di Antonio Errico
Quando il primo extraterrestre sbarcherà sulla terra, la prima cosa che farà sarà quella di andare a leggersi un’opera di Shakespeare.
Così ha detto qualche giorno fa, in un’intervista al “Il Messaggero”, Flavio Bucci, l’interprete strepitoso di Antonio Ligabue.
Shakespeare è una sintesi. Shakespeare è una sineddoche; è la parte per il tutto. Sta al posto di classico, di esemplare, al posto di bellezza; vuol dire sommità di concetti, profondità semantica.
Flavio Bucci ne ha nominato uno per tutti. Avrebbe potuto dire Dante, Omero, Virgilio, Leopardi, Baudelaire, Goethe, Seneca, Cervantes, Coleridge, Lee Masters, Ariosto, Voltaire, Keats. Avrebbe potuto fare un elenco di nomi senza mai riuscire a terminare. Ha detto Shakespeare, e ci ha fatto capire.
Quando il primo extraterrestre arriverà da queste parti, vorrà capire, o dovrà necessariamente capire, come funziona il mondo da queste parti. Senza la conoscenza del suo funzionamento, non avrà alcuna possibilità di sopravvivenza. Vorrà e dovrà capire che cosa sono la pace e la guerra, l’amore e la violenza, l’odio e la compassione, la paura e l’illusione, la colpa e l’innocenza, la saggezza e la stoltezza, la serenità e la follia, l’egoismo e l’altruismo, la verità e la menzogna, la felicità e il dolore, l’oblio e la memoria; che cos’è la realtà e che cos’è il sogno.
Vorrà capire; dovrà capire.
Ma il catalogo dell’umano è scritto dentro i classici. Lì è compilato il catalogo delle passioni. Tutto quello che può accadere mentre si attraversa il proprio tempo. La commedia e la tragedia. L’imprevedibilità e l’imprevisto. L’euforia e la depressione. L’affermazione di sé e la negazione. Lì sono contemplate tutte le esperienze, le storie, le avventure possibili e impossibili, le occasioni che si possono prendere o perdere; lì ci sono miserie e nobiltà, i chiari, gli scuri, i chiaroscuri, le realtà che sembrano finzioni e le finzioni che si propongono come realtà.
Nei classici si stendono tutti i luoghi della terra, si muovono tutti gli uomini e le donne che sono vissuti, quelli che vivono e che vivranno, e anche quelli che non vivranno mai, si ritrovano tutte le storie del mondo che l’extraterrestre vuole conoscere, tutte le loro trame e i loro intrecci, tutti gli incipit e gli explicit, tutti i fini lieti e tutti quelli tristi.
Quando il primo extraterrestre arriverà su questa terra, per capire come si vive, come si sopravvive, come si muore una volta sola o più volte, avrà bisogno di tutti i classici, oppure di uno solo.
Shakespeare, dice Flavio Bucci. Ma ognuno può dirne un altro, secondo il proprio sapere e il proprio piacere.
Forse non sarà necessario che l’extraterrestre li conosca tutti. Forse basterà che ne conosca solo uno. Perché se un libro è un classico, li contiene tutti. Se un libro è un classico che rappresenta un microcosmo, quella rappresentazione diventa universale, racconta il mondo intero. Allora basterebbe solo Garcia Marquez.
Quando il primo extraterrestre cercherà i classici, probabilmente avrà bisogno di un consiglio. Se per caso il consiglio lo chiedesse a chi scrive queste righe, gli risponderebbe il Novecento. Gli direbbe leggi qualsiasi cosa del Novecento. Non farebbe nessun nome, nemmeno uno. Un libro di poesie, un romanzo qualsiasi, un qualsiasi saggio del Novecento. Basta un libro solo, gli direbbe. Se vuoi capire da dove veniamo, forse anche dove stiamo andando, se vuoi capire il modo in cui siamo e il motivo per il quale non siamo in un modo diverso, se vuoi capire le tensioni, le contraddizioni, le fantasie, gli entusiasmi, i tremori, certi trasalimenti, certe nostre ossessioni, le bellezze e le bruttezze che ci portiamo dentro, i ricordi di cui siamo impastati, i nostri torti e le nostre ragioni, se vuoi capire i sogni che abbiamo, quelli ai quali abbiamo rinunciato, le nostre illusioni e le delusioni, gli innamoramenti e i disamori, il nostro volare alto e il nostro strisciare, il nostro canto e il nostro silenzio, leggi il Novecento.
Magari gli verrebbe da dire leggi Kafka, leggi Thomas Mann, Brecht, Woolf, Rilke, Montale, oppure Benjamin oppure Wittgenstein, o ancora Ricoeur, ma non farebbe nessun nome, non pronuncerebbe nessun titolo. Si morderebbe la lingua per non dire leggi Pavese, Sciascia, Calvino, oppure Primo e Carlo Levi, oppure Salinger, oppure Kundera.
Perché ha ragione Flavio Bucci: uno vale per tutti.
Il Novecento ha creato un mondo nuovo, un uomo nuovo, e nuove storie, nuovi pensieri, nuovi linguaggi, nuove scienze. Ha richiesto, ha preteso, una relazione diversa con il tempo, lo spazio, l’universo, i sentimenti, con noi stessi. Senza leggere i classici di quel tempo, un extraterrestre non può capire tutto questo. Non possiamo capirlo neanche noi. Se non leggiamo i classici del Novecento, non siamo per nulla diversi da un extraterrestre. Ci manca l’orientamento, il senso delle cose, la spiegazione di cause e conseguenze degli avvenimenti.
All’extraterrestre basterebbe un solo libro per capire: non tutto, certamente, perché il tutto non si capisce mai. Gli basterebbe un solo libro per capire una condizione essenziale del nostro essere ora, qui: il dubbio. Il dubbio – quello essenziale, quello che apre la via della ricerca- è stato trasformato in metodo sistematico e ineludibile dal Novecento. Finanche quel dubbio che conduce all’assolutezza della negazione. Allora, per questa condizione, all’extraterrestre basterebbero soltanto due versi di Montale: “Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.
Quando l’extraterrestre avrà letto tutti i classici del Novecento, oppure soltanto uno di essi, non si può escludere che ci ripensi sull’opportunità di trattenersi da queste parti.
Probabilmente dalle sue parti è tutto meno complicato, tutto più leggero. Da quelle parti non hanno avuto le tragedie, le lacerazioni, le contraddizioni del Novecento. Però non hanno avuto nemmeno gli splendori delle sue scienze, delle arti, delle filosofie. Dalle sue parti non hanno mai sentito il sapore dolceamaro dei suoi classici. Insomma, manca loro qualcosa.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 20 gennaio 2019]