Il viaggio di espiazione della famiglia Bundren: Mentre morivo di William Faulkner

di Adele Errico

Mentre morivo nasce tra le nere polveri e le caldaie roventi di una centrale elettrica. William Faulkner lo scrisse usando come tavolo una carriola capovolta quando faceva il turno di notte come fuochista presso l’Università di Oxford, nel Mississippi. Per dodici ore al giorno, dalle sei del pomeriggio alle sei di mattina, la sua mansione era quella di riempire di carbone una carriola e alimentare la caldaia. Intorno alle undici la gente andava a dormire, quindi la caldaia non aveva bisogno di tanta alimentazione; da mezzanotte alle quattro egli poteva dedicarsi interamente alla scrittura; nelle orecchie il sottofondo del ronzio della dinamo. Lo scrisse senza correggere una parola, in sei settimane. Chiuso in quell’ambiente cupo, nell’atto alienante di trasportare il carbone dalla stiva alla caldaia, le vicende e i personaggi soffocavano sepolti sotto vangate di carbone. Ma nelle quattro ore di pausa trascorse a scrivere appoggiato su quella carriola rovesciata, “insorgevano” nella sua testa i membri della famiglia Bundren, fissati sulla carta prima che scattasse l’ora in cui sarebbe ritornato a caricare il carbone. Scriveva di getto, immaginandoli tutti e sei stretti su un carretto sgangherato in viaggio verso Jefferson – capitale della contea immaginaria di Yoknapatawpha del sud degli Stati Uniti, universo d’ambientazione  di molti romanzi di Faulkner – per onorare la volontà di Addie Bundren, la madre defunta, di essere sepolta nel luogo in cui era nata: per duecentotrentuno pagine (nell’edizione Gli Adelphi) si segue lo sballottare del carretto in un peregrinare immaginato da Faulkner come l’insieme di tutte le disgrazie possibili che potrebbero rovesciarsi su una famiglia.

(Ho letto Mentre morivo in treno, nella tratta Milano-Lecce, quasi dieci ore. Ma non sentivo di essere in treno. Ero anche io su quel carretto malconcio. Insieme a loro viaggiavo per andare a seppellire Addie. Non mi sono mossa, ero inchiodata al sedile. Se leggi di un viaggio durante un viaggio immediatamente non ti è più chiaro dov’è che stai andando. Non ero più diretta a Lecce ma a Jefferson, e se guardavo fuori dal finestrino non c’era il mare ma le campagne alluvionate di Yoknapatawpha. A stare seduta per dieci ore in treno le gambe fanno male, ma me ne sono resa conto solo dopo l’ultima riga del romanzo).

Il momento cruciale della storia è quello in cui gli occhi di Addie morente “si spengono come se qualcuno si fosse piegato in avanti e vi avesse soffiato sopra”. Adagiata sul letto, la madre guarda fuori dalla finestra e osserva, come se fosse lo spettacolo della sua futura sepoltura, il figlio Cash che costruisce la bara sotto i suoi occhi, quegli occhi che, ardenti come fiammelle, diventano vuoti e bui nell’istante in cui la vita va via da lei. L’ultimo sguardo è per Vardaman, il figlio più piccolo, poi il personaggio di Addie esce di scena, restando, tuttavia, elemento indispensabile della narrazione, spinta necessaria del viaggio sfortunato. Nella macabra atmosfera del lutto, partono i Bundren, marito e figli, in direzione di Jefferson, dopo aver caricato sul carretto la pesante bara contenente il corpo ancora caldo di Addie: Anse, il marito gretto e testardo, la mentalità contadina che attanaglia il cervello; Cash, il costruttore della bara; Darl, reduce disadattato della Grande Guerra, il figlio folle al quale Faulkner attribuisce diciannove dei cinquantanove monologhi, che descrive la situazione con sguardo, allo stesso tempo, lucido e deformante; Jewel, frutto dell’adulterio di Addie, legato alla madre da un sentimento di odio-amore; Dewey Dell, unica femmina, precocemente cresciuta nelle vesti di figura femminile sostituta;  Vardaman, il più piccolo, che assiste alla morte della madre e viene gettato troppo presto nel mondo misero e ancestrale dei Bundren. Il tempo previsto per il viaggio è di circa una giornata, ma la rottura dei ponti che attraversano il fiume, causata dall’inondazione, lo rende interminabile: la bara, trasportata per nove giorni, inizia, ad un certo punto, a emanare un odore nauseabondo.

In un luglio torrido e piovoso, i Bundren intraprendono il viaggio spinti da profonda devozione per Addie e appassionata decisione di rispettare le sue ultime volontà. Ma, lentamente, la figura della madre diventa sempre più lontana e non è più per onorare la sua memoria che si affanna quel carretto a raggiungere Jefferson, ma perché è carico di tutte le colpe e le miserie dei suoi passeggeri. Ogni membro della famiglia è prigioniero del proprio dramma e nasconde qualche inconfessabile segreto. Così, le peripezie del viaggio diventano mezzo di espiazione delle colpe e delle vergogne, fino alla redenzione. Il viaggio, simbolo della purificazione, si connota di aspetti simbolici, comici, assurdi e ridicoli e diventa, in questo romanzo, reductio ad absurdum: attraverso una serie di passaggi logici si giunge a una conclusione incoerente e contraddittoria. Le sofferenze provate dai Bundren durante la traversata, la rottura della gamba di Cash, l’aborto e la prostituzione di Dewey Dell, l’internamento in manicomio di Darl, portano all’arrivo a Jefferson e ad un finale disarmante: dopo la sepoltura, Anse, “mezzo contrito e mezzo orgoglioso” giunge con una nuova “signora Bundren” e con i denti nuovi tanto desiderati (era sdentato). Le disavventure più assurde e le sofferenze strazianti che la famiglia ha conosciuto, causate dalla morte della madre e affrontate per la memoria di lei, vengono immediatamente cancellate dal ritorno alla banalità, da un riscatto rappresentato da denti nuovi e da una moglie nuova, un’anonima “signora Bundren” che sostituisca la defunta.

Questo viaggio ricorda una discesa agli Inferi seguita da una vittoriosa risalita. E proprio da una discesa agli Inferi è tratto il titolo (As I lie dying nell’originale): quella di Odisseo del libro XI dell’Odissea. Quando l’eroe, nell’Ade, incontra Agamennone, l’Atride racconta della sua morte per mano di Clitemnestra e di come “a terra morente (…) la faccia di cagna (…) non ebbe il cuore, mentre andavo nell’Ade, di chiudermi gli occhi” (“As I lay dying the woman with the dog’s eyes would not close my eyelids for me as I descended into Hades”). Il viaggio dei Bundren trova origine, dunque, nel viaggio assoluto, quello di Odisseo verso Itaca, il nòstos dell’eroe.

Due parole. Mentre morivo. Ed è quello stesso “mentre” a racchiudere in sé un viaggio intero. In quel “mentre” c’è Addie che dalla finestra guarda Cash costruire la bara, i sei Bundren affollati sul carretto, c’è Odisseo che, prima di tornare a casa, affronta la discesa agli Inferi, c’è Agamennone che resta con gli occhi sbarrati in una pozza di sangue e Clitemnestra che non prova pietà nemmeno per chiuderglieli. Tutto questo c’è in Mentre morivo, tutto in una tratta Milano-Lecce di dieci ore.

[“Clinamen”, gennaio 2018.]

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