di Paolo Maria Mariano
Il cervello umano è una macchina lenta. Non reagisce bene all’accumulo frenetico e compulsivo d’informazioni. Ha necessità che le nozioni macerino e decantino, che creino un humus, il substrato della comprensione e dell’invenzione. Per questo ha bisogno di tempo.
Oltre a essere un esercizio fisico, quello che è per tutti indispensabile, per taluni un desiderio ossessivo, camminare è un modo di appropriarsi di quel tempo che ogni riflessione richiede (o almeno ci pare che così faccia) per non essere destinata all’insieme degli orpelli fugaci. Certo, le informazioni acquisite possono decantare mentre siamo in poltrona o tra le coltri del letto disponibile più vicino; tuttavia, il camminare unisce alla riflessione la dinamica del corpo fisico, sviluppata nei limiti del corpo stesso, senza l’aiuto decisivo di strumenti esterni, scarpe e calze a parte, senza frenesia, e in questo la riflessione stessa può essere stimolata.
Camminare è un modo d’apprendere anche lasciando che i ricordi affiorino, portati dagli stimoli della luce, del terreno, del vento, forse uno di quei quattro che Nick Hunt si è sforzato d’incontrare camminando per l’Europa, per poi scrivere il suo Dove soffiano i venti selvaggi. Un viaggio all’inseguimento di Helm, Bora, Föhn e Mistral (Neri Pozza, 2018), ma forse anche altri refoli d’aria che, aspirati (perché il vento non soffia ma è aspirato), ci attendono furtivi dietro l’angolo o c’investono violenti e indifferenti o quasi ci accarezzano. Per cercare Helm, Hunt ha camminato da Penrith a Kirkland, passando per la cresta dei monti Pennini settentrionali, la “spina dorsale” d’Inghilterra. Per la Bora i suoi passi l’hanno portato da Trieste al monte Mosor, oltre Split, lungo un percorso che costeggia le Alpi Dinariche sul fronte est del mare Adriatico, un cammino verso il meridione balcanico compiuto per un pezzo in nave. La ricerca di Föhn, il vento caldo del sud, aspirato sulle Alpi, l’ha spinto attraverso la Svizzera, da Zurigo a Ginevra, passando per Chur. Infine Mistral, il vento meridionale francese: Hunt l’ha inseguito da Valence alla pianura desolata della Crau, l’unica steppa dell’Europa occidentale. Il racconto che ne è emerso è costellato di paesaggi, di ritratti di persone incontrate, di narrazioni che la tradizione tramanda, di eventi storici. Lo stile di Hunt non indulge all’enfasi: ha il ritmo dei passi e una solida concretezza che ha accompagnato il suo progetto romantico.
Camminare può voler dire anche guarire, come si promise di fare Sylvain Tesson, dopo una caduta da otto metri, da un tetto dove a suo dire faceva “delle pagliacciate”, una caduta in cui si ruppero costole, vertebre e cranio, e che ha lasciato una smorfia sul suo viso. Dal 24 agosto all’8 novembre, Tesson attraversa a piedi la Francia, da Mercantour, al confine italiano, al Nez Bayard sulla costa della Normandia. Di tanto in tanto qualche amico si accoda al cammino per qualche giorno, per dividere i pensieri che la strada suggerisce. Durante il viaggio Tesson prende appunti che diventano Sentieri neri (Sellerio, 2018), e sono neri anche perché ascosi, un po’ o del tutto dimenticati. Sono sentieri che, un tempo, caratterizzavano una Francia che Tesson vorrebbe rivivere perché di essa ha una visione quasi mitica. Il camminare che in Hunt è occasione di descrizione, di ascolto dei racconti, di richiamo della storia, in Tesson diventa motivo di riflessione in parte personale (sente il suo corpo guarire per il suo reggere sempre più la fatica), in parte e soprattutto sociologica: Tesson è critico con lo sfruttamento indiscriminato delle risorse, ancor di più con lo stesso concetto di globalizzazione. Cerca la Francia rurale e la scopre (per meglio dire, s’accorge che essa ancora vive) negli interstizi; e il fatto che ancora questi interstizi esistano non deve indurre al lamento, semmai allo sforzo perché non scompaiano.
Camminare può voler dire anche pensare a cosa significa l’atto del camminare, come fa Erling Kagge, primo uomo a raggiungere a piedi e senza supporto il Polo Nord, il Polo Sud e la cima dell’Everest, nel suo Camminare. Un gesto sovversivo (Einaudi, 2018). L’atto stesso di porre i piedi l’uno dinanzi all’altro diventa filosofico quando la strada è lunga, la pazienza esercitata, la riflessione vicina. “Finché non ho avuto una famiglia, non mi sono mai chiesto perché fosse così importante camminare. Invece le mie tre figlie volevano una spiegazione: perché bisogna muoversi su due gambe se si fa prima in macchina? Ho impiegato un anno e mezzo a scrivere questo libro e metà della mia vita a camminare per poter rispondere a questa domanda”.
L’uomo in cammino della memoria culturale che unisce l’Europa più che dividerla può essere Robert Walser che si allontanava nel suo vestito distinto e con il cappello un po’ inclinato in una delle sue passeggiate che erano letteratura, oppure il diciannovenne Eulero che si avviava da Basilea verso San Pietroburgo, un po’ in carrozza e un po’ in nave, ma con porzioni di viaggio a piedi, per iniziare una folgorante carriera scientifica, o Sir Patrick Leigh Fermor che partì da Hoek van Holland l’8 dicembre 1933 e si avviò a piedi verso Istambul, con la compagnia dell’Oxford Book of English Verse e delle Odi di Orazio, o mio zio Giuseppe che andava in campagna a lavorare a piedi e tutti quelli come lui, che la Storia non ricorda sui testi, ma che hanno messo la strada sotto i loro piedi senza vanagloria, senza finzione, senza il vano mostrarsi perché erano e sono inclini alla serenità, alla misura, alla fatica, e per questo a loro è dovuto, a loro più che ad altri, rispetto.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” d 15 Gennaio 2019]