Ricordare l’incubo per rimanere umani

di Paolo Maria Mariano

Perché ricordare? “Conosciamo il detto di Santayana: «Chi non è capace di confrontarsi con il proprio passato, è condannato a riviverlo eternamente»”, scrive Imre Kertész nel suo “Il secolo infelice” (Bompiani, 2012). E poi continua: “Una società prospera deve mantenere viva e costantemente rinnovata la cognizione di sé, la propria coscienza”.

Kertész aveva formato la sua coscienza ad Auschwitz, dove fu deportato quindicenne – era nato il 9 novembre 1929 – per poi essere trasferito a Buchenwald, dove fu liberato nel 1945. Kertész sapeva – è scomparso il 31 marzo 2016 – che la coscienza, personale e sociale, è motore o contrappeso delle azioni umane; soprattutto le controbilancia quando chi esercita potere declina nell’ubriacatura del poter fare ad arbitrio, della ricerca del plauso ottuso, della frenesia d’imporre sé anche oltre la ragionevolezza.

Si cerca di stemperare la memoria, di ridurre la conoscenza della Storia, quando si vogliono rendere inconsapevoli le masse, quando si vogliono gestire a fini di potere personale l’insoddisfazione e la frustrazione degli altri. Si cerca di allontanare la memoria di ciò che è stato, tutte le volte in cui azioni ed espressioni hanno il fine di ridurre, fino ad annullare, la distanza tra la politica, che è costruzione e gestione della società, e l’industria dell’intrattenimento. Allora si lancia qualche slogan; si urla per indirizzare l’attenzione oltre ciò che non si riesce a risolvere per inadeguatezza; si vuole che il popolo sia un manipolo di topi pronti a seguire il pifferaio di turno come fu a Hamelin, nella favola. Per tutto questo bisogna esercitare la memoria e la consapevolezza, stimolare la cultura che è condizione necessaria alla consapevolezza. “La cultura è una coscienza privilegiata, una coscienza oggettiva e il diritto di essere oggettivi appartiene alla coscienza privilegiata”, scrive ancora Kertész per il quale, dopo il lager, diventare scrittore (Premio Nobel per la letteratura nel 2002) fu forse principalmente un modo d’esistere piuttosto che un’ambizione. Scrivere fu per Kertész un processo esistenziale: “Ogni volta che penso a un nuovo romanzo penso a Auschwitz”. Così è stato, ritengo, anche per tutti coloro la cui sofferenza ha formato le parole che emergono dal loro animo, persone che possono non odiare, ma non dimenticare.

Perché ricordare, quindi? Mi pare che sia per quanto ho già scritto e per non avviarsi nel degrado del “so che questo non si fa ma non resisto e lo faccio lo stesso”, e non si fa non tanto per qualche codice ipocrita, quanto per il riconoscimento della dignità e della natura dell’umano e della verità. Ricordare aiuta a evitare d’avanzare come sonnambuli, fa essere vigili, consapevoli che è necessario conoscere meglio e più per essere migliori di sé, per difendersi, per affrontare il cammino, che non si sa quanto sia lungo, né quanto periglioso, né quanto incerto, cercando la quiete in mezzo al caos. Ricordare è anche imparare a conoscersi, diventare consapevoli che attraverso le nostre fatiche siamo chiamati a chiederci “come devo vivere per rimanere umano, e cosa significa esserlo?” Ricordare aiuta anche a imparare a distinguere la bellezza del mondo, e di questo – intendo del mondo – dà ragione, e aiuta a tenere lontano tutto quanto sporca l’essere umano.

Pensate allora a quel ragazzo quindicenne deportato ad Auschwitz, come fu Kertész, e con lui furono tutti gli altri bambini, bambine, donne, uomini, giovani, adulti vecchi, che s’avviarono verso quella cancellata d’Auschwitz, o altre simili, dopo essere stati trasportati come oggetti sempre più sfatti e puzzolenti. Scavate nei vostri incubi più scuri e angosciosi per cercare qualcosa che possa vagamente approssimare quel cumulo putrescente di esperimenti sugli umani, di sopraffazione, di violenza, di distruzione della dignità, di stupore verso quanto non si riusciva perfino a concepire, sebbene fosse lì, burocraticamente tangibile, quel cumulo putrescente in cui furono immersi tutti quegli esseri umani. Fatelo non solo nel giorno della memoria ma ogni volta che vedete e ascoltate qualcuno che guarda ad Auschwitz e a tutto quello che Auschwitz rappresenta con superficialità, o perfino con sufficienza, o con colpevole favore, ripresentando gesti e concetti che portarono ad attraversare quel cancello su cui c’era scritto “Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi), e di sicuro doveva invece essere “Per me si va nella città dolente, per me si va nell’eterno dolore, per me si va tra la perduta gente”. Fatelo ogni volta che udite la parvenza, perfino solo della puzza, di tutte le idee e le azioni che tolsero i freni dell’umanità a chi si vestì di camicia bruna e avanzò con protervia e con il passo dell’oca, tutti quelli che si credettero in diritto di disporre a capriccio di vita e morte di persone inermi. Fatelo anche alla lettura di queste righe. E ora – sì proprio ora – immaginate che quel ragazzo o quella ragazza, quella bambina o quel bambino oltre il cancello di Auschwitz siano i vostri figli, se ne avete. Immaginate di essere voi.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 26 Gennaio 2019]

 

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