Interventi sull’Università di Ferdinando Boero 1. Anno 2013

di Ferdinando Boero

L’Università del Salento ha il diritto di sapere

Leggo con interesse, e un certo sgomento, il resoconto di Tonio Tondo sugli appalti edilizi presso l’Università del Salento (GdM del 9 gennaio). Vedo che l’articolo cita la domanda che feci durante la presentazione del megaprogramma edilizio e, sentendomi tirato in causa, mi preme aggiungere qualcosa. Andai con molta curiosità alla conferenza sul programma di sviluppo edilizio dell’Università. A dir la verità mi aspettavo che si facessero proposte (qualcuna l’avevo anche io) e, invece, in un’aula magna semideserta, trovai tutto già deciso. Non mi risulta che ci siano state riunioni propositive, simili a quella in cui si comunicava l’immodificabile. Il numero di strutture da costruire era impressionante. L’ammontare degli appalti superava i cento milioni di euro. Fui il primo a prendere la parola, alla fine della presentazione. Feci presente che i professori che andavano in pensione non venivano rimpiazzati, che i precari correvano il rischio di essere licenziati (cosa poi avvenuta) e che molte attività erano portate avanti con personale a contratto, pagato con i fondi dei progetti dei singoli docenti. Fatichiamo a tirare avanti con quel che abbiamo, e perdiamo continuamente forza lavoro su cui poter contare in modo stabile. Come faremo a riempire (e a gestire) un patrimonio così smisuratamente aumentato?

Il Rettore mi rispose che non c’era problema. Ma i dubbi, per me, restano. Ora vedo che la gestione degli appalti presenta qualche tratto di opacità. A dir la verità, in quella conferenza, il Rettore disse di essere l’unico project manager dell’Università del Salento e che quindi nessuno, meglio di lui, avrebbe potuto gestire questioni così complesse.

Tonio Tondo parla di email di convocazione di riunioni cui parteciparono professionisti che poi avrebbero ricevuto incarichi relativi al nuovo piano edilizio. Pare che queste riunioni siano state convocate dal Rettore e siano avvenute alla sua presenza, con personale dell’università e con professionisti che avrebbero dovuto concorrere. Sarei curioso di sapere se queste corrispondenze sono in possesso anche della Procura, e se i dipendenti dell’Università coinvolti in queste faccende (se il resoconto è corretto) sono stati sentiti. Ho appreso da fonte sindacale che i due sindacalisti che registrarono le conversazioni dalle quali il Rettore apprese di essere stato tradito (uso le sue parole) dal Direttore Generale sono stati proposti per provvedimenti disciplinari. Le email cui fa riferimento Tonio Tondo sono state ovviamente disvelate da qualcuno che lavora in Università. Si tratta di fonti anonime? In articoli precedenti apprendo che alla Procura sono pervenuti esposti anonimi che spiegano in dettaglio pratiche poco chiare relativa a quelle che il Rettore chiama “le mie società”. Solo chi lavora “dentro” l’Università ha la possibilità di conoscere dettagli di rilievo. Ma occorrono riscontri, perché siamo purtroppo abituati a ben orchestrate macchine del fango che poi, sottoposte a vagli accurati, dimostrano l’inconsistenza delle accuse.

[“La Gazzetta del Mezzogiorno” di giovedì 10 gennaio 2013]

 

Cambiare le regole per scegliere il futuro rettore? Mission impossible!

Leggo sul “Quotidiano” che sarei uno dei possibili candidati a Rettore. Mi sono candidato diverse volte per ricoprire cariche in Università, e sono sempre stato bocciato. Mi manca la bocciatura a rettore e poi la collezione sarebbe terminata.  

Vedo che i sindacati chiedono le primarie. Ci avevo pensato anche io ma ora, visto che se si esprime un’opinione si viene immediatamente catalogati in uno schieramento, mi sento in imbarazzo. Sono proprio gli schieramenti che non mi piacciono. Le “cordate”. Perché di solito le cose funzionano così: i candidati cercano alleanze nelle varie aree, ovviamente promettendo attenzioni, nomine, sviluppi in caso di vittoria. Chi vince ha una sua “corte” che deve essere gratificata. Gli altri, l’altra cordata, viene messa in un angolo e deve avere il meno possibile. Tra laforgiani e antilaforgiani, dopo le elezioni, ci saranno le rese dei conti. Come è successo ai tempi della caduta di Oronzo Limone, trascinato nella polvere dietro al carro del vincitore, tra due ali di folla urlante. La folla di chi, fino al giorno prima, bussava alla porta di Limone per chiedere “qualcosa” (spesso ottenendolo…). Con “limoniani” cha improvvisamente diventavano “laforgiani”. 

Detto questo, ho le mie idee su cosa sia necessario per risanare l’Università. Un esempio? Accorperei gran parte dei corsi di primo livello, costruendo percorsi formativi basati sulla didattica, in vista di studi più avanzati. Un solo corso per grande area tematica. Magari con il terzo anno di indirizzo. Le lauree magistrali, invece, devono essere l’espressione didattica di quanto di meglio l’Università ha da offrire in termini di ricerca. Le magistrali si devono basare su un nucleo di docenti che abbia ricevuto ottime valutazioni della propria attività scientifica. Nelle materie scientifiche, i corsi vanno fatti in inglese. Le magistrali di Lecce devono attirare studenti da tutt’Italia (in una succede già, ci sono studenti da Benevento, Lecce, Milano, Napoli, Ravenna, Roma, Ucraina). I leccesi che non troveranno rispondenza alle loro aspettative qui, andranno fuori, ma è importante che il flusso sia bidirezionale. Non possiamo pensare di offrire corsi eccellenti in tutte le discipline: poche cose, ma che siano quanto di meglio offre il mercato nazionale. I dottorati di ricerca saranno attivati solo nelle aree delle magistrali. Le aree che non esprimono eccellenza certificata saranno impegnate nella didattica delle lauree triennali, mentre le aree avanzate, assieme alla ricerca, cureranno magistrali e dottorati. Molta offerta formativa verrebbe ridimensionata, in coerenza con i risparmi imposti dalle restrizioni di budget. La destinazione delle risorse, quindi, sarà basata esclusivamente sul merito. A una seria valutazione dei profili scientifici conseguirà la destinazione di risorse umane e materiali. I criteri saranno quelli utilizzati dall’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca. I delegati del rettore dovrebbero essere i migliori esponenti delle varie aree culturali espresse nell’Università. Il rettore dovrebbe chiamare a fianco a sé quanto di meglio l’Università ha da offrire, in ogni disciplina. Non certo i più “fedeli” e “fidati”, cioè quelli che faranno tutto quello che lui chiederà, perché è solo attraverso i favori che possono pensare di ottenere qualcosa. E’ così che si formano le “corti”, identificate nel nome del “capo”. E’ da queste pratiche che deriva il termine “baroni” per definire i professori universitari.

Per chi non rientra nelle categorie virtuose si dovranno pensare investimenti di incentivazione. Chi “sente” di poter fare di più potrà proporre progetti di sviluppo di medio termine che coinvolgano un nucleo significativo di docenti, magari da impegnare in un progetto didattico di laurea magistrale. Nel caso di successo progettuale si attivano le lauree magistrali. In caso di insuccesso, c’è sempre da lavorare nelle lauree di primo livello. Non possiamo correre il rischio di istituire altri Pastis e, magari, di ripetere l’errore. Ci sono già troppe cattedrali nel deserto (e altre sono pianificate). 
La semplicità di questo “piano” prevede procedure basate su trasparenza e valutazione. Possibile che non si riesca a rispondere a domande tipo: quali sono le tematiche di maggiore rilievo portate avanti nell’Università del Salento? I principi di trasparenza e valutazione dovrebbero essere attuati anche nell’area tecnico-amministrativa. C’è un piccolo problema. Un progetto del genere scontenterebbe la maggioranza, e la maggioranza vince, nei sistemi democratici.

E quindi mi dovrei rassegnare alle “cordate” contrapposte, con laforgiani e antilaforgiani? Sapete che vi dico? Se queste sono le regole, proprio non mi interessa e, per favore, non nominatemi più come candidato rettore.

Ah, ovviamente se continueremo con queste logiche, visto che la valutazione del sistema universitario è in corso, saremo sempre più penalizzati e, prima o poi, diventeremo un satellite secondario di Bari.

E ora, davvero, non scriverò più sull’Università del Salento. Tanto la mia impressione è che quel che ho da dire non interessi proprio a nessuno.

[“Il Nuovo Quotidiano di Puglia” di sabato 12 gennaio 2013]

 

Brividi lungo la schiena

Ho letto le domande di Pino de Luca sul Quotidiano di ieri. Mi chiede, e si chiede: Ma davvero è possibile che dietro allo scontro culturale tra diverse ipotesi di gestione dell’Università del Salento ci siano questioni “edilizie” piuttosto che questioni squisitamente epistemologiche e scientifiche? E appare incredulo di fronte a scenari che ho prefigurato in qualche articolo. Ha ragione: ci sono questioni squisitamente epistemologiche e scientifiche che ci lacerano. Quando il Preside di  Ingegneria dice che bisogna procedere ai lavori e non fare alcuna analisi di sostenibilità perché altrimenti non si farebbe mai niente… si scontra con una visione alternativa (che mi sento di condividere) che prevede di fare attente analisi prima di cementificare. Queste due visioni sono in opposizione. Non le discipline, intendiamoci. Non mi sento di approvare il modo con cui, oggi, vengono praticate certe discipline e mi auguro che la loro pratica cambi, tutto qui. Se l’Italia è devastata da opere inutili e fortemente invasive, significa che qualcuno le ha pensate, e poi le ha realizzate. Se qualcuno ha costruito la ferrovia adriatica direttamente sulla spiaggia e poi ha costruito cinquecento chilometri di difese costiere perché, ma guarda un po’, il mare se la sta portando via… significa che il costruire non è stato in armonia con l’ambiente in cui è stato inserito.

Avrei moltissimo voluto discutere. Quel sabato mattina, quando sono state presentate quelle opere, mi sarebbe piaciuto discutere. Ho infatti fatto una domanda, subito dopo. Ho chiesto: ma come mai non ne abbiamo mai parlato? Ora veniamo a sapere che tutto è già stato deciso. Mi sarebbe piaciuto poter discutere, confrontare idee e progetti, valutare quali siano, per esempio, le linee di ricerca più trainanti nella nostra Università, e fare proposte per strutture che potrebbero essere utili al loro sviluppo, sia per la ricerca sia per la didattica. Già: quali sono le linee di ricerca trainanti nell’Università del Salento? Ne vogliamo discutere? Non interessa.

Leggo questo articolo di Pino De Luca mentre sono a Bruxelles. Tra poco ci incontriamo con il Commissario all’Ambiente per presentare un documento intitolato “Navigating the future”, delinea il futuro della ricerca europea sul mare. Europea, non della Regione Liguria. Una parte l’ho scritta io, e sono stato chiamato a scriverla perché coordino un grande progetto europeo sul mare (che comprende 22 stati) e, guarda caso, sono l’unico italiano a coordinare progetti europei su tema marino. Mi piacerebbe tantissimo poter discutere di questioni epistemologiche e scientifiche, ma nella mia Università non ne ho avuto modo. Mi chiamano in tutto il mondo per farlo, ma qui non si perde tempo a discutere di sostenibilità, le cose si fanno. E quindi forse sono visto come un elemento disturbatore. Qualcuno mi ha riportato, pregandomi di non rivelare la fonte, che spesso mi chiamano “quello scemo di Boero”. Mi piacerebbe discuterne, confrontarmi. Ma non succede mai. Ma non si è accorto, Pino De Luca, che non ci sono state grandi discussioni dentro l’Università? Non si è accorto che prima si chiede a gran voce un Direttore Generale, poi, dopo grandi litigi tra sindacati e amministrazione, vien fuori che il DG agisce in modo discutibile, e lo si liquida, e alla fine lo arrestano pure? E nei discorsi parlava esplicitamente di pacchi di soldi da gestire? Ma ha visto Pino De Luca cosa è successo per undici milioni per il filobus? Pensa che centoventi non significhino niente? Io ho chiesto che la Magistratura ci desse risposte, perché non siamo riusciti a discutere per cercarle da soli, con le nostre risorse. Ho chiesto chiarimenti e spiegazioni quando ho mandato a tutti un appello intitolato “Per favore fermatevi” ma non c’è stato verso. In  quell’appello dicevo proprio che dovremmo discutere di scienza e di epistemologia. Io spero con tutto il cuore che, per una volta, in Italia si possano gestire centoventi milioni di appalti in modo impeccabile. Mi disturba, però, che non ci sia stata l’opportunità di discuterne la destinazione, affrontando e confrontando questioni squisitamente epistemologiche e scientifiche. Quando sento che il Direttore Generale chiede a un sindacalista “ma possibile che tu non abbia un prezzo?” e sento come lo dice, non lo leggo soltanto, l’analisi epistemologica e scientifica mi porta a intravedere un certo modo di concepire il potere, e mi corre un brivido lungo la schiena. Vorrei essere smentito durante una bella discussione, come ho spesso invocato. Ma non c’è stata la possibilità. Ora vedo che tutt’e tre i candidati esprimono forti preoccupazioni per la sostenibilità delle opere edilizie e chiedono maggiori valutazioni di sostenibilità. Informo Pino De Luca che, oggi, non è facilissimo gestire il patrimonio immobiliare della nostra Università, con i bilanci che sono continuamente ridotti. Abbiamo difficoltà a far funzionare bene l’aria condizionata. E qui si arriva a 45 gradi, l’aria condizionata non è un lusso. Se non riusciamo ora, con quello che abbiamo, come gestiremo un patrimonio così fortemente aumentato? Ho più volte sollecitato discussioni su fallimenti tipo quello del Pastis di Brindisi, ma non si discute. In compenso bruciano gli archivi contabili del Pastis, il giorno prima di una verifica amministrativa. Quando leggo queste cose, mi corrono i brividi lungo la schiena, e vorrei discuterne usando l’epistemologia e la scienza, senza arrivare al codice penale. Purtroppo non si può. E ora vado a discutere di epistemologia e scienza, con chi ha interesse a farlo. Non mi diverto certo a parlare di appalti ma, di fronte a certe questioni, non riesco a tacere e a voltarmi dall’altra parte.  Non per rivelare verità ma per innescare discussioni che, purtroppo, non si riescono a fare.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di venerdì 21 giugno 2013]

 

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Come restare in serie A, nel campionato delle Università

Il professor Loris Sturlese ha spiegato chiaramente cosa aspetta la nostra Università, assieme a tutte le altre. E’ stata attuata la valutazione del sistema universitario e, in teoria, le università dovranno avere una certificazione di qualità basata sugli esiti di tale esperimento. Già, è un esperimento. Come ricorda Sturlese ci saranno le teaching universities e le research universities. Che significa? Teaching vuol dire insegnare, e le teaching universities sono quelle dove l’insegnamento prevale sulla ricerca. I nostri corsi sono stati accreditati e, come dice giustamente l’amico Loris, grazie all’impegno di Vincenzo Zara, siamo una buona teaching university. Abbiamo obbedito diligentemente alle prescrizioni ministeriali, riarrangiando i corsi e le facoltà, e ora siamo in regola. Ora bisogna vedere come usciremo dalla valutazione della ricerca. Perché la vera sfida è nell’essere research university. Di nuovo: che significa? La differenza tra un’università vera  (una research university) e una mera prosecuzione del liceo (la teaching university) è proprio nella ricerca. L’organizzazione didattica ha un valore marginale, quel che conta davvero è la ricerca. Il valore di un’università si basa su quanto siano “bravi” i suoi professori. E come si fa a valutarlo? Non è facile. Lasciatelo dire a me, visto che sono presidente di un subGEV. Ah, beh, tutto chiaro no? I GEV sono i Gruppi Esperti Valutazione, e sono divisi in subGEV per delineare aree omogenee nell’ambito delle varie discipline. Nel GEV di Biologia ci sono quattro subGEV e ne presiedo uno. E quindi qualche esperienza ce l’ho, visto che mi hanno chiamato a svolgere un ruolo abbastanza importante nell’ANVUR. Non sapete cos’è l’ANVUR? Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e la Ricerca. E come è stata valutata la ricerca? Semplice, ogni Dipartimento universitario ha dovuto mandare, per ogni suo docente, un certo numero di prodotti che, poi, sono stati valutati dai GEV. I prodotti sono i lavori scientifici. I professori universitari devono contribuire in modo originale al progresso della loro disciplina e, per farlo, devono pubblicare i loro risultati, e lo devono fare su tribune che valorizzino al massimo il loro lavoro. Meglio sono i lavori e meglio è. Questo sistema di valutazione lo proposi, più di dieci anni fa, per dividere una parte dei quattro soldi destinati alla ricerca di base presso il mio Dipartimento. Prima erano divisi a pioggia. Il metodo Boero, lasciatemelo dire, era: vediamo cosa ha prodotto ognuno di noi negli ultimi cinque anni e assegniamo i fondi in base al numero e alla qualità dei prodotti.

E questo lo facemmo, tra molte resistenze, quando di valutazione non parlava ancora nessuno. La mia fu una mossa subdola. Perché il gruppo di Zoologia, la mia disciplina, era il più produttivo del dipartimento, secondo quei parametri, e lo è ancora. Non c’era bisogno di ANVUR, non esisteva ancora. Ma lo avevamo capito. Lo avrà capito tutta l’università? Mah! lo vedremo il 16 luglio, quando a Roma verrà presentato l’esito delle valutazioni dei dipartimenti e, quindi, delle Università. Speriamo bene. Avendo sferzato il mio dipartimento con queste valutazioni annuali, tra noi è iniziata una gara a chi produce di più e meglio. Con tanto in indici H, Impact Factor, citazioni. Non ve li spiego tutti, sono cose spesso puerili, roba da fanatici. Ma se si vuole eccellere a livello internazionale bisogna essere dei fanatici. L’altro giorno mi è scattato l’indice H, ora è a 37. E’ il più alto tra quelli degli afferenti al mio Dipartimento. Ah, cammino a un metro da terra. Basta andare qui e lo vedete:

http://scholar.google.com/citations?hl=en&view_op=search_authors&mauthors=disteba

Siamo ordinati per numero di citazioni, e al primo posto non ci sono io, sono al terzo. Ma se cliccate sui nomi e guardate l’indice H, vedrete che il più alto è il mio. Non vi spiego cos’è l’indice H, fidatevi. Per entrare nella lista degli scienziati italiani top, comunque, bisogna superare il 30 di H. Per il momento, nel mio dipartimento, siamo in due. La mia soddisfazione più grande, però, è che nei primi dieci del dipartimento, quattro siano della mia “scuola”. Guardare quelle graduatorie è come guardare i listini di borsa, e controllare il valore delle proprie azioni. Il metodo Boero funziona. Se si vuole essere una buona teaching university basta ottemperare alle prescrizioni ministeriali. Ma se si vuole essere una research university bisogna avere alle spalle decenni di produzione scientifica di livello alto. E non solo a livello locale. I professori universitari sono anche stati valutati individualmente, in base alle loro produzioni scientifiche. E ora è in corso la valutazione per le idoneità a professore associato e ordinario. Per andare in commissione, i professori ordinari devono avere superato una valutazione. E l’idoneità si basa essenzialmente sulla produzione scientifica. Che poi è quello che predico, inascoltatissimo, da trent’anni. Ora, finalmente, ci stiamo arrivando. Dice bene l’amico Sturlese, nella nostra Università il metodo Boero (quello ora imposto dal Ministero e che io predico da sempre, perché mi conviene) non è stato adoperato, per la valutazione della ricerca. Chissà perché! Ma è in base alla rispondenza dei requisiti ANVUR che saremo un’università di serie A (research) o B (teaching). E’ per questo che chiesi, quando fu presentato il piano edilizio, se le risorse fossero state assegnate a seguito di un’attenta valutazione della ricerca, in modo da verificare chi avesse le carte in regola per ambire alla costruzione di nuovi laboratori, aule, etc.  La mia era una domanda subdola. Lo sapevo che non era stata fatta questa valutazione. Evidentemente a noi va bene la serie B. Per quella il metodo Zara funziona benissimo e, chiunque diventi rettore, deve assolutamente essere adoperato, perché bisogna ottemperare alle direttive ministeriali. Mi piacerebbe sapere dai candidati rettore se hanno intenzione di attuare il metodo Boero per la ricerca. Metodo che, fino ad ora, non è stato adoperato ma che è quello che ci permetterà di restare o di andare, a seconda degli esiti, in serie A.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 4  luglio 2013]

 

Una severa lezione per la nostra Università

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 29 luglio 2013]

Guardiamo avanti, dopo la valutazione del sistema della ricerca italiana, e vediamo quali lezioni sono arrivate all’Università del Salento. Anni fa, prima di questa valutazione, che possiamo chiamare ANVUR, ne fu effettuata un’altra, il CIVR. Si proponevano la stessa cosa, CIVR e ANVUR, ma con modalità differenti: dare a ogni struttura una valutazione dei suoi risultati in campo scientifico, in modo da innescare processi di miglioramento attraverso incentivazione (uguale: più finanziamenti) a chi ottenesse buoni risultati. Il CIVR fu criticato per la modalità con cui fu svolto, ma diede comunque dei risultati. Quello dell’Università del Salento non fu ottimo (uso un eufemismo) e avrebbe dovuto suonare come un campanello d’allarme. Il CIVR chiese a ogni Università di fornire i migliori prodotti della ricerca, in numero limitato. Con ANVUR, invece, ogni docente e ricercatore ha dovuto fornire tre prodotti della propria ricerca, derivanti dal lavoro degli ultimi cinque anni. I  risultati complessivi di ANVUR sono abbastanza simili a quelli del CIVR. E’ vero, ci sono sacche di eccellenza, in cui siamo i primi. Ed è giusto esserne fieri. Ma il voto complessivo, non nascondiamoci, è basso.

La lezione del CIVR non è stata capita, e ANVUR ce lo sta dicendo in modo severo. In questi anni, dopo CIVR, l’Università avrebbe dovuto innescare un processo di incentivazione della buona qualità della ricerca, diffusa in tutto l’Ateneo, e tutto questo non è avvenuto. E’ inutile avere campi in cui si è primi se poi i molti campi in cui si è ultimi cancellano il risultato dei primi. In alcune aree abbiamo investito molto, una a caso: ingegneria, e qualche ottimo risultato c’è stato. Ma altre sono un disastro. Questo indica una mancanza di visione globale dell’”universale” che sta dietro il termine “università”. Mancanza di una politica basata su una strategia di miglioramento delle prestazioni scientifiche di tutta l’università, e non solo di una parte. Inutile costruire magnifiche strutture se poi all’interno non si producono cose magnifiche. Avremmo solo contenitori vuoti, difficili da riempire. Non è il capitale immobiliare ad essere cruciale, è il capitale umano!


Le sacche di eccellenza dimostrano però una cosa: all’Università del Salento è possibile ottenere risultati ottimi, si può fare ricerca di livello europeo, si può offrire didattica che attiri studenti persino dal nord, dove di solito emigrano i nostri giovani per avere una formazione di qualità.

Ora, di fronte al futuro rettore, il prof. Vincenzo Zara, c’è il compito erculeo di alzare in modo omogeneo il livello di produzione scientifica del nostro Ateneo. Lo voglio ripetere: non si tratta di esaltare i “bravi”, si tratta di far diventare “bravi” quelli che ora hanno ricevuto pagelle da “cattivi”, perché alla fine saranno le valutazioni di tutti a contribuire, nel bene e nel male, al punteggio dell’Università. E se i “cattivi” sono più dei “bravi”, i “bravi” avranno il bollino di appartenere a un’Università “cattiva”. Lo so che è infantile dividere le Università in “buone” e “cattive”, ma questo hanno fatto tutti i giornali in questi giorni, e alla fine di questo si parla. E chi deve iscrivere i propri figli all’Università vuole sapere se quell’Università è tra i “bravi” o tra i “cattivi”.

Questa valutazione si basa su un’ipocrisia di fondo, tutta italiana. Sono valutate le strutture, non le persone. E quindi, per la privacy, le valutazioni delle persone non sono disponibili. Ma la valutazione delle strutture si basa sulla produzione delle persone. Come facciamo a migliorare se non sappiamo chi deve migliorare? Non si può. Nascosti nelle acque torbide della privacy, coloro che dovrebbero migliorare potrebbero continuare a tirare avanti, certi di uno stipendio a vita (che può arrivare anche a 5.000 euro netti, mensili), incuranti degli stimoli di CIVR e ANVUR. Sotto sotto, ci sono sorrisini ironici nei confronti delle valutazioni, e persone che dovrebbero fare seri esami di coscienza si sostengono a vicenda, forti del numero, perché si arrivi a cambiare tutto in modo che tutto continui come prima. Cercando giustificazioni alle proprie scarse valutazioni. Il prof. Zara dovrà escogitare un modo virtuoso di convincere tutti a dare di più. Non dico che il nostro sistema sia come una catena, la cui forza si misura dalla forza dell’anello più debole. Ci sono tante catene (le varie aree disciplinari), ma alla fine tutte concorrono ad una valutazione complessiva. Una cosa è certa: dobbiamo fare molta, moltissima attenzione al reclutamento. Le persone in ruolo staranno nel sistema fino alla pensione. Ci sono tantissimi precari di ottimo livello che sono bloccati da una diga di personale di ruolo che ha contribuito alla valutazione che abbiamo ricevuto ben due volte. D’ora in poi, però, non possiamo più permetterci errori nel reclutamento. L’ANVUR lo sa. Ed è per questo che ha introdotto il sistema delle mediane. Non è difficile da capire. Tutti gli afferenti ad una disciplina sono “misurati” in base alla loro produzione scientifica e messi lungo una serie di punteggi, ad un estremo quello con il punteggio più alto, all’altro estremo quello con il punteggio più basso. La mediana divide la serie (dal più alto al più basso) in due parti uguali. La media, invece, somma tutti i punteggi e poi divide per il numero dei soggetti, e il risultato potrebbe dividere la serie in modo molto asimmetrico, magari con pochissimi elementi al di sopra e tantissimi al di sotto. Con la mediana, invece, metà è sopra e metà è sotto. Bene, chi è sotto la mediana non può andare in commissione per decidere le idoneità nella propria disciplina. Non so se è chiaro. Solo chi è sopra la mediana può contribuire al reclutamento. La valutazione degli ordinari, come persone singole, c’è già stata. Ma facciamo finta di niente. E magari daremo altri posti a persone che sono sotto la mediana. Che passino sopra, poi se ne parlerà, direbbe il messaggio di ANVUR. Saprà il prof. Zara attuare una politica di questo tipo? Speriamo! Ma certamente non dipenderà solo da lui che, ne sono certissimo, ce la metterà tutta. Dipenderà da noi. La prima cosa da fare è abbracciare un altro principio, opposto a quello della privacy. Si chiama trasparenza. Chi è pagato con i soldi pubblici ha il dovere di dimostrare di meritarlo, e non si può nascondere dietro la privacy.

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Università come squadre di calcio: finalmente!

Dopo la pubblicazione dei risultati della valutazione delle Università italiane in molti hanno detto: ma questa classifica non è come quella delle squadre di calcio! E’ vero, non è proprio la stessa cosa, e non ci possono essere classifiche assolute. Le classifiche delle Università devono essere analizzate meglio, per vedere quali discipline abbiano ottenuto risultati eccellenti e quali siano invece incorse in risultati deludenti. Poi si fa la media e si ottiene il risultato complessivo. Queste statistiche sono come quella famosa dei nove polli mangiati da una sola persona in un gruppo di dieci, e di un solo pollo diviso tra i restanti nove ma, per la media, vien fuori che han mangiato un pollo a testa. In questo caso non si parla di chi si mangia i polli, ma di chi li produce.

Ma torniamo al calcio. Non sono un grande tifoso del calcio. Penso che sia un’arma di distrazione di massa, continuazione del panem et circenses degli antichi romani. Non a caso abbiamo politici che si comprano squadre di calcio, e mescolano slogan politici con slogan calcistici. Guadagnando consensi se comprano il giocatore alla squadra. Poi governano. Il rapporto tra il risultato calcistico e quello politico non è così immediato. Ma tant’è… con l’emotività del tifoso si può arrivare a un po’ di confusione mentale. Il tifo è come l’amore: cieco. Intendiamoci, mi fa piacere quando vince il Lecce, la città dove vivo, e mi fa piacere anche quando vincono Genoa e Sampdoria, le squadre di Genova, la mia città natale. Credo di essere l’unico simpatizzante per entrambe le squadre sull’intero pianeta. I veri genoani godono quando perde la Samp. E lo stesso fanno i sampdoriani. Preferiscono che perda l’altra squadra, piuttosto che vinca la propria.

Ora facciamo un ragionamento assurdo. Lecce vuol fare la capitale della cultura. Bene, giusto. Quale è la principale fabbrica di cultura del Salento? Lo sapete anche voi: è l’Università. Allora pensiamo alla nostra Università come se fosse una squadra di calcio. Siamo maturati, non ci interessa più guardare ventidue scalmanati in pantaloncini che cercano di buttare una palla in una rete. Anzi, due reti. Roba da immaturi. Ora siamo tifosi della nostra Università. Quest’anno non è andata benissimo la valutazione. La nostra posizione nel campionato delle Università è bassa, troppo bassa. Il vero tifoso intanto si vanta delle discipline in cui siamo primi. Siamo primi in Ingegneria Civile! E ho letto sul giornale che ci sono anche altre discipline in cui siamo primi! Queste cose si dicono al bar, battendosi il pugno sul petto. E gli esperti sanno i nomi di tutti i professori. Abbiamo un corso completamente in inglese, che attira studenti da tutta Italia, dice il ben informato. Vengono da Roma e da Milano. Lo scettico dice che non basta: sì, è vero, ma complessivamente siamo fiacchi, non nascondiamoci dietro qualche risultato fuori scala. Dobbiamo migliorare le Facoltà di Economia e di Psicologia (che poi sarebbe come dire, che so, il centrocampo), magari facendo venire qui qualche nome famoso. Guarda che in un settore di economia siamo i primi in Italia! Dice l’entusiasta. Sì ma complessivamente non ci siamo. Va rinforzata. E allora gli industriali locali, e la Regione, le Province unite, di Brindisi, Lecce e Tranto, investono per richiamare qui i professori più validi, anche dall’estero. Certo che avevamo Cingolani. Si lamenta uno, e ora è a Genova a dirigere l’Istituto Italiano di Tecnologie. Ce l’hanno fregato dice un tifoso. No, siamo noi che l’abbiamo fatto scappare. Dice un altro. Ma, anche se ci sono i disaccordi, su una cosa sono tutti d’accordo: l’Università del Salento è una grande Università. La migliore! Bari? ce la mangiamo in un boccone! dice uno.

Io, che tengo sia col Genoa che con la Sampdoria, veramente penso a qualcosa come l’University of California. Ah, che bello: University of Apulia. Ma poi perché in inglese? Università delle Puglie. O Università della Puglia? Ecco che scatena di nuovo la diatriba in tutti i bar. Lasciamo l’acronimo: UdP, poi vedremo se è Puglia o Puglie. Poi ci sarà UdP-Bari, UdP-Salento, UdP-Foggia. Come ci sono UC-Berkeley, UC-Los Angeles, e così via, per l’University of California. E tutta la regione tifa per il suo sistema universitario. Si offrono stipendi maggiori ai professori che ottengono buoni risultati. Si “vendono” ad altre università quelli più “fiacchi”. Offrendo anche giovani promettenti, che poi magari faremo rientrare.

Lo so, è solo un sogno. Sognare un grande banchiere che dica: mi prendo l’Università e investo, ma voglio vedere grandi risultati. E, se non ci sono, il rettore si vede revocato l’incarico, come l’allenatore di una squadra. E se ne cerca un altro, il migliore. Ma non un banchiere che pensi solo a scienze bancarie. O un industriale che pensi solo a ingegneria.  Inutile avere una sezione di una squadra fortissima e tutto il resto scadente. Non si vince il campionato. Alla fine si retrocede. Ci vuole una “visione” che rispecchi il significato stesso di Università: sapere universale. E su questo deve vigilare la Regione. Ma vedete quanto sembra assurdo tutto questo? Noi, tutta questa foga la mettiamo in un gruppo di undici strapagatissimi ragazzini che danno calci a una palla, e non ci importa un gran che del sistema che deve formare i nostri figli. Pensare che si possa dare un calcio al calcio e investire sull’Università è una bestemmia, giusto? Poter dire: “sì, siamo retrocessi in serie Z come squadra di calcio, ma la nostra Università è la prima d’Italia”, è un’assurdità. Mi devo rassegnare, basta sognare. Il vero problema è: con la nuova stagione, chi ci mettiamo in porta?

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Cari studenti, per scegliere l’Università fatevi le vostre classifiche

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di martedì 20 agosto 2013]

Mi vedo ancora costretto ad intervenire sulle classifiche delle Università, per fare alcune precisazioni rispetto a quanto scritto dall’amico Guglielmo Forges D’Avanzati. Il quadro che fa delle valutazioni dell’Agenzia Nazionale di Valutazione delle Università e della Ricerca prende una parte e la estende al tutto. In moltissime aree disciplinari non è vero che le riviste sono state scelte dopo l’avvio dei processi di valutazione. Se parliamo alle famiglie è bene che sappiano.

La differenza tra un professore universitario e un professore di scuola media superiore è che dal professore universitario ci si attende che dia contributi originali alla disciplina che insegna. Il sapere è in continua evoluzione. Niente è cristallizzato in un sapere immodificabile, a parte, forse, le basi che si insegnano all’inizio del percorso di studi. In ogni disciplina, quindi, il sapere progredisce. Il progresso avviene attraverso la ricerca, che può essere sui classici latini oppure sui mitocondri. I risultati delle ricerche devono essere resi pubblici e questo avviene attraverso tribune (riviste) più o meno prestigiose. Nel campo delle scienze della natura, queste riviste sono catalogate da tempo e tutti sanno quali siano le più prestigiose. Le riviste sono classificate in base a diversi misuratori, tipo il fattore d’impatto o l’emivita delle citazioni. Inoltre, è possibile sapere, per ogni articolo, quante citazioni abbia ricevuto. Il numero di citazioni indica quanto quell’articolo sia stato ritenuto valido (e quindi citato) da chi studia lo stesso tipo di argomento trattato nell’articolo stesso. Non è vero che le citazioni negative possano diventare numerosissime e che, quindi, un articolo con moltissime citazioni potrebbe essere di nessun valore. Questi articoli sono semplicemente ignorati.

La catalogazione delle riviste non è stata fatta nei settori “umanistici” e qui, in alcuni casi, potrebbe essersi verificato quanto denunciato da Forges D’Avanzati. Ma non si può estendere questa situazione a tutto il sistema di valutazione di ANVUR. Non si capisce, alla fine, quale sia l’alternativa proposta. Nessuna valutazione? Mi spiace, non sono d’accordo. Tutt’al più bisognerà estendere a tutti i settori i criteri dei settori che già hanno valutato le riviste.

Quanto alla valutazione del Times of Higher Education, mi piacerebbe sapere come fanno i 5.000 docenti di tutte le università del mondo a esprimere un giudizio sulla didattica dell’Università del Salento. Io, sinceramente, non saprei come esprimere un giudizio sulla didattica dell’Università di Cork. L’ANVUR ha chiesto il giudizio di migliaia di esperti da tutto il mondo, su singoli articoli, con criteri standardizzati. Un esercizio come quello di ANVUR non è mai stato fatto prima, in tutto il mondo. E’ perfettibile, su questo non ci sono dubbi, ma è comunque molto avanzato come modalità di analisi. Ha richiesto il lavoro di migliaia di esperti e moltissime ore di lavoro ad ognuno di essi. Valutare tutte le Università del mondo con 5.000 esperti da tutto il mondo, e fare la classifica ogni anno, mi pare davvero molto ottimistico. Mi sento di fidarmi molto di più di ANVUR.

Ho già avuto modo di discutere e analizzare i dati dell’Università del Salento. Il punteggio di ogni Università è cumulativo e fa la media dei punteggi ottenuti da tutte le discipline. Ci sono discipline in testa alle classifiche e altre in posizioni di coda. Quando si mettono tutte assieme e si fa la media, prevalgono i valori più frequenti. Se ci sono molte discipline con basso punteggio, i pochi punteggi alti vengono livellati verso il basso. Se ci sono molte discipline con alto punteggio, i pochi punteggi bassi vengono anch’essi mascherati. Una famiglia potrebbe scegliere di mandare i propri figli in un’Università con alto punteggio senza sapere che, proprio nelle discipline del corso di laurea prescelto, quell’Università è scadente. E potrebbe avvenire che non si scelga un’Università con basso punteggio senza sapere che, nelle discipline che si vorrebbero studiare, è ai vertici nazionali o addirittura internazionali. Le famiglie non si devono fermare ai punteggi delle Università, devono andare più a fondo. Posso dirlo? Le famiglie non sono in grado di farlo, ma gli studenti sì. Attraverso internet possono cercare docente per docente e vedere con chi potrebbero perseguire la propria formazione. Se si scrivono in Google i nomi dei docenti, listati nei siti dei vari corsi di laurea, si trovano molte, moltissime informazioni. E gli studenti più motivati sono in grado, senza ANVUR e senza Times of Higher Education, di capire dove ci siano maggiori garanzie di ricevere una buona educazione. Sta già avvenendo. Ci sono studenti di Roma, Milano, Napoli, Palermo, Bologna etc. che si iscrivono presso la nostra Università. Provate a chieder loro come mai. Vi diranno: abbiamo cercato sui siti di tutte le università che offrivano il corso di laurea che volevamo intraprendere e abbiamo fatto i confronti tra i programmi e i curricula dei docenti. Dalla nostra valutazione, l’Università del Salento è risultata la migliore e, quindi, eccoci qua. Non sanno cosa sia ANVUR e neppure il Times of Higher Education.

I fondi europei non bastano, ci vogliono i cervelli!

Non è vero che non ci sono soldi. Non è vero. Ce ne sono montagne, e lo sappiamo benissimo. Sono i fondi europei. C’è un piccolo dettaglio. Per averli bisogna fare progetti credibili e poi bisogna spenderli per fare le cose che si sono promesse nei progetti. E c’è un controllo. Fino a quando i fondi europei arrivano alle regioni, si fa il bando casalingo e vincono sempre i soliti, senza che ci sia alcun controllo dei risultati, tutto continua come prima. Ma se bisogna andare in Europa, e concorrere con gli altri, le cose cambiano. E poi non siamo neppure capaci a spendere i fondi europei che si distribuiscono con sistemi “casalinghi”. Non sto parlando di Puglia, sto parlando di Italia. Quando qualche amministratore locale mi dice: non ci sono soldi, io rispondo sempre che non è vero, che è una frottola. Ci sono i fondi europei. Mi guardano e accennano a un sì, ma poi si capisce che non ci sono le strutture adatte per spenderli. Negli uffici dei comuni è difficile che ci siano persone capaci di affrontare un bando europeo, di capire come vincerlo, di riuscire a gestire quei fondi. E la carenza non è solo nei comuni, è in tutte le strutture.

Lo so per esperienza. Coordino un grosso progetto europeo sulla creazione di reti di aree marine protette nel Mediterraneo e nel Mar Nero e sulla possibilità di installare piattaforme eoliche off-shore in entrambi i mari. Coinvolge 22 paesi di tre continenti (Africa, Asia, Europa). Quando ho letto il bando (in inglese, ovviamente) mi son detto: lo posso fare. Conosco persone in tutti gli stati dei due mari, tutti. E ne so di aree marine protette. Ho persino lavorato, con il mio gruppo, a progetti di fattibilità di impianti eolici a mare. Abbozzare l’architettura scientifica (ovviamente in inglese) è stato uno scherzo. Ma quando si è trattato di metter su l’architettura amministrativa di un grande progetto europeo ho dovuto ricorrere all’aiuto di tre amministrativi, messimi a disposizione dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e dal Consorzio Nazionale Interuniversitario per le Scienze del Mare. A questi se n’è aggiunto un quarto. L’architettura scientifica del progetto è stata realizzata da un solo cervello (il mio…), al quale se ne sono aggiunti molti altri nella seconda fase progettuale ma, sin dall’inizio, ce ne sono voluti quattro per fare quella amministrativa. Senza quei quattro, tutta la mia competenza scientifica sarebbe stata completamente inutile. Basta un piccolo vizio formale e il progetto viene scartato. Non ha importanza quanto sia valida la scienza, le regole vanno rispettate. Poi ho scoperto che il mio è l’unico progetto marino del settimo programma quadro ad essere coordinato da un italiano. Con 8.500 chilometri di coste, ne dovremmo avere decine. Ho anche scoperto, me lo hanno detto i funzionari ministeriali, che ogni anno l’Italia dà all’Unione Europea una cifra, mettiamo 100, per la ricerca scientifica e la nostra progettualità, quando va bene, riporta a casa 60. I restanti 40 finanziano le ricerche degli altri paesi. Non so se è chiaro… I fondi europei sono fondi messi nelle casse dell’Europa dai vari paesi dell’Unione. Una parte di quei soldi ce l’ha messa l’Italia. Se non riusciamo a portare a casa neppure quello che ci mettiamo, pur avendo corsie preferenziali per avere sostegni, e se poi, anche se ce li danno, non riusciamo a spenderli, allora significa una sola cosa: siamo un paese di incapaci imbecilli. Avete qualche altra spiegazione? Io non ne trovo. Ho fatto le selezioni per assumere una persona che mi aiutasse direttamente nella gestione del progetto (di amministrazione non capisco assolutamente nulla, sono un totale incapace) e, assieme a due delle persone che mi hanno aiutato a fare il progetto, ho esaminato molti curricula. Non siamo riusciti a trovare una persona con le caratteristiche di esperienza che andassero bene a noi e, alla fine, abbiamo preso una candidata perché ha dichiarato di amare l’alpinismo e la capoeira. Prendiamo questa, mi son detto, almeno ha grinta. E sono molto contento della scelta. Ha imparato presto e ora è una colonna del progetto.

Dobbiamo formare persone capaci di affrontare i bandi europei, persone che sappiano affrontare un audit finanziario, e che conoscano a menadito tutte le regole. E poi dobbiamo metterle al “servizio” dei cosiddetti “creativi”, quelli che dovrebbero scrivere “cosa” fare, mentre gli amministrativi trovano i meccanismi di “come” farlo. Si può fare. Se ci sono riuscito io ci può riuscire chiunque. Però, in Italia, va avanti l’amico dell’assessore, o quello del direttore generale, o del ministro. Le competenze non contano nulla, contano le conoscenze, ma non quelle tecniche, quelle che dovrebbero servire a fare i progetti, contano le conoscenze di quelli che decidono come spartire i fondi. Il risultato di tutto questo è il disastro dell’intero sistema Italia. L’Europa ci può dare soldi, ma a noi serve il cervello, e quello non ce lo possono dare. Il bello è che chi  ci ha spinto in questo barile di melma non ha abbastanza cervello da capire che il gioco è finito, non può durare oltre. E poi, nessuno ammetterà mai di essere un incapace e si toglierà di mezzo, no? I capaci se ne stanno andando all’estero, e gli incapaci sono nei posti chiave. Perché le cose cambino, temo proprio che dovrà prima crollare tutto, nella speranza che gli incapaci siano travolti dalle macerie. E speriamo che poi i capaci ritornino e aiutino questo povero paese a rimettersi in piedi.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di giovedì 29 agosto 2013]

 

Università: basta concorsi!

Leggo su quotidiani nazionali di un concorso per la specializzazione a Cardiologia 1 presso l’Università Sapienza di Roma e dello scandalo annesso: prima del concorso si conoscevano già i nomi dei vincitori. E si chiede che si facciano concorsi più seri. Non sono d’accordo! Lo so che vi sembrerà strano, così ora mi spiego. Quando parlo ai miei colleghi stranieri dei concorsi, non trovo una parola inglese che descriva bene la questione. E loro, comunque, non capiscono. Se a Oxford hanno bisogno di un professore che lavori su una disciplina, mettono un annuncio sulle riviste scientifiche del settore, arrivano le candidature, e il posto viene dato a chi ha le caratteristiche più indicate alla bisogna. La commissione che valuta le domande è interna: a Oxford non ci pensano neppure di chiamare uno di Cambridge per decidere chi si deve assumere a Oxford! Da noi, invece, c’è il concorso e i professori di una ipotetica Oxford italiana decidono chi dovrà andare a Cambridge. E’ come se i giornalisti di Repubblica scegliessero gli editorialisti del Corriere della Sera. Una follia. A me va bene il sistema di Oxford o, se volete, dei giornali. Tu puoi assumere chi vuoi, e ne sei responsabile. Come si misura la responsabilità? Semplicissimo. Valuto la produzione scientifica e l’efficacia didattica delle singole persone e dell’istituzione nel suo complesso. Se lavorano bene, e i risultati ci sono, vuol dire che si sono scelte le persone giuste. Se le valutazioni sono negative, significa che si sono scelte le persone sbagliate. In questo caso l’Università scende di grado, perde prestigio. Se il rettore di Oxford si accorge che la sua università sta perdendo prestigio, chiama i responsabili li rimuove dai loro incarichi. Ma poi, è ovvio che a Oxford (dove non sono scemi) non si sognano neppure di assumere un incapace, perché ci tengono moltissimo alla reputazione della loro Università.

Da noi, con i concorsi, si deresponsabilizza la scelta. Ci sono delle prove, dei verbali, dei criteri, graduatorie, tutto deve essere timbrato e firmato. Si può fare ricorso, bloccare tutto per un timbro mancante. La sostanza non ha alcun valore, quel che conta è la forma. Il concorso deresponsabilizza. E’ la commissione che ha scelto, può dire il Rettore, mica io. Tutto è formalmente ineccepibile. Noi siamo un paese di avvocati. Ci piace la forma e non ci importa della sostanza. E se proprio vogliamo la sostanza, cerchiamo di arrivarci attraverso la forma. Visto lo stato del nostro paese, è ovvio che non è un buon modo di gestire le cose. Bassanini, quello che aveva cercato di semplificare la nostra burocrazia, direbbe che diamo molta importanza agli adempimenti e non ci interessiamo degli obiettivi.  Formalmente è tutto a posto, ma poi non funziona niente. I concorsi sono una vessazione burocratica delle scelte del personale. Ai professori universitari si deve dire: dimmi un obiettivo che vuoi raggiungere. Potrebbero essere progetti, scoperte, pubblicazioni, corsi, invenzioni, ora questo è secondario, è inutile entrare nei dettagli. Bene, scegli tu la squadra che credi sia più attrezzata per quel che vuoi fare. Man mano che realizzi qualcosa, faccelo sapere, perché ti diamo carta bianca ma è ovvio che poi il tuo operato sarà valutato. Se le cose fossero messe in questo modo, credete che gli incapaci sarebbero assunti? Certo, in Italia lo sarebbero. Ma chi li assume, alla prima valutazione sarebbe spazzato via, se si valutassero gli obiettivi. E chi viene dopo si guarderebbe bene dal comportarsi nello stesso modo. In altre parole: se nel reparto di Cardiochirurgia dove i concorsi sono “truccati “si fanno cose mirabolanti, a me non importa gran che di come hanno espletato i concorsi. I risultati sono ottimi e, se mi dovessi ammalare di cuore, andrei in quel reparto. Non mi interessa andare in un reparto in cui tutto è fatto secondo regole stringentissime e poi i pazienti muoiono.

Lo ridico in un altro modo: se dobbiamo andare in una struttura che ci deve curare non diciamo: ah, guarda, lì fanno dei concorsi rigorosissimi. Non ci interessa. Diciamo: se vai lì entri malato e esci sano. Ci interessano gli obiettivi, degli adempimenti non ci importa. Gli italiani che scappano e vanno all’estero vanno in posti dove i concorsi non ci sono. Le strutture vogliono i migliori, e se li prendono senza tante storie. Da noi si fanno i concorsi e poi tutto va a rotoli. E questo non avviene perché i concorsi sono truccati, avviene perché, almeno nella cosa pubblica, a noi piacciono gli adempimenti e non ci interessano i risultati. Il risultato è che siamo il paese delle scartoffie, ma di sostanza ce n’è poca. Concludo dicendo che il sistema universitario italiano è stato valutato e la corsa alla critica della valutazione è cominciata. Il fine è di dimostrare che non si può valutare. In modo che tutto continui come sempre. La valutazione può e deve essere migliorata, ma è l’unica strada che abbiamo per uscire dalla schiavitù del verbale e del timbro. I giornali che hanno denunciato lo scandalo del concorso a Cardiologia 1 alla Sapienza non hanno informato i loro lettori sul livello qualitativo di quel reparto. L’unica cosa che interessa è la forma, mentre la sostanza non conta niente. Ma, magari, se il giornalista si ammala chiede di essere operato proprio in quel reparto, se è uno dei migliori, no? Facendo questo ha fatto una valutazione e ha scelto. Di come il primario scelga i suoi collaboratori non gli interessa. Conta il suo cuore, e il suo benessere. Bene, questo concetto deve essere esteso a tutto l’apparato pubblico. Ovviamente i risultati devono anche essere economici. Il San Raffaele è un ottimo ospedale, da un punto di vista medico. Ma è stato gestito economicamente in modo molto opinabile. Anche l’efficacia gestionale, però, deve essere valutata in base ai risultati, non alle scartoffie. Non ci vuole Einstein per capire queste cose, basta guardare come fanno gli altri. Ora ci rimane un interrogativo: come mai non facciamo le cose in questo modo? Risposta: con gli adempimenti si può barare, con i risultati no. Noi nascondiamo l’inadeguatezza dei risultati con l’inoppugnabilità degli adempimenti. E il paese va a rotoli. Ma tutti i timbri e le firme sono al loro posto.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di lunedì 23 settembre 2013]

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