di Antonio Errico
Il mondo è pieno di mistero, dice il fisico Carlo Rovelli. “È pieno di emozioni di cui non riusciamo a parlare, di fenomeni complessi che non sappiamo spiegare, di galassie lontane in cui non sappiamo che cosa ci sia. Poeti e scienziati esplorano pezzetti del mistero e creano linguaggi per cercare di afferrarne dei pezzi. Poi i mezzi sono quanto di più diverso ovviamente, e soprattutto è diverso il modo di verificare l’efficacia di quanto si costruisce. Un poeta è efficace quando le sue parole ci toccano, ci emozionano, ci parlano. Uno scienziato è efficace quando le sue teorie permettono di prevedere il futuro, di costruire cose che prima non c’erano, eccetera. Ma la spinta è la stessa: andare verso il mistero”.
Probabilmente scienza e poesia cominciano sempre sulla soglia dell’incognita, scagliano il pensiero verso paesaggi sconosciuti, a volte soltanto immaginati, altre volte neppure immaginati, sognano di proiettarsi oltre la siepe, di giungere ad altezze dalle quali neanche la vertigine è più possibile, di perlustrare la profondità senza misura degli abissi, di spingersi fino al confine di impossibili deserti.
Al principio c’è sempre l’attrazione del mistero.
La Luna è sempre quella stessa Luna, in natura. Lontana e presente, ad un tempo solo. Sconosciuta e famigliare. Oggetto dello stesso desiderio, delle stesse interrogazioni, protetta dall’identico mistero.
Poi, una notte di gennaio del Milleseicentodieci, Galileo riesce ad approssimare lo sguardo alla Luna; con il suo cannocchiale riesce a vedere cose che senza quello strumento non avrebbe mai potuto vedere.
Il 30 di gennaio, a Belisario Vinta scrive che il cannocchiale gli ha fatto ritrovare una moltitudine di stelle fisse e, “quello che eccede tutte le meraviglie”, quattro nuovi pianeti, e gli ha permesso di osservare i loro movimenti propri e particolari “differenti fra di loro et da tutti li altri movimenti dell’altre stelle”.
Non importa se Leopardi abbia mai osservato la luna con un cannocchiale, anche se non è improbabile per uno che a quindici anni scrive una storia dell’astronomia. Ma che l’abbia fatto oppure no, è certo che luna e cielo gli furono sempre dolcemente e terribilmente vicini. Ne ha trascritto la parola e il silenzio. Ha parlato con essi e li ha ascoltati.
In una delle sue meravigliose Operette morali, immaginò un dialogo tra la Terra e la Luna; ad un certo punto la Terra, rivolgendosi alla Luna, dice che “un fisico di quaggiù, con certi cannocchiali, che sono instrumenti fatti per vedere molto lontano, ha scoperto costì una bella fortezza, co’ suoi bastioni diritti; che è segno che le tue genti usano, se non altro, gli assedi e le battaglie murali”.
Allora la Luna le risponde: “Ma se cotesti cannocchiali non veggono meglio in altre cose, io crederò che abbiano la buona vista de’ tuoi fanciulli; che scuoprono in me gli occhi, la bocca, il naso, che io non so dove me gli abbia”.
Ecco, dunque, che la Luna rimane lì, sospesa, nello spazio e nel tempo, nell’immaginazione e nel sogno, orizzonte della stessa tensione di conoscenza, coinvolta nella stessa ansietà di rivelazione.
Ma la scienza con i propri metodi sistematici e i propri strumenti calibrati segue un percorso di ricerca, e la poesia – l’arte- ne segue un altro, con un metodo che si fonda su un costante rinnovamento dello stupore e con strumenti che rispondono quasi esclusivamente ai principi determinati dall’emozione filtrata dalla ragione.
Probabilmente la differenza è tutta qui: nei metodi e negli strumenti; non nelle finalità, né sugli esiti, nemmeno nelle verità, se le verità in qualche modo esistono. La differenza è nelle modalità con cui si osserva la Luna, nei significati che s’intende attribuire alla conoscenza.
Però tra scienza e poesia non si dovrebbero spalancare fratture perché esiste quantomeno una condizione in comune, che è rappresentata dalla consapevolezza della provvisorietà di qualsiasi scoperta, di qualsiasi elemento di conoscenza raggiunto.
La scienza sa perfettamente che c’è sempre qualcosa al di là di quello che conosce, che c’è sempre un’altra soglia dalla quale mettersi a scrutare l’infinito. La poesia sa che c’è sempre una nuova emozione oppure una variante della stessa emozione con cui doversi confrontare e fare i conti.
Così l’una e l’altra si ritrovano, più o meno consapevolmente, in un accordo di senso, nella condizione di un sentimento che sospinge verso un costante superamento dell’acquisito.
L’una e l’altra non vogliono fare altro che illuminare appena appena il buio, proprio perché è il buio che le attrae; non vogliono altro che disvelare l’ignoto, perché è l’ignoto che le seduce.
Per scienza e poesia quello che già si conosce ha un valore assolutamente inferiore a quello che non si conosce.
Se tutto fosse conosciuto, scienza e poesia non esisterebbero, oppure il loro significato non avrebbe l’importanza assoluta che ha sempre avuto.
Non ha alcun senso, dunque, perseverare, assurdamente, nelle contrapposizioni e, ancor peggio, nelle classificazioni delle priorità. Ha senso, invece, determinare o rinforzare la relazione, l’interdipendenza, la reciprocità, l’integrazione e l’interazione del sapere scientifico con quello umanistico.
Quando accade è come un miracolo. Quando accade è un incontro di universi. Per esempio accade nel “De rerum natura” di Lucrezio. Per esempio accade quando dice che nessuna sostanza ritorna nel nulla, ma tutte dissolte ritornano alle particelle elementari della materia. Accade quando dice che ogni cosa visibile non perisce del tutto perché la natura ricrea una cosa dall’altra, e non lascia che alcuna ne nasca se non dalla morte di un’altra.
Come si fa a dire se durante il suo viaggio verso la luna, in qualche momento di riposo, Neil Armstrong non abbia riletto qualche pagina del “Sidereus Nuncius”,
Come si fa a dire se in qualche angolo dell’Apollo 11, lui e Buzz Aldrin e Michael Collins non avessero una traduzione inglese del “Canto notturno di un pastore errante nell’Asia”.
Mentre andavano verso il mistero. Come fa ciascuno di noi, ogni minuto.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 13 Gennaio 2019]