di Rosario Coluccia
Di mestiere faccio il linguista. Un amico mi chiede: è meglio dire «handicappato»o «portatore di handicap»? «Disabileopersona con disabilità»? O «Diversamente abile»? Le stesse domande si è posta, non molto tempo fa, «SuperAbile», la rivista dell’INAIL che ha promosso un’inchiesta intitolata «Qual è il modo migliore per definire la disabilità?». Non esiste una risposta valida per tutti e in tutte le circostanze, accade così quando si trattano argomenti che toccano non soltanto questioni terminologiche, ma anche (e soprattutto) sensibilità individuali e collettive. Il problema non è solo italiano, riguarda tutte le culture del mondo. L’International Classification of Functioning, approvato dalla «World Health Assembly», raccomanda l’abbandono di una terminologia troppo cruda, che enfatizza il deficit (handicappato è ormai usato pochissimo in italiano), ricorrendo a parole più neutre e a termini descrittivi dei contesti di vita. Personalmente sceglierei «disabile», che descrive senza giudicare né tantomeno offendere, o anche «diversamente abile», che focalizza l’attenzione sulle risorse e sulle abilità di un soggetto invece che sui suoi insuccessi (anche se a me pare a volte fintamente ottimista, un po’ accomodante). Lascerei perdere senza rimpianti l’espressione «diversamente fortunato», che a volte mi è capitato di sentire. No, chi ha una disabilità non è fortunato, questo non dobbiamo mai dimenticare; rispettiamo il disabile senza fingere che gli sia capitata una fortuna.
La questione non è solo linguistica. Scegliendo una parola al posto di altre facciamo capire cosa pensiamo veramente, le nostre idee e i nostri sentimenti. Questo avviene spesso, ma si verifica sistematicamente quando parliamo di fatti che toccano la nostra sensibilità, eventi che ci colpiscono perché ci riguardano direttamente. Nessuno ne è esente, nessuno può dire «non mi interessa, non mi riguarda»: la vita, la morte, la malattia, la condizione sociale, la razza, la devianza, il sesso e l’orientamento sessuale fanno parte della quotidianità di tutti noi.
Siamo nel campo del «politicamente corretto»: le parole vanno considerate valutando le connotazioni associate a ciascun termine e verificandone la funzionalità a seconda del contesto in cui vengono usate, dei valori che alle stesse attribuiamo, a volte anche senza esserne consapevoli. L’attenzione all’uso politicamente corretto della lingua nasce in America negli anni trenta del secolo scorso ad opera di due linguisti (Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf) e viene divulgata al vasto pubblico da un articolo di Richard Bernstein sul «New York Times» del 28 ottobre 1990 (i giornali svolgono una funzione importante, se sono impostati bene trasmettono le idee dal mondo della ricerca alla generalità dei cittadini). Per la verità in Italia già negli anni sessanta era uscito un libro di Nora Galli de’ Paratesi intitolato Le brutte parole, che trattava del modo in cui noi ci esprimiamo quando parliamo o scriviamo di argomenti che ci colpiscono, che in molti casi sono veri e propri tabù (non osiamo pronunziare parole riferibili esplicitamente a eventi e concetti che ci colpiscono o ci feriscono).
Vediamo qualche esempio. Significano la stessa cosa le frasi «ci ha lasciato», «è passato a miglior vita», «è scomparso», «è deceduto» che leggiamo negli annunzi mortuari e che, oltre a dare la notizia, variano a seconda delle intenzioni di chi redige l’annunzio. Quasi mai si usa il semplice «è morto», certamente mai «è crepato» o «ha tirato le cuoia», espressioni che pure esistono nella lingua italiana e che però suonerebbero irriverenti e offensive, non vorremmo mai che fossero applicate a un nostro congiunto o a una persona a noi cara. Certo fa sorridere l’invito a rivolgersi con fiducia all’«outlet del funerale» che si legge nella metropolitana milanese
La prudenza verbale si applica a molti campi. A seconda della nostra ideologia, noi possiamo fare riferimento in forme linguisticamente diverse alle persone (uomini, donne, bambini) che ogni giorno approdano sulle nostre coste e in Europa alla ricerca di una vita migliore. Queste persone sono definite, a seconda dei casi: «apolide, rifugiato, richiedente asilo, migrante» (nel linguaggio burocratico e formale. «Migrante» è la parola della settimana scelta da Aldo Grasso per Io donna, supplemento del Corriere della sera dell’11 giugno 2016); «immigrato, clandestino, profugo» (nella lingua comune); «vu cumprà» (in forma irridente, anche se apparentemente bonaria); «negro, zingaro, rom» (con allusioni offensive). Anni fa qualcuno proponeva di definire «neocomunitario» (evidentemente calcato su «extracomunitario») il cittadino di alcuni paesi, fondamentalmente dell’est europeo, entrati solo in anni recenti a far parte dell’Unione europea. Come dire: sei europeo, sì, ma di fresco arrivo; io ci sto dentro da più tempo di te, valgo un po’ più di te.
Oggi usiamo di norma parole come «omosessuale, gay», che non giudichiamo offensive; fino a qualche tempo fa un’insegna in una via leccese pubblicizzava abbigliamento «maschile, femminile, gay». Quasi nessuno più si permette «invertito, finocchio, frocio, checca», che ancora potevamo ascoltare e addirittura leggere fino a non molti anni addietro. Cambiano i tempi, la società muta i suoi riferimenti ideologici, la lingua (specchio della società in movimento) riflette questi cambiamenti. È ironico Checco Zalone quando in un suo film propone un farmaco per guarire dall’omosessualità, il frociadil 600 forte, mentre cantando assicura che gli uomini sessuali «sono gente tale e quale come noi / noi normali». Mi permetto una parentesi: Zalone è bravo e accorto, probabilmente merita il successo che riscuote ma, per favore, non esageriamo. Come fanno alcuni signori operanti in un comune salentino a indire un concorso per dedicare un busto a Zalone vivente, da collocare non so in quale luogo pubblico? A quanti neurochirurghi che nelle strutture pubbliche (non in costose cliniche private) strappano alla morte decine o centinaia di persone quegli stessi signori propongono di dedicare una statua? Non ricordo di quale comune si tratti, non ho cercato in rete i nomi delle persone coinvolte, non sono animato da risentimenti personali; mi indigno per lo spreco e per il messaggio volgare implicitamente veicolato da certe iniziative (anni fa in una diversa località salentina ad una attrice sicuramente bella ma non bravissima fu dedicato un riconoscimento analogo). Basta, per favore!
Torniamo al tema principale. Non solo gli individui, anche le istituzioni, fino ai più alti livelli, ricorrono a forme edulcorate per descrivere quello che succede. Si parla di lavoratori «in esubero», non «licenziati»; le tariffe sono «ritoccate», non «incrementate»; gli emolumenti dei politici vengono «adeguati», non «aumentati»; una ditta o una squadra di calcio dice «non rientri nei nostri progetti», non dichiara esplicitamente «non sei assunto». Si arriva a definire «danni collaterali» le stragi di civili innocenti provocate in guerra, «fuoco amico» la pallottola mortale partita da un alleato.
Il discrimine tra forme accettabili e forme non condivisibili non è sempre trasparente. Ricordiamo le polemiche nate dall’uso ripetuto, quasi ossessivo, della parola «nigger» nell’originaria versione americana di Diango di Quentin Tarantino. Alle critiche il regista ha replicato dicendo che lui si è sentito obbligato a usare nel film quella parola, negli anni della schiavitù era quella la parola corrente con cui si definivano gli schiavi. Quando una volta in classe ho provato a interrogare i miei studenti sulle loro abitudine linguistiche, la maggioranza ha detto che il termine «negro» è razzisticamente connotato, più neutro appare «nero», pochissimi hanno tirato in ballo «afroamericano», nessuno ha proposto «di colore» o altre espressioni. In America, dove il politicamente corretto è nato, il presidente Obama ha firmato una legge che elimina dalla legislazione federale le parole «nigger» (sostituita con «Afro-American») e «oriental» (sostituita con «Asian-American»). Oggi alcuni attaccano Obama: ci renderemo conto di quanto vale quando alla Casa Bianca ci sarà un altro presidente.
Ci sono esagerazioni, lo sforzo di essere politicamente corretti e di non offendere a volte provoca effetti ridicoli. Non arriveremo mai al punto di definire «verticalmente svantaggiato» un individuo basso, «non chiomato» un uomo senza capelli o «non masticante» chi abbia perso i denti! Dobbiamo accettare la realtà per quella che è, senza insultare e senza irridere, ma anche senza buonismi dolciastri. Io credo che definire «netturbino» o anche «spazzino» una persona che si guadagna con dignità da vivere pulendo le strade non sia insultante, preferire «operatore ecologico» non cambia la sostanza delle cose. Io credo che «cieco» non sia una parola offensiva, definire una persona «non vedente» non migliora la qualità della sua vita: perché la qualità della vita migliori dovremmo organizzare diversamente la viabilità e l’accesso agli edifici, rendere i marciapiedi percorribili e non ingombrarli con auto parcheggiate di traverso, istituire semafori sonori affinché il cieco possa accorgersi del passaggio dal rosso al verde, favorire anche economicamente l’accesso a libri in braille e a computer usabili con facilità da chi non ha il bene della vista, ecc.
Insomma: bisogna organizzare meglio la nostra società, a favore di chi si trova in condizioni di debolezza. Anche a queste operazioni meritorie e politicamente corrette (in senso amplissimo) induce la riflessione sulla lingua.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 10 luglio 2016]