di Maurizio Nocera
S’intitola Respiri di pietra. Monumenti megalitici del Salento (Lupo Editore, Copertino 2014) il libro fotografico che il ligure, ma milanese d’adozione, Leonello Bertolucci ha voluto donare alla Terra fra i due mari, l’antica Messapia. Un libro dalla copertina nera, dal cui centro sorge come un astro lucente la silhouette del maestoso trilite denominato Chianca di S. Stefano di Carpignano Salentino. La luce che dalla pietra si fa cogliere dal fotografo è strana e coinvolgente: infatti, il gioco di luci e ombre l’antropizza a tal punto da farcela percepire come energia vitale.
Dal suo blog sappiamo che egli è «nato in Liguria e approdato a Milano negli anni Ottanta, ha intrapreso la strada del reportage fotografico lavorando per alcune testate e agenzie italiane; in seguito hanno avuto inizio collaborazioni internazionali tra cui quella con l’agenzia “Sygma” di Parigi. Sue foto sono apparse su testate quali “Time”, “Newsweek”, “Stern”, “Paris-Match”, “Epoca”. Ha fondato e diretto per alcuni anni un’agenzia fotogiornalistica, mentre oggi continua a fotografare e condurre tutta una serie di attività nel campo della cultura fotografica: vengono pubblicati suoi libri d’immagini e allestite sue mostre, organizza eventi ed è docente in corsi e scuole di fotografia. È consulente in campo editoriale e multimediale, ed è chiamato anche a ricoprire il ruolo di photo editor in redazioni di giornali; ha scritto il primo libro in Italia sull’argomento, col titolo Professione Photo Editor. Della sua attività si sono occupate riviste di fotografia come “Fotopratica”, “Il Fotografo”, “Nuova Fotografia”, “Photo”, “Photographia”, “Techno Photo”, “Gente di Fotografia”, “Fotocomputer”. Gli piace giocare, e nelle edizioni del “Pulcinoelefante” [editore d’arte, che stampa in proprio rari esemplari di bibliofilia] le sue fotografie giocano con testi, tra gli altri, di Alda Merini, Tonino Guerra, Enzo Sellerio».
Di lui hanno scritto:
Roberto Mutti: «Leonello Bertolucci sa recuperare la puntigliosità e la curiosità per ogni aspetto della vita. Ma anche, soprattutto, la capacità di ascoltare e trasformare in immagini i sussurri, da contrapporre alle grida di cui in troppi sembrano non poter più fare a meno».
Giuseppe Turroni: «Esiste in Bertolucci, davvero incantevole e incantato, il piacere del fare, del raccontare, del vedere, sia pure strizzando l’occhio, con ironia, ripetiamo, e senza malizia, alle infinite contraddizioni e ambigue variazioni e valenze del mondo reale. Egli ci restituisce materie precise, le scansioni di un racconto terso e delicato, e il suo occhio fotografico è, per ripetere un verso di Sylvia Plath, “esatto e d’argento”».
Gino Patroni: «La prima foto della mia vita mi fu scattata in un cortile di via Cernaia, tra i caseggiati delle Elementari e la palestra della “Pro Italia”. Ovviamente una foto scolastica, ricordo di fine d’anno. Noi, ragazzini, in fitto gruppo; su un lato il maestro alto, nei nostri confronti, come un campanile accanto alla chiesa. – Fermi! – gridò il fotografo, con voce da sergente, prima del lampo. Da allora ho conosciuto molti fotografi, quasi tutti da bottega, persino uno a Kopenik (Berlino) nel settembre 1944. Insomma una foto da gefang(prigioniero) per gli archivi burocratici del lager. Risultai magrissimo. L’ultimo fotografo che ho conosciuto, in ordine recentissimo di tempo, è uno spezzino, Leonello Bertolucci…».
Bertolucci, che è fotografo professionista, ha un’idea ben precisa del suo operare. Il suo archivio fotografico è colmo di centinaia di migliaia di fotografie, tanto da fargli scrivere:
«Ho perseguito un’idea fotografica, ci ho creduto e lavorato. Ma ora, di fronte alla quantità di fotografie e di scelte possibili, sono in crisi. Voglio strutturare un percorso coerente e sensato. Molte decisioni s’impongono, e la mia parte emotiva litiga con quella razionale. Cerco un occhio “altro” che mi aiuti a muovermi sul confine…».
Così pure egli conosce bene l’arte della fotografia, tanto da scrivere:
«Il vero problema non è fare una foto sbagliata, ma fare un uso sbagliato della foto.// Il brivido corre non quando tu guardi una fotografia, ma quando lei guarda te.// Ogni fotografia ha cinque lati: i primi quattro delineano l’inquadratura, il quinto è il suo lato oscuro.// Fotografare dovrebbe provocare uno strabismo buono: guardarsi dentro mentre si guarda fuori.// L’editing di una narrazione fotografica è un viaggio dentro il suo senso: come ogni viaggio, presuppone un punto di partenza e uno d’arrivo» (tratto dal blog Quando un Photo Editor).
Oggi Leonello Bertolucci ha fotografato anche il Salento, una sua parte profonda e radicale, che si perde nella notte dei tempi: i megaliti, i maestosi massi che il Salento custodisce così come una madre custodisce i suoi figli.
A introdurre il libro Respiri di Pietra, con una sintesi straordinaria e una cosmogonia stupefacente è Edoardo Winspeare, il regista nostro conterraneo che, con la sua opera cinematografica, ha fatto conoscere il Salento in tutto il mondo. È stupenda la visione che egli ha della terra nella quale viviamo. Edoardo è nato a Depressa (Tricase) in uno dei castelli ancora oggi attivo e accogliente, Bertolucci, invece, da qualche tempo ha acquistato una casa a Corigliano d’Otranto, dove ritorna da Milano quando sente il bisogno di rifugiarsi nell’abbraccio magnogreco dell’antica terra messapica.
Nell’introduzione al libro, Winspeare scrive:
«Nel Salento il mare è azzurro-verde e ha una trasparenza cristallina, gli alberi di ulivo secolari incutono rispetto come ogni monumento della natura, la terra è rossa come il sangue ma ciò che rende questo finisterrae d’Europa un territorio davvero unico è la pietra. Per i salentini la pietra è come il legno per gli indios amazzonici o i popoli sciamanici della Siberia.
Nell’antica Messapia non si edificava con i mattoni, il legno era quasi sconosciuto come materiale da costruzione, tutto era di tufo, carparo, pietra leccese, di Cursi, d’Alessano, di Soleto; si era circondati da peshchi, cuti, stozzi, patruddhi, feddhe e ancora altri nomi […] per definire ogni piccola variazione della pietra […] I menhir e i dolmen sono una presenza abituale nelle nostre campagne. Il loro fascino misterico ne fa, agli occhi di chi sa guardare, degli ieratici sacerdoti intermediari fra il cielo e la terra, quasi fossero dei moai mediterranei eretti come monito trascendentale dell’esistenza umana./ Leonello Bertolucci, fotografo sensibile, ha saputo guardare dove altri vedono solo. Le sue immagini dei nostri megaliti sembrano sguardi da un terzo occhio, quello dell’anima».
Stupende queste parole di Edoardo, che permettono allo spirito umano di godere della bellezza della natura. Paragonare i nostri menir ai grandi moai dell’isola di Pasqua (Rapa Nui) significa veramente aver capito fino in fondo il significato che gli antichi abitatori di questa terra volevano dare a quei grandi massi ritti come spinotti conficcati nella roccia.
E tale comprensione è rilevabile pure nelle fotografie di Bertolucci che, intitolando il libro «a tutti i nostri padri,/ a [suo padre]», ha guardato, attraverso l’occhio magico della fotocamera, i megaliti del Salento quasi fossero dei nostri antenati. Così il suo percorso fotografico ha attraversato campagne e rilievi collinari consacrando al nostro immaginario i megaliti di Giurdignano, Giuggianello, Otranto, Minervino di Lecce, Carpignano Salentino, Melpignano, Martano, Bagnolo, Cursi, Patù, Corigliano d’Otranto, Palmariggi, Cannole, Ugento/Terenzano, Calimera, Diso. Così il suo libro immortala la bellezza e la severità dei menhir, dei dolmen, delle specchie, del Masso della strega, degli ipogei, delle chianche, della Centopietre, della Pietra di san Vito, del megalite di Terenzano. Tutte pietre che respirarono energie vitali.
[“Il filo di Aracne” anno X, n. 5, novembre-dicembre 2015, pp. 20-21]