di Gigi Montonato
Il 9 febbraio del 1619 si consumò a Tolosa l’ultimo atto di una tragedia che non aveva mancato di presentare aspetti beffardi fra le due parti a confronto: il filosofo italiano Giulio Cesare Vanini (1585-1619) e il Parlamento di Tolosa. L’epilogo fu la condanna al rogo del filosofo sulla tolosana Place du Salin. Beffardi, per l’approccio reciproco delle parti. Vanini, in fuga da Parigi, dove aveva pubblicato gli incriminati dialoghi De admirandis (1616), era riparato a Tolosa, una delle più cattoliche città di Francia, detta per questo la Ville sainte, e, per non farsi riconoscere, aveva assunto il nome di Pomponio Uscilio, che per nome e allitterazione del cognome richiamava Pomponio Scarciglia, un suo uomo di fiducia nel Salento; e con questo nome fu arrestato. Da parte sua il Parlamento, avendolo probabilmente scoperto per quello che era, continuò a processarlo e a condannarlo con quel nome facendo finta di niente. Al tentativo di beffa di Vanini di nascondersi proprio dove più forte era il rischio di essere scoperto, il Parlamento di Tolosa rispose con la beffa di una condanna estrema comminata ad una persona per un’altra, sapendo che era la stessa.
Ci si può chiedere perché i giudici non chiarirono le vere generalità dell’accusato e preferirono stare al suo stesso gioco. Non è facile rispondere. Forse per non dover riaprire il caso con tutte le lungaggini che ne sarebbero derivate e il rischio – chissà – di qualche altra fuga. Vanini non era nuovo alle fughe, come non era nuovo ai virtuosismi dialettici, capace di rovesciare qualsiasi affermazione nel suo contrario. Perché perdere tempo?
La Francia in quegli anni viveva gravissimi lacerazioni religiose; e, quando una parte poteva infliggere un colpo all’altra, non perdeva tempo e non andava per il sottile. Vanini, a Tolosa, era entrato nelle grazie e nei favori di gente importante, che però aveva a sua volta dei nemici altrettanto importanti. Le idee libertine avevano fatto breccia in molti nobili, i quali ovviamente fingevano di essere credenti. La formula di Enrico IV, Parigi val bene una messa, valeva per tutti. Vanini era ammirato dai falsi credenti. Colpirlo voleva dire colpire indirettamente chi lo proteggeva, che però si guardava bene dall’esporsi più di tanto, dato che l’accusa di ateismo poteva valere una messa, ma, in questo caso, da requiem. Meglio per tutti continuare a fingere. Intanto Vanini fu dato alle fiamme.
Del processo si sa poco, perché le carte non si trovano e dunque si continua a fare riferimento a fonti indirette e ad usare formule vaghe e dubitative: forse, probabilmente, si suppone ecc., che, come è noto, lasciano il tempo che trovano. Di certo c’è che il giovane e brillante filosofo si era preso gioco di autorità civili e religiose, non solo in Italia ma anche in Inghilterra, dove si era rifugiato per qualche tempo col suo confratello Genocchi, e in Francia.
Un avventuriero, allora? Sì, per certi aspetti; diciamo nelle forme. Assolutamente no, per altri; diciamo nei contenuti.
Caratterialmente Vanini era uno spregiudicato, un litigioso, come del resto tanti uomini di cultura del tempo, pronto ad affermare e a negare, a giurare e a spergiurare, a ridere ed irridere, con l’arroganza dell’uomo d’intelletto che domina gli altri fino a ridicolizzarli impietosamente. Un D’Artagnan del pensiero. Celebre il suo riso; anzi, i suoi cachinni!
Per un altro aspetto Vanini era un uomo di cultura che, conscio di non poter sostenere la sua filosofia in assenza di libertà, facendo perfino torto a se stesso, escogita tutta una serie di escamotage per professarla. Riuscì?
Molti importantissimi filosofi hanno espresso su di lui nel corso dei secoli giudizi di estremo interesse, soprattutto i tedeschi Hegel e Schopenhauer. In buona sostanza, però, dalla sua esecuzione in poi, anche per l’azione persecutoria e denigratoria successiva della chiesa, su di lui sono stati espressi giudizi per lo più negativi fino alla liquidatoria accusa di “plagio gigantesco” da parte dello storico della filosofia Luigi Corvaglia agli inizi degli anni Trenta del Novecento. Che – ironia della sorte! – era laico e conterraneo. Se Corvaglia fu bravo a trovare le fonti del pensiero scritto vaniniano, dell’Amphitheatrum e del De Admirandis – ma del resto già in precedenza altri si erano messi sulla stessa strada – non seppe contestualizzare il “plagio” e soprattutto ad analizzarlo criticamente per vedere se era fine a se stesso, come lui finì per sostenere, o se era funzionale a far passare delle “verità” che altrimenti non sarebbe stato possibile veicolare.
Lo scarto critico oggi è un dato acquisito, specialmente ad opera del filosofo polacco Andrzej Nowicki, il quale radicalizzando il metodo della scomposizione dell’opera nelle sue parti costitutive e della libera ricomposizione in ipotesi di pensiero organico, ognuno a suo arbitrio, ha ribadito la consapevolezza vaniniana del pensiero vero e della funzionalità della sua forma (Le categorie centrali della filosofia del Vanini). Altri studiosi, dallo Spini al Corsano e al Papuli, hanno trovato nel libertinismo erudito la formula critica per dare un’attendibile lettura del pensiero vaniniano. Tentativi di stampo massonico di renderlo precursore di idee politiche assolutamente estranee al suo orizzonte culturale si valutano da sé.
Vanini radicalizzò il suo naturalismo fino alle più estreme conseguenze. La sua filosofia escludeva qualsiasi metafisica, tutto era spiegabile come il filosofo calabrese Bernardino Telesio (1509-1588) aveva suggerito: juxta propria principia. Quindi nessun creazionismo, nessun Dio che dà inizio alla vita, alla natura; tutti gli esseri sono della stessa materia, la quale si trasforma con le sue proprie leggi, dando vita ad altre forme in un processo incessante.
A 400 anni da quel 9 febbraio gli studi su Vanini hanno fatto passi importanti, specialmente nel corso del Novecento, sia nel campo della ricerca documentale, per ricostruirne la vicenda esistenziale, che nell’elaborazione critica del pensiero.
Uno degli studiosi più seri del Vanini, già discepolo e assistente di Antonio Corsano a Bari, Giovanni Papuli, solo qualche mese prima della sua scomparsa (ottobre 2012), mi affidò un saggio che pubblicai nella collana “I Quaderni del Brogliaccio” col titolo In memoria di Andrzej Nowicki. Studi vaniniani: riflessioni e prospettive (9 – gennaio 2012). Era un omaggio al grande amico e studioso vaniniano polacco, scomparso poco più di un mese prima, del quale però non condivideva l’asserzione ateistica. Per Papuli l’ateismo di Vanini era un problema aperto.
In questa circostanza, come è mia abitudine fare, chiamo virtualmente a raccolta intorno al commemorando quanti più amici possibile e riprendo il suo saggio. Egli, come in un testamento, designa nel dubbio e nella ricerca i suoi eredi euristici e, a proposito della conversione del Vanini all’ateismo, scrive: “è molto suggestivo immaginare anche un carmelitano che contesta quella che ritiene un’ingiustizia e d’impeto scaglia alle ortiche tutt’insieme il suo saio, la disciplina dei suoi voti, la gerarchia della sua chiesa e l’esistenza del suo Dio. Chissà! Il problema è aperto. Sennò che ci starebbero a fare gli studiosi del Vanini?”.
[“Presenza tuarisanese” anno XXXVII n. 1/2 – Gennaio/Febbraio 2019, p. 8]