di Antonio Errico
Comincerà un anno nuovo, fra qualche ora. Cambieremo l’agenda, cambieremo il calendario. Faremo qualcosa di diverso o faremo le cose di sempre, nel modo in cui le facciamo di solito o in un modo diverso. Forse qualcuno di noi farà come Ricardo Reis. Come lui si dirà che l’ultimo giorno dell’anno è quello in cui ciascuno discute con se stesso le buone azioni che intende compiere nell’anno che sta per cominciare.
Poi, come dice Ricardo Reis, nei primi giorni di gennaio dimentica già metà dei suoi propositi, e siccome la memoria è un castello di carta che crolla tutto insieme e all’improvviso, non c’è motivo per tenere fede alle cose che non si sono ancora dimenticate.
Ricardo Reis non promette nulla a nessuno: a nessuno degli uomini; a nessuno dei suoi dei silenziosi e indifferenti per i quali il bene e il male hanno meno valore delle parole con cui sono identificati, che tra bene e male non sanno fare distinzione, perché loro – gli dei- procedono nel fiume delle cose, con noi, come noi. E non ci giudicheranno per le buone intenzioni; non ci giudicheranno nemmeno per le buone azioni, perché gli dei non hanno bisogno di giudicare. Gli dei sanno già tutto, e considerano inutili tanto le buone quanto le cattive intenzioni. Inutili. Allora non bisognerebbe dire domani farò: perché la cosa più sicura è che domani si sia stanchi. Sarebbe più giusto dire dopodomani, e prendersi un giorno di tempo per cambiare idea, oppure sarebbe prudente dirsi dopodomani deciderò quando sarà il giorno di dire dopodomani.
Questo pensa, solo, in una camera d’albergo, nell’ultimo giorno dell’anno, il personaggio dell’ Anno della morte di Ricardo Reis, il romanzo con cui Josè Saramago ha dato esistenza ad uno dei tanti nomi in cui si è frastagliato quello di Fernando Pessoa, il poeta portoghese multiforme e inafferrabile, la maschera che incarna la silenziosa disperazione individuale e sociale dell’uomo moderno, la dissipazione dei suoi valori.
Forse faremo così, o forse no. Forse festeggeremo qualcosa senza neppure pensare, per la consuetudine di un augurio, oppure lo faremo con il significato profondo di una segreta speranza. Poi le storie che si devono concludere, si concluderanno, quelle che devono continuare continueranno; neanche faremo caso alla circostanza che continuano o si concludono in un anno diverso da quello in cui sono cominciate, perché le storie hanno un loro tempo, che non coincide con gli anni, ma con il nostro viverle, con il loro stesso maturare.
Ma fra i pensieri che vengono e che vanno, fra i pensieri essenziali e quelli che non lo sono, probabilmente ci faremo la domanda su come vorremmo che fosse l’anno che verrà. La stessa domanda che fa il “passeggere” al venditore di almanacchi nell’Operetta morale di Leopardi. Forse risponderemo alla stessa maniera del venditore di almanacchi.
Però faremo comunque qualche promessa: agli altri, a noi stessi. Forse prometteremo di restare nel modo in cui siamo; forse prometteremo di essere diversi. Perché, in fondo, l’inizio di un anno nuovo, di un nuovo tempo, assume sostanzialmente il significato di una promessa; perché il futuro è sempre una promessa. Promettere vuol dire tendersi verso un’altra condizione, verso il superamento di un modo di essere che non corrisponde a quello che vorremmo. Probabilmente molti di noi fanno questo: promettono il superamento di se stessi. La stessa cosa dovremmo farla a livello di comunità: di ogni piccola o grande comunità. Si dovrebbe promettere di essere diversamente, cercando per quanto è possibile di mantenere la promessa. Dovremmo assumere l’impegno di innalzare il livello di attenzione nei confronti di chi ha più necessità di attenzione. Probabilmente è questa la priorità assoluta. Non può esistere civiltà senza questa attenzione. Non può esistere crescita, benessere, sviluppo. Senza una condizione costante di prossimità all’altro, si apre un cratere di egoismo che prima o poi inghiotte tutti.
Un nuovo anno, un nuovo tempo, non può essere altro che una promessa, se non si vuole che sia un tempo vuoto, un tempo che alla fine dei conti risulta superfluo. Deve essere la promessa di un impegno, da parte di tutti: ciascuno per come può, per quanto può. Il futuro dipenderà da questo impegno. Il futuro ci giudicherà da questo impegno.
Probabilmente ha ragione Ricardo Reis quando dice che gli dei non ci giudicheranno per le buone intenzioni.
Probabilmente non ha ragione quando dice che non ci giudicheranno nemmeno per le buone azioni. Perché è l’agire in funzione del bene che può trasformare l’esistente, che può fare un futuro migliore del passato e del presente.
Ogni progresso non è che un intreccio di buone azioni, non è che l’esito di un costante impegno nei confronti degli altri.
Ricardo Reis è il personaggio di una finzione, che pensa ed agisce in relazione a quella finzione. Noi siamo i personaggi di una realtà che agiscono in relazione e in funzione della realtà. Allora dobbiamo necessariamente domandarci come vogliamo che sia la nostra realtà, il nostro essere nel tempo che attraversiamo, nei luoghi che abitiamo. Dobbiamo chiedercelo rispetto ai nostri impegni quotidiani, rispetto ai nostri orizzonti di senso e alle promesse che formuliamo a noi stessi, agli altri. Dovremmo farlo ogni giorno, e molti di noi probabilmente lo fanno. Dovremmo farlo tutte le volte che da qualche parte qualcuno pensa che la nostra azione possa servire a qualcosa, a qualcuno, che le nostre decisioni possano determinare un nuovo modo di pensare e di essere, che possano cambiare le piccole storie che, pur sembrando insignificanti, contribuiscono a realizzare le storie grandi.
Ma se lo si fa sopra una soglia che divide un anno da un altro, che ci consente un passaggio nella nostra esperienza del tempo, allora si carica anche del senso di un augurio più forte, più autentico, più sincero.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 30 dicembre 2018]