di Guglielmo Forges Davanzati
Preoccupa il dato recentemente rilasciato dalla Banca d’Italia, riferito a un calo della produzione industriale, in Italia, nell’ordine del 1.6%, imputabile a una riduzione della domanda di beni strumentali proveniente da Germania e Stati Uniti. La Germania, in particolare, e ancor più la Cina registrano un rallentamento della crescita confermando un quadro macroeconomico globale non particolarmente positivo. La gran parte dei commentatori imputa questi fenomeni a un aumento dell’incertezza, a sua volta generato dal protezionismo USA, dalla fine del quantitative easing in Europa e, non da ultimo, da Brexit. È opportuno preliminarmente precisare che è dal 2008 (anno della crisi dei mutui subprime) che l’Italia continua, pressoché sistematicamente, a far registrare cali – più o meno intensi e più o meno duraturi – di produzione manifatturiera: non si tratta di un rallentamento della crescita, ma di un passo indietro, ovvero di un ulteriore allontanamento dai valori assunti dalla produzione industriale prima dello scoppio della prima crisi.
Il Governo in carica ci mette del suo. La lunga trattativa con le Istituzioni europee e la travagliata gestazione della Legge di Bilancio hanno certamente contribuito a generare incertezza, così come – a dire degli imprenditori – pesa il depotenziamento delle decontribuzioni previste per l’ammodernamento degli impianti (il c.d. piano industria 4.0). Ad accrescere l’incertezza contribuisce anche la continua revisione degli impegni di spesa – si pensi alle diverse declinazioni che il reddito di cittadinanza ha assunto negli ultimi mesi. E, non da ultimo, il fatto che – al netto dei tanti annunci e della incessante propaganda – questo Governo ha sistematicamente rinviato provvedimenti costosi per la finanza pubblica, optando per misure a costo zero. Il decreto sicurezza è di fatto l’unica misura adottata ed è una misura con costi a carico del bilancio pubblico sostanzialmente irrisori. A fronte di ciò, si calcola un incremento nell’ordine del 25% delle spese per comunicazione rispetto ai due governi precedenti.
Sembra di trovarsi di fronte a una strategia di attesa che, sul piano delle politiche economiche, porta a immobilismo o a una sequenza di annunci su ciò che verrà fatto che non stabilizza le aspettative di consumatori e imprese, semmai le peggiora, a ragione dei continui cambiamenti dei contenuti dei provvedimenti annunciati. Che si sia scelta la strada del non fare ha una sua razionalità o quantomeno un fondo di ragionevolezza: il contesto macroeconomico internazionale è talmente confuso da indurre ad attendere che si creino le condizioni per una ragionevole certezza sulle prospettive di breve-medio termine.
Tuttavia, una strada alternativa sarebbe stata percorribile, almeno su due fronti:
1. L’economia italiana non cresce, o cresce meno della media dell’Eurozona, soprattutto a ragione della fragilità del suo tessuto produttivo. L’Italia ha un numero eccessivamente elevato di micro-imprese che non innovano, che sono poco esposte nel commercio internazionale, spesso (soprattutto al Sud) a gestione familiare. Il Governo, o parte di esso, ritiene che questa sia una specificità italiana – la produzione artigianale in piccoli opifici – che vada tutelata e questa convinzione è spesso associata alle presunte virtù del “piccolo è bello” e, all’estremo, a una prospettiva di ritorno alla terra e di decrescita. L’economia italiana, per contro, avrebbe bisogno – nei limiti dello spazio fiscale disponibile – di investimenti pubblici in ricerca, che attivino un percorso potenzialmente virtuoso di crescita trainata da innovazioni.
È sempre opportuno ricordare che la spesa pubblica e privata per ricerca e sviluppo in Italia è la più bassa dell’Eurozona. Ed è sempre opportuno ricordare che, in una condizione nella quale le imprese non innovano, è bene che sia lo Stato a diventare innovatore di prima istanza. In altri termini, come ampiamente mostrato in letteratura, le innovazioni nel settore privato sono sempre (e sono storicamente sempre state) precedute da innovazioni nel settore pubblico: si pensi ai computer che quotidianamente utilizziamo, i cui dispositivi tecnici originano, in ultima analisi, da investimenti pubblici nel settore informatico che possono farsi risalire alla seconda guerra mondiale e agli ingenti finanziamenti erogati, in quella fase, all’apparato bellico negli Stati Uniti.
2. L’economia italiana è eccessivamente ‘bancocentrica’: il finanziamento della produzione delle nostre imprese dipende in maniera cruciale dal grado di accomodamento del sistema bancario. Ciò è in larga misura connesso con le piccole dimensioni aziendali e quindi con i pochi fondi interni di cui le imprese italiane dispongono. In una fase recessiva – quella che stiamo attraversando – l’erogazione di credito bancario tende a contrarsi o, in alcuni casi (si pensi al recente problema di Banca Carige), l’aumento dei crediti inesigibili (per un ammontare complessivo stimato nell’ordine dei 37 miliardi di euro) deteriora i bilanci bancari rendendo necessari interventi pubblici di ‘salvataggio’. I salvataggi bancari – ovvero l’iniezione di spesa pubblica nei bilanci delle banche – crea due ordini di problemi. Da un lato, contribuisce alla crescita del debito, per usi, peraltro, non produttivi (ovvero che non hanno effetti su crescita economica e occupazione); dall’altro, creano problemi di azzardo morale, ovvero generano l’aspettativa che eventuali scelte eccessivamente rischiose assunte dalle banche nell’erogazione di prestiti (o per le loro attività speculative) non abbiano costi per loro, dal momento che sarà lo Stato a farsene carico. Non cambia molto nel caso di nazionalizzazioni, a meno che queste non siano pensate in forma non temporanea e per una radicale revisione dei modelli di gestione delle banche, iniziando con maggiori investimenti in nuove tecnologie. Pensare a una normativa più rigida sull’attività bancaria – che disincentivi comportamenti opportunistici e che eviti eccessiva esposizione degli Istituti di credito nei mercati finanziari – potrebbe essere una buona idea. Per un Governo che si autodefinisce del cambiamento e che fa della dignità del lavoro un punto fermo del suo programma, sarebbe anche una buona idea intervenire sugli esuberi nel settore bancario e sulla prassi di concedere premi di risultato legati alla vendita di prodotti finanziari: prassi che, sebbene in forme rinnovate, è all’origine dello scoppio della crisi del 2008.
È troppo poco e fuorviante mettere in campo misure a favore di soggetti truffati dalle banche: innanzitutto perché le banche non truffano, ma operano nel quadro della legislazione vigente; in secondo luogo, perché le presunte truffe derivano proprio da una deregolamentazione pressoché totale del sistema. Questi interventi – sul settore industriale e su quello bancario – non sono vietati dalla burocrazia europea.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 22 gennaio 2019]