di Ferdinando Boero
Medicina sì, ma come?
Il Preside Eduardo Pascali auspica l’apertura di una Facoltà di Medicina presso l’Università del Salento. Non posso che concordare con lui. E non sarebbe neppure così difficile realizzare questo “sogno nel cassetto”. Abbiamo un grande ospedale, il Vito Fazzi. Potrebbe diventare un Policlinico. Perché spero che nessuno osi pensare di costruire un policlinico a fianco del Fazzi. Ci sono i primari, e gli aiuti e tutto il resto. Basta farli diventare docenti universitari e il gioco è fatto. Non possiamo pensare di bandire nuovi posti di ordinari e associati e quant’altro per far fronte alle esigenze della Facoltà di Medicina, e costruirle anche una nuova sede. L’unica cosa che manca è un bel complesso di aule. E quello si può costruire a fianco dell’Ospedale, c’è così tanto posto!
Tutto facile, allora? Non credo. A Bari c’è una Facoltà di Medicina, e i professori baresi temo abbiano altri pensieri che promuovere i primari dell’Ospedale di Lecce a loro colleghi. Devono piazzare i propri allievi. Come già hanno fatto in molte Facoltà dell’Università del Salento. E si opporranno duramente a una logica di reclutamento che non passi attraverso di loro.
Purtroppo, in molte Università italiane la Facoltà di Medicina è un moloch che ingoia risorse immani, con storie di familismo che hanno gettato discredito su tutto il sistema universitario nazionale. Non è detto che questo si debba ripetere anche da noi, ma dobbiamo stare molto attenti. Tutte le nuove iniziative, prima, partivano con i famosi “costi zero” e poi si arrivava a situazioni insostenibili e i costi nascosti venivano esplicitati. Non possiamo non fare tesoro delle esperienze del passato.
Certo che non possiamo aprire Agraria e Medicina. Stentiamo a tenere aperto quel che già esiste. Dovremo decidere quali priorità rispettare, priorità che abbiano a cuore un contributo alla crescita culturale ed economica di questo territorio.
Ma non illudiamoci che sian cose semplici e indolori.
Prima di aprire altri capitoli di spesa, vediamo di mettere a posto l’esistente. Valutiamo bene, anzi benissimo, i risultati delle valutazioni del sistema universitario, e vediamo quali aree hanno ottenuto buone valutazioni. Vediamo se ci sono margini di miglioramento o se ci sono rami da tagliare tra le aree che hanno contribuito negativamente alla valutazione della nostra Università. Sono discorsi che non riscuotono grande entusiasmo. Tutti vogliono ampliare.
Ricordo che l’Università viene valutata per il 70% dalla ricerca che i suoi docenti producono e che i finanziamenti arriveranno sempre più in funzione dell’eccellenza scientifica. Costruire un organismo elefantiaco che non riesce poi a giustificare le proprie dimensioni con adeguata produzione potrebbe non essere una mossa saggia. Abbiamo già iniziato troppe imprese faraoniche che sono miseramente fallite. Devo rifare l’elenco? Ancora tremo per la mia Università al pensiero della gestione di un futuro patrimonio immobiliare che sta crescendo a dismisura, a volte non commisurato alle dimensioni di chi lo dovrebbe occupare. Ho sentito già due volte il lamento di un collega che dice che gli stanno costruendo un grande laboratorio ma che lui è solo e ha bisogno di risorse umane. Ma come? Prima costruiamo gli edifici e poi non sappiamo come riempirli?
Temo l’influenza delle lobbies che tirano l’acqua al proprio mulino, insomma. Perché la nostra storia è piena di imprese fallimentari, fortemente volute da qualcuno.
Detto questo, come potrei negare il valore della medicina? Quando mi ammalo vado dal medico, ed è mio interesse, e interesse di tutti, che il sistema sanitario funzioni bene e che sia “abitato” da persone capaci e meritevoli. Che la mia Università contribuisca a formare queste persone non può che esser positivo. A guardar lontano, l’amico Pascali ha perfettamente ragione. Se mi guardo indietro, e se guardo nel futuro immediato, confesso di essere un po’ preoccupato al pensiero di come la sua sensatissima proposta potrebbe essere tradotta in fatti. Sono così d’accordo con lui che ho anche proposto un modo per raggiungere l’obiettivo. Ma scommettiamo che non sia quello che i proponenti hanno in mente?
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 17 luglio 2014]
Finanziare solo la buona ricerca
La Valorizzazione Culturale ed economica della ricerca scientifica, così si chiamava la tavola rotonda, con insigni relatori, a cui ho assistito il 5 settembre presso Palazzo Turrisi.
Era presente, ed ha anche concluso, il Sottosegretario del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca, Roberto Reggi.
Ho sentito tante cose sacrosante sulle quali concordo. Ma ce ne sono alcune che non ho sentito, e quindi mi avvalgo del privilegio di poter scrivere per il Quotidiano quel che avrei voluto dire in un intervento estemporaneo, se ci fosse stata la possibilità di intervenire.
Non si è parlato di ambiente. Si è parlato molto di industria, di tecnologia, di beni culturali, di ricerca applicata e di base, ma la parola ambiente non è mai stata usata, eppure i relatori erano dieci! Eppure, ogni volta che si parla di Sviluppo si mette sempre la foglia di fico del “Sostenibile”, il che significa che qualunque cosa facciamo non dovrebbe intaccare il patrimonio naturale. Forse si è dato per scontato ma, visto lo stato in cui è ridotto l’ambiente nel nostro paese, forse sarebbe valsa la pena rimarcarlo.
Un’altra cosa che non è stata menzionata è la valutazione della ricerca scientifica. L’abbiamo fatta, ma non se ne è parlato. I pochi fondi che la nostra Università distribuisce per la ricerca scientifica sono suddivisi a pioggia. In passato chi riusciva ad ottenere un Progetto di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN) riceveva un cofinanziamento dall’Università. Ora quei progetti sono tassati dall’Università. Si toglie a chi ha comportamenti virtuosi, presentando e vincendo i PRIN, e si dà anche a chi non ha presentato prodotti per la valutazione della nostra Università, penalizzandola.
Ho sentito parlare di finanziamenti europei distribuiti attraverso la Regione che, a dir la verità, ce la mette tutta per dare una mano alla ricerca in Puglia, ma non ho sentito parlare di progetti europei vinti con gare competitive a livello europeo. I veri soldi sono lì, e lì dobbiamo andarli a prendere. Ma vi assicuro che è molto difficile perché le procedure sono molto complesse e il personale amministrativo spesso non è adeguato a farvi fronte.
Non ho sentito parlare di corruzione. Purtroppo, da quel che apprendo dalla stampa, due Direttori Generali di due Ministeri sono stati arrestati per reati di corruzione. Uno è persino stato Ministro. Mi sorprendevo sempre che dessero moltissimi soldi a colleghi con scarse produzioni scientifiche, ora capisco. Forse queste pratiche erano solo in quei Ministeri ma, come Pasolini, so che non è così anche se non ho le prove per andare a denunciare i fatti presso la Magistratura. Se le avessi ci andrei.
Una parola che non ho sentito pronunciare è Scuola. Nel nostro sistema scolastico la ricerca scientifica è poco presente, la scienza non ha molto spazio neppure nel Liceo Scientifico, una fotocopia del Classico con la matematica al posto del greco. Siamo il paese in cui un Ministro della Pubblica Istruzione ha tolto l’evoluzione biologica dai programmi della scuola dell’obbligo.
Rimane un problema da affrontare per quel che riguarda la ricerca scientifica nell’Università: la massa critica dei ricercatori. L’Università, per definizione, deve affrontare l’universalità del sapere e ogni area deve essere presente. Questo impedisce che un’area di ricerca molto produttiva possa crescere tanto da raggiungere una massa critica che permetta il salto di qualità. Ci sono dei limiti alla crescita delle aree, visto che le risorse sono limitate. Una soluzione consiste nell’affiancare gli Istituti del Consiglio Nazionale delle Ricerche ai laboratori universitari. Le aree dove l’Università esprime ricerca di alto livello si dovrebbero raccordare con Istituti CNR che siano in grado, attraverso la collaborazione, di raggiungere la massa critica che permetta che una “piccola impresa” come un laboratorio universitario possa diventare una “grande impresa” consorziandosi con un Istituto CNR. Questa strategia è perseguita nelle Università, compresa l’Università del Salento, ma raramente avviene che alla base di queste scelte ci sia una seria valutazione. In altre parole, un’Università dovrebbe dire: le aree in cui siamo bravi sono queste, in base alle valutazioni, e su queste promuoviamo lo sviluppo di Istituti CNR. Lo stesso dovrebbe avvenire con i fondi regionali. Il supporto dovrebbe andare a chi ha dato prova di saper produrre buona ricerca, ottenendo ottimi punteggi nelle valutazioni. Troppo spesso i fondi sono andati sprecati, con la costruzione di Cattedrali nel deserto come il defunto Pastis o con programmi di formazione che non hanno dato gli esiti sperati. Il cambiamento è in corso, speriamo solo che vada nella direzione giusta. Il Magnifico Rettore, Vincenzo Zara, ha lamentato, a ragione, la eccessiva instabilità delle visioni con cui si attuano le varie “riforme” del sistema università-ricerca. Cambiare non basta, bisogna anche farlo in modo adeguato. Sino ad ora non lo si è fatto. Il Magnifico ha anche lamentato la burocratizzazione delle procedure. Verità sacrosanta. Invece di fare ricerca ci tocca fare i burocrati e le nostre attività sono spesso valutate non per gli obiettivi raggiunti ma per gli adempimenti espletati. L’oppressione burocratica è oramai una vessazione. E non ne possiamo più.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 8 settembre 2014]
Università concorsi e burocrazia
Mi spiace vedere di nuovo l’Università del Salento nelle notizie di cronaca, con inchieste su concorsi. Un Direttore di Dipartimento ha fatto un decreto di urgenza per nominare una Commissione di concorso. Sarebbe stata prerogativa del Consiglio di Dipartimento, ma il Direttore lo ha scavalcato emettendo il decreto. A dir la verità il Consiglio era stato convocato, ma era mancato il numero legale. E’ una cosa che si verifica sempre più spesso. Cosa significa? Significa che il Direttore convoca il Consiglio ma, perché la seduta sia valida, deve presentarsi un numero minimo di aventi diritto a partecipare. Si tratta di docenti, e di rappresentanti del personale non docente e degli studenti. Spesso e volentieri quel numero minimo non viene raggiunto, e la seduta non può essere tenuta. Ma il mondo scorre e bisogna fare le cose. E per questo esistono i decreti d’urgenza. Non spetta certo a me dire se il Direttore che ha nominato la Commissione abbia o meno ragione, o se la ragione sia dei denuncianti. Lo deciderà il giudice (magari tra dieci anni). Il problema è che abbiamo inventato procedure complicatissime che si fatica a seguire. Il patto tacito è che si aggirino, altrimenti si ferma tutto. Gli operatori di qualunque campo, quando vogliono fare sciopero bianco, applicano alla lettera il regolamento. Se si applica alla lettera il regolamento … si ferma tutto. Se non applichi alla lettera il regolamento, comunque, sei sempre ricattabile da chi cerca un pretesto per metterti nei guai. Su quel foglio non c’è il timbro giusto! Tutta la procedura è fallace e gli atti non valgono. Chi si sente prevaricato cerca il cavillo e la legge procede. Ho fatto mille concorsi (è un’iperbole) e la paura unica dei commissari è che tutti i verbali siano compilati nel modo giusto. I ricorsi non si vincono perché è stato promosso un candidato non valido, ma perché qualche dettaglio della procedura non è stato seguito. D’altronde il giudice che ne sa di tassonomia degli invertebrati? Come può giudicare la correttezza dei giudizi dei commissari? Il giudice guarda la forma. Se la forma è impeccabile, nessun problema. Ma se ci sono falle… sono guai.
Un Direttore, non parliamo di un Rettore, firma centinaia di atti ogni giorno. Non può leggerli tutti, si deve fidare di chi glieli passa. Se si passa al vaglio tutto il “firmato” di un Direttore di Dipartimento, non parliamo di un Rettore, nell’arco del suo mandato, sicuramente si potrà trovare qualcosa che formalmente potrebbe portare a reati amministrativi. Chi svolge questi servizi, nell’Università, ha una spada di Damocle sulla testa.
In teoria basta una telefonata a casa, fatta con il telefono dell’ufficio, per commettere un reato. E questo rende ricattabili praticamente tutti i dipendenti pubblici. Quando me ne sono reso conto, tanti anni fa, ho smesso di usare il telefono dell’ufficio. Magari telefoni a casa per avvertire che un impegno imprevisto ti costringe a lavorare oltre l’orario. E’ una telefonata personale o di servizio? Magari chiedi a tua moglie di cercare un documento che ti serve, e che hai lasciato a casa. In modo che te ne possa leggere gli estremi. Vallo a spiegare a un giudice. Sul tabulato c’è che hai telefonato a casa mentre eri in ufficio. O hai mandato un fax. O hai scritto un’email dall’indirizzo istituzionale ma non era un messaggio di servizio.
La paura di esser colti in fallo può portare alla paralisi di qualunque attività. Il Rettore Limone è stato costretto alle dimissioni, se non ricordo male, per una missione e una cena non ben rendicontate (reato di peculato). E ancora il suo calvario giudiziario non è finito. Nel frattempo anche per il Rettore Laforgia si chiede il rinvio a giudizio per abuso d’ufficio. La nostra vita è sempre più costellata di adempimenti da assolvere, e alla sostanza, agli obiettivi, non viene data alcuna importanza. Il paese va a rotoli, ma la forma è salva. I medici tendono a non operare pazienti in pericolo di vita perché se muoiono i parenti fanno subito causa. A Genova un ricorso al TAR ferma i lavori e la gente muore. Il motivo è che abbiamo fatto un uso disinvolto delle regole e ora il pendolo va nella direzione opposta. Ora le regole ci schiacciano. Ancora non siamo un paese normale.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 30 dicembre 2014]
Didattica o didattica e ricerca? Università a un bivio
In molti paesi le Università non sono tutte uguali. Ci sono quelle dove si fa didattica e ricerca, e quelle dove si fa solo didattica. Inutile dire che le università più rinomate sono quelle dove la qualità della didattica è garantita dalla qualità della ricerca. I docenti sono eminenti personalità nella disciplina che insegnano, e ne incrementano le conoscenze con i contributi originali dei loro studi. Nelle università dove si fa solo didattica si conferiscono lauree ma, per esempio, non ci sono i dottorati di ricerca. In Italia tutte le università sono Università in senso anglosassone. E non esistono i College, cioè le università dove si fa solo didattica. Le recenti valutazioni hanno mostrato che questo non è vero, e che ogni Università è un misto di Università (dove si fa didattica e ricerca) e di College (dove si fa didattica). Ci sono docenti che fanno ricerca a un certo livello, e ce ne sono che proprio non ne fanno o che, comunque, hanno ricevuto una bassa valutazione. Ogni Università ha un mosaico di queste tre tipologie, con diverse proporzioni. Lo stato non può più permettersi di mantenere questa finzione in cui tutte le università sono Università. E, piano piano, ognuna prenderà la sua strada. In alcune si farà ricerca e didattica, e in altre si farà solo didattica.
Cosa sceglierà l’Università del Salento? Vogliamo un’università dove si fa solo didattica? O un’Università dove la ricerca abbia un ruolo di garanzia della qualità della didattica? Dopo la recente valutazione della ricerca universitaria, alcune Università stanno correndo ai ripari per affrontare la prossima valutazione. Il Dipartimento di Bioscienze dell’Università di Milano, per esempio, ha preso l’iniziativa di farsi valutare da valutatori esterni, scegliendo di essere un’Università, e vuole migliorare la sua ricerca, perché pensa che avere professori di alto livello sia una forte attrazione per gli studenti.
E noi? Leggo di strategie di presenza nelle scuole, di pubblicità sui muri, e tante altre iniziative che attraggano gli studenti salentini e che li spingano a restare qui, a non andare altrove. Devo ammettere che, vista la crisi, mi sarei aspettato un maggior numero di studenti salentini nella nostra Università, perché andare al nord “costa”. Mi sbagliavo. Gli studenti vogliono andare nelle Università migliori, e le famiglie fanno qualunque sacrificio per mandarceli. E qui torniamo alla ricerca. Le Università migliori sono quelle dove si fa ricerca di alto livello. Dove i professori non devono andare nei licei per farsi conoscere, perché sono già conosciuti attraverso i media nazionali. Non per niente, la terza missione dell’Università è quella di propagandare il più possibile i propri risultati nei media, in modo che si sappia quel che produce.
Ora, poniamoci una domanda: quali sono le aree tematiche in cui la nostra Università è rinomata e conosciuta a livello nazionale e internazionale? Le recenti valutazioni della ricerca lo hanno mostrato abbastanza bene. Una strategia potrebbe essere: puntiamo su questo come nucleo di base già consolidato, e poi allarghiamo la base su cui fondare un’Università, con investimenti che mirino a rinforzare discipline che hanno le potenzialità di utilizzare al meglio le infrastrutture a nostra disposizione. Le lauree triennali, generaliste, possono anche essere basate sulla didattica. Ma le specialistiche no. E neppure i dottorati. L’Università deve valorizzare il meglio della propria ricerca proprio nelle specialistiche, nei dottorati, e nell’ISUFI. In modo da attirare studenti da tutta Italia, e anche dall’estero. Man mano che un nucleo di professori-ricercatori raggiungerà la massa critica per una didattica di alto livello, si inaugureranno nuove magistrali e percorsi di dottorato di ricerca. Lecce è una città bellissima, ci si vive bene e viverci costa senz’altro meno di Milano, o Roma, o Bologna. Dobbiamo attirare studenti da tutta Italia e, con loro, verranno anche i salentini. Ma solo dove la qualità sia garantita e certificata.
L’alternativa è offrire corsi a basso prezzo, con “quello che passa il convento”, e puntare tutto sulla didattica. Lasciando la ricerca al proprio destino. In questo caso, però, l’Università della ricerca e della didattica diventerà un’università dove si offre solo didattica, un College. Come avviene nel resto del mondo. Avverrà anche da noi. Il Ministero offre alle Università la possibilità di scegliere il proprio destino, con le strategie che vorranno intraprendere. I punti organico, gli edifici e quant’altro potranno essere investiti nel potenziamento della ricerca, allargando sempre più la base esistente, oppure potranno essere divisi a pioggia, accontentando le componenti più numerose del mondo accademico. Questa scelta condizionerà il futuro della nostra Università. Nelle discussioni di questi giorni non ho mai visto la parola ricerca, e neppure la parola valutazione della ricerca. Solo didattica. E quindi credo che la strada della didattica, staccata dalla ricerca, sia quella che abbiamo deciso di intraprendere. La conferma viene dalla strategia per decidere come distribuire gli incentivi, visto che privilegia l’attività didattica e gestionale. Le diavolerie inventate dall’Agenzia Nazionale di Valutazione, tipo le mediane e la valutazione della produzione scientifica, sono state ignorate. A Milano hanno basato il loro sviluppo proprio su questo. Ma qui a Lecce pare proprio che la strada intrapresa sia differente. Basta saperlo.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 19 ottobre 2014]