La poesia: pensare contro l’oblio

di Antonio Prete

“Ogni libro si scrive nella trasparenza d’un addio”, diceva.

Come replicare all’addio di Jabès  -addio alla scrittura, alla vita, ma non alla vita che è nella scrittura-, come replicare a quell’ “adieu” che chiude Le livre de l’hospitalité?

Forse l’eco di quell’ “adieu” è già raccolto dal suono di un’altra parola: “encore”. Ancora, qui, sulla soglia delle parole che i libri di Jabès hanno disposto nel bianco della pagina, dove quelle parole mostrano il vuoto che le sostiene, il vento del  nulla che le scuote, ma anche l’assidua scherma con un’impossibile verità che le  circonda e insidia e seduce.

A quell’ “adieu” si può replicare, dieci anni dopo, raccogliendo le parole di un dialogo sotterraneo e silenzioso che non è mai stato interrotto. Poiché, come Jabès amava sostenere, il dialogo ha inizio dopo il dialogo: si dischiude, in quello che lui chiamava dopodialogo, una conversazione che è risonanza interiore; si accende, nella notte della mancanza, una costellazione di parole nella cui luce quel che è assente risplende di una nuova, trasparente, presenza. Anche nella privazione di un volto -di un volto amico- la  parola del libro è esperienza di una condivisione. Questo dire che nasce dal silenzio, questa prossimità che prende figura nella lontananza  -nell’addio che annuncia e dispiega l’irrimediabile lontananza- hanno il timbro di una necessità che la parola della presenza non ha. Era proprio l’energia della presenza che distingueva Jabès da Char, anche se  una forte amicizia e una contiguità di pensieri e, talvolta, di forme poetiche, avvicinava i due.

L’ “adieu” di Jabès  ci invita a disporci, in stato di ascolto, al margine dei suoi fogli, in modo da essere vicini il più possibile al respiro delle sillabe, e cogliere le domande che trascorrono di libro in libro, di frammento in frammento, di silenzio in silenzio. Si tratta di domande che hanno, allo stesso tempo, la tensione di un pensiero estremo, su cui vortica il vento del confine, e   la musica  di una parola leggera.   A questa tensione  la poesia affida la sua lotta  col senso fuggitivo, con le  ombre, le   parvenze e rifrazioni e perdite del senso.  Poiché  è sempre   un  “pensiero poetante” che, nelle pagine di Jabès, accoglie e interroga il tragico dell’epoca, lasciandosi da esso interrogare e persino assediare: “On ne raconte pas Auschwitz. Chaque mot nous le raconte” . La parola che nomina il dolore attinge l’indignazione, il grido, ma questo accade perché quella parola espone la sua appartenenza al linguaggio della ferita: è, essa stessa, ferita, ferita in ogni sua sillaba, nella voce che sottende il vocabolo, nel silenzio che sostiene il dire.

Una costellazione di parole –jamais, néant, blanc, vide, désert– dice nella scrittura di Jabès la tragedia originaria della privazione: ma questa orfanità del senso non rende sterile e inutile  il linguaggio, anzi lo sospinge  nel fuoco di un domandare incessante. E’ da questa assenza che muove la parola : qui è la radice dell’interrogazione, della ricerca. La lingua, abitata da questa assenza, tenta egualmente la via -erratica, nomade, priva di protezione- della conoscenza. “Le parole, scrive Jabès, non hanno altro legame che questa assenza”. Quest’assenza sul foglio è detta dal bianco che separa le parole. Il domandare di Jabès incalza, nella sua semplicità: “Non occorre forse un bianco tra i vocaboli per renderli leggibili, una frazione di silenzio tra le parole,  per renderle udibili?”. Stare sull’argine di questo vuoto è la condizione del poeta, ma anche quella dell’ebreo: “…la parola Dio è forse la parola più vuota del vocabolario. Talmente vuota che l’universo dell’uomo e l’infinito della sua anima vi possono trovare, in ogni istante, posto”.

Come rispondere, dicevo, all’ “adieu” di  Jabès? Per quanto mi riguarda  m’è difficile replicare con un’ordinata esegesi dei suoi libri, poiché la scrittura di Jabès, più di altre scritture, continua a frangersi, come un’onda sulla battigia, lungo la linea dei miei pensieri, quando essi cercano di farsi scrittura. Ma, tornando sui suoi libri, dominante mi pare il trascorrere, di forma in forma, di una  meditazione sulla parola, che è, allo stesso tempo, meditazione sulla poesia. Cioè su quella lingua che s’avventura nei confini del pensiero, e segue, del pensiero, il curvarsi nella solitudine dell’impossibile  pienezza, dell’impossibile conoscenza.

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La dolente cesura del 1957, data dell’esilio dal Cairo, appare come il discrimine tra il dominio dell’immagine e il dominio dell’interrogazione. Ma è, quella data, anche il discrimine tra una poesia che trascorre   lungo le differenti forme del linguaggio, consegnandosi alla loro visibilità, alla loro riconoscibilità, e una poesia che interroga le tracce di un senso ferito, e dissipa via via le forme della tradizione e delle stesse avanguardie, per dischiudersi come ascolto di un’altra impronunciata parola, la parola di un Dio senza volto e senza nome, di un Dio la cui voce è persa nel vento del deserto, trasformata, da sempre, in silenzio, nelle infinite rifrazioni del silenzio. E’, da quel momento, il deserto, questa figura dell’illimite e del passaggio, l’immenso palco di un ascolto. Questo ascolto, nel deserto  -che è anche deserto del senso- si dilata sino ad avvertire il pulsare del granello di sabbia. Il deserto non è più soltanto memoria di un’esperienza. E’ cifra, potremmo dire, di una poetica. Anzi, di una poiesis:  affrontamento dell’impensato, dialogo con l’oltrelimite, arrischiamento in quella vertigine dove la parola confina con il nulla che la insidia. “Parola di sabbia”, definirà Jabès la propria scrittura.

Anche nell’avventura del Libro, del suo dispiegarsi in figure, stazioni, passaggi  -l’interrogazione, il margine, la rassomiglianza, la sovversione, il dialogo, il percorso, la condivisione, lo straniero, l’ospitalità-  Jabès persegue la sfida propria della poesia: tentare l’estremo del linguaggio. In quell’estremo la povertà della parola, e la solitudine dell’uomo, si mostrano, semplicemente, nella loro disarmata orfanità, ma in questo mostrarsi è forse possibile avvertire il cerchio che lega tutti i viventi alla stessa necessità, allo stesso ritmo. Allo stesso silenzio.  Farsi prossimi a questo ascolto è, del resto, l’ansia stessa, e l’azzardo, della poesia.  Luzi, per nominare un poeta che verso la “musica del pensiero” di Jabès fu solidale, muove verso lo stesso fondo (lo stesso invisibile fondamento).

Tra ebraismo e scrittura, tra ebraismo e poesia, c’è per Jabès un rispondersi di condizioni. L’ebraismo di Jabès –ateologico, apofatico, fantasticante, privo di religione e di stato-  è in rapporto profondo con la sua poesia, la quale è sovversione del senso nell’ordine della lingua, è esperienza che congiunge il ritmo col vuoto del senso, il fiore e il deserto, appunto, leopardianamente, ma anche secondo quel blühend che accompagna la   Niemandsrose di Celan, la rosadinulla, la rosadinessuno di un salmodiare (Psalm) privo di coro, privo anche di quel cielo che sovrasta la leopardiana ginestra, accoglendone il profumo. La poesia, anche per Jabès, è cognizione del dolore, musica che mostra il tragico, senza sospenderlo o appannarlo.

Poiché l’orizzonte delle domande di Jabès è la poesia -il dire e il silenzio  della poesia-  lo scrittore raccoglie dell’ebraismo più che la storia profetica, quella narrativa, fantastica, funambolica, allegorica: sapienza di un vivere quotidiano che si unisce alla passione per la lettera del testo, per la sua esegesi non dottrinaria, ma sensitiva e narrativa. Kafka e Buber  e per certi versi Benjamin sono passaggi importanti per il definirsi della scrittura di Jabès. Come lo -per il dispiegarsi della scrittura in una scansione che include il silenzio, il balzo, la cancellazione, l’attesa, la partitura musicale- una certa lezione mallarmeana ripensata, e dissipata, da poeti come Char,  Michaux, Leiris. La stessa ermeneutica negativa  di un certo ebraismo  -fondata sulla ricerca di un Nome le cui lettere sono disseminate nel mondo, divenuto, come dice Scholem “musica del puro pensiero”- è da Jabès sottratta al suo simbolismo, alla sua via mistica, per essere ricondotta nello spazio immaginale della poesia, in quella terra dove il vocabolo  -questa soglia della lingua- muove verso il dire, dove la sabbia guarda da una distanza infinita il cielo dei significati.

Distanza dalla pienezza del Significato, nomadismo della lettera e del senso, apertura costante dell’interrogazione, che trascrive di libro in libro l’esperienza del margine: questo spaesamento, questa non appartenenza è la condizione propria del poeta.  Lo straniero è già, per Jabès, prima che prenda forma il Libro dello straniero, una cifra della sua poesia: una sinopia, che poi prenderà figura, e luce. L’ Etranger, il primo dei baudelairiani poèmes-en-prose, dichiara la solidarietà del poeta con le nuvole, cioè con la metamorfosi assidua, con la dispersione e ricomposizione e cancellazione delle forme. La poesia è patria di nuvole, Wolkenheimat, diceva  Jean Paul. E per Jabès la poesia “è più prossima al cielo”. Nel dischiudersi della modernità, proprio Baudelaire aveva indicato il permanere di una spina irrimediabile: l’altrove nella prigionia dell’esilio, l’azzurro nella superficie del sempreguale, il profumo nel male. Per questo il poeta, nella modernità, è egli stesso figura dello straniero.  Questa icona dello straniero Jabès la porta nel tragico della nostra epoca: la prossimità della poesia al cielo, la sua solidarietà con le nuvole, con la loro metamorfosi, con la loro inconsistenza e inappartenenza, non impediscono di cogliere nella parola le rifrazioni del dolore ch’ è nel mondo. Forma e sofferenza, insieme, parola e ferita: questa congiunzione abolisce  ogni residuo mallarmeismo.  L’incontro con Celan è qui, in questa disperata ricerca di unità della forma con la coscienza del tragico.  Si tratta di dire, con Celan, quel che è veramente accaduto, custodire in sé la Enge, l’angustia, nominare la tragedia, sapendo che la lingua della poesia non la può anestetizzare. Ma quella che per Celan era la lingua materna -la “dolorosa rima”   (“schmerzlichen Reim”?)-   per Jabès era la lingua dell’educazione, della scelta, ma  ricca della stessa, per così dire, affettività materna, dello stessa dolorosità: e tuttavia, lingua che resiste, nonostante tutto. Lingua che resiste nel ricordo: “La voce di Paul Celan che legge, nella mia casa, per me, alcuni dei suoi testi poetici, non s’è mai spenta. La sento, anche in questo momento, mentre con la penna in mano ascolto le mie parole che muovono verso le sue. Ascolto le sue parole nelle mie, come si ascolta battere il cuore di un uomo da cui non ci si è distaccati, là, nell’ombra dove ormai egli si trattiene” (trad. di Chiara Agostini, “il gallo silvestre”, 2, 1990).  La lingua della poesia, per Celan come per Jabès, resiste all’oblio di ciò che veramente è accaduto. “Si pensa contro l’oblio”, dice Jabès nello scritto intitolato appunto Sur la poésie… pubblicato per le cure di Viviane Jabès Crasson in Batir au quotidien (tradotto, anche questo, sul “gallo silvestre”, n. 11,  da Chiara Agostini).

Pensare contro l’oblio, questo il compito della poesia. Singolare corrispondenza con l’esegesi che  trascorre nel recente volumetto di Yves Bonnefoy La tentation de l’oubli, dove il poeta raccoglie due sue letture baudelairiane. 

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Questa lotta contro l’oblio, messa in campo nel cuore delle parole, delle parole ferite, non attenua l’essere straniero del poeta, ma gli dà, attraverso il linguaggio, la possibilità d’una protezione, che è allo stesso tempo disvelamento e custodia di ciò che è avvenuto.  Persiste il nomadismo come condizione interiore della ricerca.

Come la letteratura del deserto  smette, con Jabès, ogni residua divagazione esotica, così il nomadismo cessa d’essere un’avventura dei sensi  -lo era per il primo Gide- e diviene uno stato di incessante interrogazione, e anche di stupore: una dialettica tra distacco e accoglimento.  Così lo straniero non è solo la figura dello sradicamento, dell’esilio, di colui che ha detto addio, ma è una condizione, la condizione propria dell’ebreo, dello scrittore, del nomade, del poeta. Costoro apprendono a riconoscere come proprio quel che non ha certezza, o visibilità, consistenza o potere, direzione o stabile forma. Ma Jabès va più oltre nella sua animata raffigurazione dello straniero. L’essere straniero unisce lo spaesamento del sé con il riconoscimento dell’altro: per questo il suo ritmo è la fraternità.  Una scuola di fraternità è l’essere straniero. Si tratta di riconoscere lo straniero che ciascuno è a se stesso, lo straniero che è in ciascuno di noi. “La distanza che ci separa da uno straniero è la distanza che ci separa da noi stessi”, leggiamo nel libro dedicato allo straniero. E’ un libro di piccolo formato che lo straniero porta sotto il braccio, mentre, visto di spalle, s’allontana.  Di piccolo formato, ci ricorda a un certo punto Jabès,  è un libro di sapienza, un libro di segreti. Anche il libro della sovversione è un “petit livre” (Le petit livre de la subversion hors de soupçon). Lo straniero porta con sé questo segreto libro. Dove il senso   è come chiuso nella sua indecifrata lontananza. L’addio che ha portato lo straniero  lontano è un soffio che non si affida alle ali della nostalgia. Non c’è nostos per lo straniero, se la lontananza è il suo stesso respiro, la tessitura della sua lingua. Il libro di piccolo formato ha la dimensione delle mani. È tra le mani, parte del corpo, libro incorporato. L’essere straniero è ritmo della conoscenza di sé.  Riconoscere lo straniero che  è in sé vuol dire allargare questo ritmo fino a comprendere l’altro come straniero a sè, e dunque come simile a me. In questa prossimità la meraviglia che accompagna i passi dello straniero può diventare soglia dell’accoglimento. Il disagio del suo volto può posarsi sull’ansia della mia attenzione.  La nascita del tu, dunque,  muove da quell’orizzonte comune dove ciascuno si riconosce straniero a sé. Qui, in questa comune appartenenza, in questa “communauté inavouable”, per usare il titolo di Blanchot, altro assiduo interlocutore di Jabès, si annuncia l’ospitalità come spazio e tempo del dialogo, come ritmo della conoscenza. E’ forse il libro dell’ospitalità, non ancora scritto,  il libro di piccolo formato che ha in mano lo straniero? Le livre de l’hospitalité , il libro dell’ultima figura  frequentata da Jabès, succede, naturalmente, a Un Etranger,  avec, sous le bras, un livre de petit format. La pagina  bianca che ospita la parola è come  il cielo che accoglie il volo degli uccelli. La scrittura e il volo. Due esercizi  che corteggiano lo sconfinamento, la vertigine, l’ascesa e la caduta. Dopo che  le forme diverse dell’ospitalià, di questa figura mediterranea e nomade,  hanno abitato il libro, la morte chiede ospitalità al libro. Un colloquio con la morte chiude il libro. ” ‘Ogni libro si scrive nella trasparenza dell’addio’, diceva”. L’addio chiude il libro di Jabès.  Il passaggio del Libro dell’ospitalità ancora dattiloscritto dalle mani di Jabès alle mie mani, perché dalla sua lingua lo portassi, lo ospitassi, nella mia lingua, fu un addio. L’addio che, sulla soglia della stanza, nell’appartamento di rue l’Epée des bois, separò lo scrittore dal suo traduttore e amico. “Ogni libro si scrive  nella trasparenza di un addio”, diceva Jabès. Ogni libro, potrei aggiungere,  si traduce nella trasparenza di un addio. Era una mattina di fine novembre, nell’aria una luce bianca  combatteva il cielo chiuso, dissipandone il grigio. Attraversando il Jardin des plantes, cominciai a leggere il libro dattiloscritto di Jabès, l’ultimo libro. Allontanandomi nel viale, tra le piante, il libro tra le mani: come lo straniero. Come lo straniero che non sa ancora quanto irrevocabile sia l’addio appena consumato. Eppure, quell’ addio è, ancora, costellato di parole: le parole che dai libri  di Jabès vengono oggi verso di noi, raccontandoci di come la poesia possa pensare, davvero, contro l’oblio.

[in Edmond Jabès, Poesie per i giorni di pioggia e di sole, Manni, San Cesario di Lecce 2002]

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