di Antonio Errico
Forse i bambini non ci credono più. Forse è giusto. Forse è sbagliato. Forse non è giusto e non è sbagliato. I tempi vanno così: fino ad un certo punto si crede in qualcosa; da un certo punto in poi non si crede più.
A volte vengono tempi che tacitano le emozioni, che sottraggono illusioni. Forse questo è un tempo così. E’ un tempo che non vuole, che non tollera più la possibilità dell’irrazionale, del fantastico, dell’irreale.
In questo tempo i bambini hanno sogni diversi da quelli che hanno avuto i bambini di altri tempi. Hanno altre fiabe. Spesso le forme delle fiabe e dei sogni sono determinate dalle forme della realtà, e la realtà di questo tempo è completamente diversa da quella di ogni altro tempo.
Forse, invece, è sbagliato che gli adulti abbiano smesso di crederci. Quelli che una volta, in un’aula di scuola, hanno imparato a memoria la poesia di Giovanni Pascoli che comincia così: “Viene viene la Befana,/ vien dai monti a notte fonda./ Come è stanca! la circonda/ neve, gelo e tramontana./ Viene viene la Befana”.
Non dovevano smettere di crederci perché per loro la Befana è stata una figura dell’attesa e della speranza. Non dovevano smettere di crederci quelli che le hanno scritto lettere appassionate domandandole doni umilissimi o preziosi, quelli che hanno passato la notte fingendo di dormire con l’orecchio teso ad intercettare il minimo rumore proveniente dal camino, o un passo leggero leggero che scivola nelle stanze per consegnare al silenzio della notte un segno come ricompensa dell’attesa e della passione.
Non dovevano smettere di crederci quelli che hanno espresso desideri con il sonno lasciato in sospeso sul cuscino, quelli che hanno colorato il buio della notte con fantasie delicate e dolcezze profonde, quelli che non hanno voluto lasciarsi imprigionare dalle macerie che accumula la vita.
Non dovevano smettere di crederci; dovevano semplicemente cambiare le richieste dei doni.
Forse si è ancora in tempo. Forse si può fare: si può ricominciare a credere. Quando si comincia a cercare di truccare in qualche modo la malinconia, quando si fa finta di non vedere la ruga che soltanto ieri non c’era, quando non si è più disposti a farsi fregare dal qualunquismo, dal pragmatismo, dall’utilitarismo, dalle carriere rampanti, dall’indifferenza, dall’ipocrisia, dall’egoismo, dalla vanità, dall’avarizia, dalla vanagloria, dalla superbia, dalla presunzione, allora si può ricominciare a credere, si può ricominciare a richiedere i doni. Non più il cavallo a dondolo, ma l’autenticità dei modi di essere; non più il trenino di legno, ma la serenità dei giorni che vengono; non più i pastelli di tanti colori, ma solo un pastello di colore azzurro chiaro.
Si può ricominciare a credere alla Befana. Si può ricominciare ad aspettarla, resistendo al sonno che preme sulle palpebre.
Anche se con gli anni, con la stanchezza e con un po’ di latino qualche volta si sono addormentati giustificandosi con quella frase dell’ “Ars poetica” di Orazio che dice “quandoque bonus dormitat Homerus”, possono dirsi che sì, va bene, anche il buon Omero talvolta s’abbiocca, ma che loro sono migliori di Omero, che meglio di Omero sanno vincere il sonno.
Si può ricominciare a credere alla Befana.
Certo, si può obiettare che non è più il tempo di credere a favole, leggende, finzioni. Si può obiettare che non è più il tempo di aspettarsi doni da nessuno e che anzi bisogna sospettare di chi promette doni di qualsiasi tipo.
Però senza leggende, le storie possono risultare noiose, a volte, e poi la Befana non è affatto una leggenda. La Befana che porta i doni è una concretissima realtà.
E’ quella creatura che conosciamo da sempre o che abbiamo conosciuto appena ieri, o che non conosciamo e non conosceremo mai, quella che fa del bene in giro per il mondo, che accoglie i disperati, che fa volontariato, che quando c’è da dare una mano non ci pensa su neanche una volta. E’ quella creatura di cui ci fidiamo, senza la quale non sapremmo come fare, quella che senza parlare ci dà coraggio, ci fa capire che non si deve mollare, ci aiuta a distinguere l’inutile dall’essenziale.
E’ quella che porta doni di cui non possiamo sospettare, perché spesso è il dono di uno sguardo, di una parola, oppure di un silenzio, di un pianto segreto, di un sorriso inaspettato. E’ quella che ci vive accanto o che vive lontano ma che sentiamo vicina nell’intimità. La Befana ha il volto dei vivi che ci amano e che amiamo, dei morti che amiamo e che ci hanno amati, che forse da qualche punto del cielo ancora ci amano.
Fin quando si è bambini, si può anche concedersi il privilegio di non credere alla Befana. Ma appena si oltrepassa la soglia dell’infanzia, questo privilegio non è più consentito. Quando la percezione del Bene e del Male si trasforma in concetto e quindi richiede competenza di distinzione e di riconoscimento di quello che appartiene all’una e all’altra sfera, a quel punto crederci diventa necessario. La Befana appartiene alla sfera del Bene. Appartiene a quelle storie e a quelle figure che contribuiscono a rendere il mondo migliore, oppure a farti pensare che possa esistere un mondo migliore. Per esempio: quello in cui qualcuno ti porta dei doni senza chiederti nulla in cambio ma soltanto perché sei stato buono e per motivarti ad esserlo ancora. O che ti porta il carbone non per punirti ma per farti riflettere sulle tue azioni.
La Befana non dimentica mai nessuno. Può portare arance e mandarini oppure la cenere e il carbone, ma non dimentica mai nessuno. Probabilmente il suo insegnamento più forte consiste proprio nel non dimenticare mai nessuno, nel prestare attenzione, nell’attribuire valore a tutti ed a ciascuno.
Lei passa. Anche se non siamo più bambini. Anche se non restiamo ad aspettarla. Anche se non appendiamo la calza vicino al camino. Anche se abbiamo perduto lo stupore. Anche se non ci crediamo più. Lei passa. A lasciarci il dono della speranza.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 6 gennaio 2019]