modo che il monte mi dia da vivere e lavorare e che fornisca alla brava gente un tozzo di pane, sempre con la grazia divina.»
Tanto bene ripeteva Fëdor le parole suggeritegli da Diavolossaev che perfino il padre Michail versò una lacrima e pronunciò un sermone: «La pura verità sta uscendo dalla tua bocca, figlio mio. E che dia un ricovero ai poveri il ricco giacimento. E che si trasformi in gloria…» – e tutto così e via dicendo.
Finì la predica il padre Michail, asperse la nuova miniera con l’acqua santa e consacrò la lancia di rame. Era pure lui un povero cristo di semplici origini. Comprendeva bene il vecchio, come stavano le cose. Si manteneva a stento, grazie ai miseri lasciti delle famiglie di minatori.
Fëdor abbandonò la coltivazione dell’orto. Divenne il capomastro della piccola cooperativa mineraria. Vendevano al tesoro dello Stato il minerale fossile di ferro che riuscivano estrarre. Gli introiti venivano divisi in modo semplice. Agli uomini della cooperativa toccavano due quote, alle donne una sola. Ma non regnò a lungo il regno dei poveri sul monticello Calvo. Lo strato del minerale fossile di ferro risultò essere assai lungo e largo. Superò di gran lunga il monticello Calvo, si sparse sul territorio del demanio. La piccola cooperativa mineraria non fu in grado di gestirlo. Il tesoro dello Stato avanzò le sue pretese sul giacimento, cominciando ad insidiare e a scalzare la piccola impresa. Ci riuscì in un battibaleno, non servirono a niente neppure tutta l’abilità e il sapere di Diavolossaev. La piccola cooperativa dovette rinunciare alla “grazia divina” ed andare da qualche altra parte, per cercarsi una nuova grazia.
Peccato, certamente. Tuttavia che fare? Il tesoro dello stato rimane sempre il tesoro di Stato. Chi mai potrebbe contestarlo?
Nessuno sa per certo dove si dispersero gli uomini della cooperativa. Che dire, neppure il monticello Calvo ormai esiste più. Venne spianato tutto, raso al suolo dall’estrazione indiscriminata del minerale fossile. Rimase viva nelle voci della gente soltanto la favola del fulmine ciarlone. Nessuno è in grado di radere a zero le voci della gente, che vivono, superando in longevità non solo gli uomini, ma pure i monti…
[Traduzione dal russo di Tatiana Bogdanova Rossetti]