di Gianluca Virgilio
Calligrafia. Scrivere bene, cioè con una bella grafia, significa possedere un equilibrio mentale capace di regolare bene il rapporto tra ciò che si pensa e si vuol dire e la mano che traccia dei segni sul foglio bianco. La calligrafia non è solo bella scrittura ovvero pura esteriorità, ma è soprattutto indizio di autocontrollo e ordine mentale, oltreché di una chiara relazione con gli altri, cioè con coloro che leggono le nostre parole. I popoli orientali lo sanno bene da millenni e per questo assegnano alla calligrafia un posto importante nell’educazione dei giovani. Quando esorto i miei studenti a scrivere bene ripeto loro quanto ho detto, e non nascondo il mio interesse particolare, ovvero che la calligrafia mi fa perdere meno tempo nella lettura e correzione dei compiti. Non è forse vero che la lettura corrente di un tema, favorita da una buona scrittura, è già un segno della bontà del tema medesimo?
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Il sogno della notte scorsa. Ero lontano da casa e improvvisamente mi accorgevo di non aver dato notizia di me ai miei genitori da molto tempo. Così mi affrettavo a telefonare, ma alla vecchia maniera, cioè infilando dei gettoni nella cassettiera di una cabina telefonica; ma a quel punto avevo la netta percezione dell’inutilità della telefonata, della sua impossibilità: i miei genitori non c’erano più come non c’era più la cassettiera per i gettoni. Di qui uno stato d’animo di sgomento, che mi ha svegliato alle sei del mattino.
Il sogno della notte scorsa mi è tornato in mente mezz’ora fa, quando, mentre dopo cena mi lavavo le mani in bagno, sentendo il miagolio del gatto in casa, ho detto a mia figlia Giulia di metterlo fuori, in veranda. In quel momento, ho sentito nelle mie parole la voce di mio padre, lo stesso tono, la stessa cadenza, come se io avessi involontariamente ripetuto parole che già avevo sentito pronunciare da mio padre tanto tempo fa. La stranezza della sensazione non mi ha inquietato; in realtà, ho pensato che se la voce di mio padre rivive nella mia, egli vive ancora. La medesima deduzione mi capita di fare quando incontro qualche vecchio amico di mio padre che, guardandomi in viso, dice di rivedere in me mio padre.
La stessa cosa mi capita con mia madre.
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L’amicizia. Pensare a che cosa sia per noi l’amicizia significa pensare alla qualità del nostro rapporto con gli altri. L’amicizia è il nostro essere nel mondo insieme ai nostri simili. Senza amicizia, prima o poi c’è il nulla o la guerra, l’essere indifferenti alla sorte degli altri uomini o addirittura il desiderio di creare il nulla intorno a noi.
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L’indefinibile amico: Antonio Ranieri e Giacomo Leopardi. Che cosa sono le “certe più libere confabulazioni con certa gente” di Leopardi, biasimate dal Ranieri quando questi scrive dei “segreti” del suo amico, e perché Ranieri dice di aver sentito la necessità “di uscire costantemente dalla stanza quando qualche innominato sopravveniva”? A cosa pensa e a cosa allude Ranieri quando dice di Leopardi che a Roma e poi a Napoli “altre ragioni gli destavano l’inesplicabile desiderio di andar fuori solo…”? (Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, R. Ricciardi Editore, Napoli MCMXX, pp. 44-45). Nelle pagine di Ranieri il non detto sovrasta il detto, l’allusione prende il sopravvento sul certo. Ma l’impressione è anche un’altra: che un malcelato disappunto spinga la penna di Ranieri a scrivere queste cose “segrete”, il disappunto di non aver potuto dominare interamente il suo ospite amico, di non averne potuto indirizzare o limitare o circoscrivere l’attività, il desiderio… Di qui le lamentele di Ranieri sugli eccessi leopardiani ch’egli è incapace di controllare.
Il sodalizio Ranieri-Leopardi è l’esempio migliore per dire quanto sia vero il pensiero sull’amicizia di Federigo Tozzi: “Vero è che un amico vi sarà sempre più indefinibile di un nemico” (I volti dell’amicizia, in Opere, Mondadori, Milano 1995, p. 746).
Antonio Ranieri come l’indefinibile amico di Giacomo Leopardi.
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Punta della Palascia. Passeggiata con Ornella sui fianchi del costone della Palascia, seguendo il sentiero in discesa che porta verso il faro. Il mare agitato dal vento del nord è imbiancato di creste spumeggianti; a sud, dalla parte della baia di Sant’Emiliano, protetta dal promontorio, le correnti marine sembrano placarsi e il mare assume l’aspetto di una tavola. In lontananza, il profilo delle montagne albanesi, verso Valona. Il paesaggio tra le rocce e il mare e, più oltre, verso l’orizzonte albanese, potrebbe essere oggi lo stesso di milioni di anni fa, quando ancora non c’era l’uomo sulla faccia della Terra; e dunque la nostra passeggiata sembrerebbe avvenire su una scena primordiale; sennonché a toglierci l’incanto, ecco far capolino una bottiglia di birra tra le rocce bianche e la macchia mediterranea, che qualche incivile ha gettato per terra con noncuranza.
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Ricevimento dei genitori a scuola prima di Natale. Si presenta il padre di una mia alunna, il quale dichiara di essere stato lui stesso un mio studente tanti anni fa; e mi precisa ch’io fui suo insegnante nell’a. s. 1987-1988. È vero, riesco a ricordare, sebbene in modo piuttosto confuso, il nome e il volto tra quelli dei suoi compagni nel primo quadrimestre di supplenza, che a stento riuscii a portare a termine prima di partire per il militare. Mon dieu, come è passato il tempo!
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A proposito di Guy de Maupassant, ricordare sempre quanto, a proposito dell’etica di uno scrittore, scrive Joseph Conrad, Appunti di vita e di letteratura, in Opere complete, vol. XVII, Bompiani, Milano 1950 p. 58-59: “L’interesse del lettore di un’opera di immaginazione, è interesse etico, o interesse di semplice curiosità. Entrambi sono perfettamente legittimi, dato che in una fedele interpretazione della vita si può trovare tanto un’etica quanto un eccitamento. E nell’opera di Maupassant vi è l’interesse della curiosità, e l’etica di un punto di vista con sequenzialmente mantenuto, e mai imposto per fini di personale soddisfazione. Lo spettacolo di questo immenso talento servito da doti eccezionali, il quale trionfa dei più ingrati argomenti, grazie ad una indefettibile dirittura di propositi, costituisce di per sé un’ammirevole lezione sul potere dell’onestà artistica, si potrebbe dire sul valore dell’arte. La grandezza inerente all’uomo consiste in ciò, che egli non permette a nessuna delle seduzioni che assediano lo scrittore che lavora in solitudine, di deviarlo dal dritto sentiero, dalla promessa visione dell’eccellenza. Egli non intende di lasciarsi condurre in perdizione dalle seduzioni del sentimento, dell’eloquenza, dell’umorismo, della pateticità, da tutto quello splendido corteo di difetti che si interpone tra lo scrittore e la sua probità sul bianco foglio di carta, come la brillante processione dei peccati mortali davanti all’austero anacoreta nell’aria deserta della Tebaide.”
Il corsivo è mio.
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Dalla soglia, visione della camera da letto nel primo pomeriggio invernale. La luce spiovente penetra in diagonale dalle fessure della tapparella, illuminando il comò, il letto, l’armadio, le sedie. Silenzio. Vociare di uccelli dal giardino. Sospensione del tempo, eppure gran movimento del pulviscolo nella trasparenza della luce. La camera da letto, preservata e temporaneamente dismessa, attende d’essere utilizzata la prossima notte.
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Leggendo Anna Banti, Itinerario di Paolina, in Romanzi e racconti, Meridiani Mondadori, Milano 2013. C’è un che di affettato in questo continuo rivolgersi a un “tu”, che in realtà è un “io”, Questa volontà di voler marcare la distanza tra la donna adulta e la bambina, tra la scrittrice e Paolina, in che cosa avrebbe la sua motivazione? La scrittrice vuol forse raccontarci una storia che non la riguarda più? La storia della nostra infanzia e prima adolescenza non può non riguardarci; disfarsene o rimuoverla o tenerla semplicemente a distanza non è mai possibile; e narrarla in terza persona significa negare all’”io” il suo diritto, che è quello di tenere insieme, in una medesima persona, passato e presente, infanzia e età adulta. Soltanto una sapiente mescolanza nella medesima psicologia può dar luogo ad un racconto veridico dell’infanzia, nel quale le ragioni del presente si fondono pienamente con quelle di un mondo che per noi non esisterebbe più, se non fosse tenuto vivo da quelle medesime ragioni presenti. L’”io” dell’oggi non è diverso da come era, solo ha trascorso molti anni in compagnia di se stesso.
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Il castello di Giuliano, nel Capo di Leuca, non restaurato, è quanto di più bello si possa vedere in questo genere di cose; certamente più bello di certi vecchi palazzi ristrutturati e pronti all’uso (quanti B&B da queste parti!). Qui bellezza vuol dire capacità evocativa di un passato lontano, verità, assenza di ogni inutile artificio o manipolazione interessata.
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Dalla finestra della classe dove si tiene la riunione scolastica vedo nel cortile il noce frondoso. È un albero che mi segue (e io lui) da quando ero ragazzo. Il noce nel fondo di mio nonno materno a Corigliano, il noce a Urbino, in un cortile dell’Istituto di Filosofia “Arturo Massolo” di via Saffi, visto dalla stanza dove Icilio Vecchiotti teneva le sue lezioni su Hegel, il noce di Endenna, isolato nel mezzo del campo di fieno, il noce di mio suocero a Sirgole; ed ora questo, nel cortile della scuola. Cresce rigoglioso e produce molti frutti che i bidelli raccolgono nel pomeriggio, quando a scuola non c’è nessuno. Sta confitto nell’asfalto e non riesco a capire come faccia a prendere il suo nutrimento. Credo che nessuno l’abbia piantato, ma sia nato da qualche vecchia radice sepolta desiderosa di rivivere.
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La qualità dell’insegnamento è inversamente proporzionale alla quantità di ore che l’insegnante trascorre a scuola, sia con gli studenti sia in inutili riunioni. L’opinione pubblica se ne faccia una ragione, ma sappia che io non mento!
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Pier Antonio Quarantotti Gambini, Sotto il cielo di Russia, in Opere scelte, a cura di Mauro Covacich, Bompiani, Milano, 2015, p. 897, ci parla del “progresso meccanico e industriale, cui le autorità sovietiche danno il massimo impulso: qui, nella modernizzazione a ogni costo, nell’industrializzazione intensa e accanita, sta la vera e colossale rivoluzione operata negli ultima quattro decenni”. Come dire che nella vecchia Unione Sovietica il capitalismo di stato si è realizzato sotto il nome del comunismo, più o meno come nella Cina odierna il capitalismo è giunto al suo apogeo, pur essendo governata da un partito che si ostina a definirsi comunista. Il comunismo reale, dunque, non è stato e non è ancor oggi che una variante del capitalismo. L’ideologia si è incaricata per molti anni di coprire questa verità, come oggi l’ideologia democratico-capitalistica copre il sostanziale totalitarismo della nostra società. L’ideologia serve a far accettare ai popoli la catena che li stringe.
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Nella lettera n. 446 del 3 agosto 1883 a Heinrich Köselit, Nietzsche dice che a Seneca “si dovrebbe sempre prestare orecchio, ma in nessun caso dare “fede e fiducia”. In Corsica si dice: Seneca è un birbone.” (Epistolario 1880-1884, Adelphi, Milano 2004, p. 395).
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Penso alla violenza del tempo nel quale viviamo; non parlo della violenza delle stragi di cui ci danno notizia i mass media né della terza guerra mondiale in corso della quale pochi sembrano accorgersi, non parlo solo di questo. Parlo soprattutto della violenza dei rapporti umani, diffusa nell’aria inquinata della città, quella violenza sottile e impalpabile che pervade la nostra vita interpersonale e che sempre più spesso ci fa preferire di rimanere in casa e passare le ore a leggere o fare altre cose nell’isolamento, preferendo la solitudine al rapporto col nostro simile, che ci è fratello, ma potrebbe improvvisamente mostrarci il suo volto peggiore, quello del nemico.
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Una donna di 54 anni, a Sogliano Cavour, ha ingerito dell’acido ed è morta. Se un collega non me l’avesse raccontato, non l’avrei saputo, e il mondo, ai miei occhi, sarebbe stato diverso da come è ora. Rivedo la sequela dei capannoni industriali e di piccole aziende, autosaloni, supermercati, fabbriche di terracotta, ecc., che compongono il paesaggio tra Sogliano Cavour e Cutrofiano. Circola una grande ricchezza in questa parte del Salento, ma una donna ha ingerito dell’acido e io non capisco a cosa serva tutta questa ricchezza, neppure a chi la possiede.
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Come sia cambiata la guerra, ce lo spiega Martín Caparrós, La fame, Einaudi, Torino 2015, p. 61: “ … i droni, l’arma che sta cambiando in modo decisivo la maniera di combattere la guerra: che evidenzia differenze militari estreme tra i ricchi e i poveri – perché i poveri combattono con i loro corpi, i ricchi con le macchine guidate da lontano”.