di Antonio Errico
In una pagina della sua Ultima lezione, Zigmunt Bauman sostiene che la memoria del passato gioca un ruolo decisivo nel dare forma al presente individuale e collettivo.
Si dice che un presente senza memoria è un tempo senza forma e senza identità. Si dice che senza memoria non c’è possibilità di conoscenza significativa delle storie e delle esperienze che si vivono, che non ci può essere confronto fra sistemi di pensiero, visioni del mondo, condizioni di esistere, che non ci può essere fondata cognizione della ragione per la quale una civiltà si presenta con una determinata fisionomia e non con un’altra. Si dice che tutto quello che passa lascia una traccia che costituisce l’indicazione per la direzione che si deve seguire o che si deve evitare nel corso del cammino verso il futuro.
Si dice questo, si dice altro. È tutto vero. Si dice da sempre e da tutti. Per cui non sarebbe affatto necessario pronunciare parole ulteriori sull’essenzialità della memoria nel processo di conformazione del presente e di prefigurazione del futuro.
Tutto quello che si è detto e che si conosce potrebbe bastare. Ma la smemoratezza dei tempi racconta che forse non basta. Certi fenomeni del sociale fanno venire il sospetto che occorra costantemente rinnovare il senso profondo della memoria nei contesti di una civiltà.
La rapidità con cui si consumano concetti che sono fondamentali nella convivenza degli umani, lascia supporre che agli umani sia necessario insegnare a ricordare.
Ma la memoria non si può insegnare. È una delle poche cose che non si possono insegnare, insieme alla saggezza, o alla bellezza, o alla libertà. Però si insegna tutto il resto perché si possano avere gli strumenti per poterle conoscere, comprendere, farle proprie.
La memoria si insegna attraverso tutto il resto, perché non c’è disciplina che non abbia relazione con la memoria. Non c’è arte, non c’è scienza, non c’è sapere senza stratificazioni concettuali, e le stratificazioni sono memoria.
Poi, per ogni genere di conoscenza, esiste un ambito del sapere che in qualche modo si propone come prevalente.
Per la memoria, l’ambito che prevale è quello della storia.
Allora, se è vero che la memoria non si può insegnare, è altrettanto vero che la storia si può, e si deve, insegnare in un modo che possa rappresentare lo strumento attraverso il quale comprendere il valore essenziale della memoria.
I tempi non sono tutti uguali. Ne vengono alcuni che forse hanno meno bisogno di memoria e quindi meno bisogno di storia.
Ne vengono altri che hanno un bisogno più forte di memoria e quindi anche di storia.
Probabilmente, questo è un tempo che ha esigenza, necessità, urgenza di memoria e di storia.
Sarà per il fatto che si tratta di un tempo di passaggio di secolo, di millennio; sarà perché si proviene da un Novecento ribollente, sublime e feroce, nobile e meschino, che ha stretto in sé tutte le espressioni dell’umano, ogni coerenza e ogni contraddizione, ogni entusiasmo e ogni disperazione; forse secolo breve, come sosteneva Eric Hobsbawm, forse secolo interminabile, come dicono altri. Comunque il secolo di due guerre mondiali, spaventose. Della bomba atomica, dei Lager, dei Gulag, dell’uomo che arriva sulla luna, delle scoperte scientifiche formidabili e del progresso straordinario, dei conflitti tribali e della violenza cieca, della nascita e della fine delle grandi ideologie, dei contrasti che bruciano ancora. Cronologicamente concluso, culturalmente ancora aperto, discusso, oggetto di dialettiche forti.
Sarà per questi motivi, sarà per altri, per molti altri, ma il bisogno di memoria e di storia è più forte. Si ha bisogno di comprendere le cause e gli effetti e le prospettive di quello che accade tutti i giorni, di stabilire connessioni, correlazioni, di confrontare quello che è con quello che è stato, di ipotizzare quello che potrà essere.
Se potrà essere bene o male, dipenderà dai nostri comportamenti, e i nostri comportamenti dipendono, per buona parte, dalla conoscenza che si ha di quello che hanno prodotto i comportamenti di coloro che sono venuti prima.
Alcuni di essi hanno prodotto bene, benessere, sviluppo, emancipazione, progresso; alcuni hanno prodotto male, malessere, sciagura, tragedia, macerie. Quindi è necessario conoscere quello che è stato. Conoscere quello che è stato significa avere memoria: personale, collettiva, diretta o mediata culturalmente. La memoria personale, diretta, ha una possibilità relativa. La memoria collettiva, mediata culturalmente, ha la possibilità di codificarsi, di stabilire punti di riferimento, di elaborare contesti di appartenenza.
Se non si conosce quali sono state le conseguenze di certi comportamenti, si possono adottare quegli stessi provocando le stesse conseguenze. Se si conoscono, si adottano quelli opposti, che provocano conseguenze opposte.
Il Bene e il Male sono scritti nella storia. La conoscenza della storia consente di scegliere.
Nella storia è scritto anche che in ogni tempo c’è sempre stato chi ha scelto il Male. Poi c’è scritto che coloro che hanno scelto il Bene erano di più, oppure che erano di meno ma sono riusciti a prevalere sui più che avevano scelto il Male.
Si potrebbe anche pensare che nessuno possa scegliere il Male perché ciascuno ha almeno una persona che ama. La storia dice che fino a questo momento non è mai accaduto. Ma si può sempre pensare che da questo momento in poi si può scrivere tutta un’altra storia.
Si tratta di un’aspirazione ideale, forse anche di credulità. Va bene. Però, se la memoria dell’accaduto, elaborata attraverso la storia, potrà servire a ridurre progressivamente la percentuale di coloro che scelgono il Male, allora l’umanità avrà realizzato la sua conquista più grande.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 27 gennaio 2019]