La Legge di Stabilità 2019 e i problemi dell’economia italiana

di Guglielmo Forges Davanzati

Dopo una lunga trattativa con le Istituzioni europee, si avvia a conclusione l’iter che ha portato alla riscrittura della Legge di Stabilità. Da un lato, è stata evitata la procedura di infrazione per debito eccessivo, dall’altro il Governo ha dovuto ridurre le spese programmate (per un importo stimato di circa 9 miliardi) e preventivare ulteriori possibili incrementi di imposta. Per inquadrare gli effetti di questa manovra, è utile dar conto dei principali problemi che l’economia italiana si accinge ad affrontare nel 2019.

A partire dalle manovre fiscali restrittive dei primi anni novanta, l’Italia sperimenta un percorso di continua contrazione degli investimenti pubblici e privati e di continua riduzione della quota dei salari sul Pil (quest’ultima soprattutto per effetto del progressivo spostamento dell’onere fiscale a danno del lavoro dipendente) con conseguente calo del tasso di crescita della produttività del lavoro. E’ un dato di fatto che la produttività del lavoro è determinata essenzialmente dalla dinamica degli investimenti e anche dalla dinamica salariale, e che in entrambi i casi, ci si trova di fronte a un continuo calo che data prima della prima crisi del 2008 e prima dell’ingresso nell’Unione Monetaria Europea. Con un tasso di crescita prossimo allo 0%, l’economia italiana oggi ha urgente necessità di una ripresa degli investimenti e di un aumento dei salari. Gli investimenti – che dipendono fondamentalmente dalle aspettative imprenditoriali – accrescono la domanda aggregata nel breve periodo e accrescono la capacità produttiva nel lungo periodo. Ciò soprattutto se vengono effettuati secondo una logica di complementarietà, per la quale è di norma l’aumento degli investimenti pubblici (si pensi all’ammodernamento delle infrastrutture fisiche e immateriali e alla ricerca) a trainare gli investimenti privati. Banca d’Italia stima, a riguardo, un effetto moltiplicativo degli investimenti pubblici maggiore di 1, notevolmente superiore rispetto a quello derivante dall’aumento della spesa corrente (come nel caso del reddito di cittadinanza o della riforma pensionistica annunciata dal Governo).

Purtroppo né gli ultimi Governi né quello in carica hanno invertito la tendenza. L’Istat certifica che gli investimenti (pubblici e privati) in Italia nell’ultimo anno, sebbene abbiano registrato un leggero aumento nel 2017 ma solo al Nord, sono inferiori alla media di quelli effettuati nell’eurozona. Soprattutto va considerato – su fonte SVIMEZ – la drammatica caduta degli investimenti pubblici nel Mezzogiorno nel corso degli ultimi anni, con conseguente aumento dei divari regionali e contestuale riduzione della crescita della produttività nelle aree più povere del Paese.

Queste scelte si inseriscono in un quadro macroeconomico globale non favorevole, per almeno due ragioni: il verosimile aumento del prezzo del petrolio, che è ai minimi da oltre un anno, e soprattutto l’annunciata fine del quantitative easing. Si tratta di due rischi che impattano, nel primo caso, sulla spesa per importazioni; nel secondo, sulla sostenibilità del debito pubblico, venendo meno, sebbene gradualmente, il programma di acquisto di titoli di Stato da parte della banca centrale europea.

La lunga trattativa che il Governo ha instaurato con la commissione europea si conclude con un “sì condizionato”, un accordo su un valore del deficit nominale al 2%, contro il 2.4% previsto nelle prime stesure della Legge di Stabilità. Decimali di Pil, che ammontano a circa 3.6 miliardi, e che mettono in discussione la possibilità che, almeno a breve, il Governo riesca a realizzare tutte le misure promesse, o almeno quelle con maggiori costi (revisione della Legge Fornero e reddito di cittadinanza). A meno di non recuperare risorse aggiuntive da altri capitoli di spesa, mettendo in campo necessariamente operazioni impopolari: p.e., l’aumento dell’IVA.

La trattativa in corso con l’Unione europea si conclude dunque con una marcia indietro del nostro Governo, probabilmente derivante dal fatto che la minaccia di cui disponeva (l’abbandono unilaterale dell’euro) non si è rivelata percorribile perché non gradita alla maggioranza degli italiani. Quali i risultati dello scontro con le Istituzioni europee?

  1. Un aumento dei differenziali fra tassi di interesse sui titoli di Stato italiani e titoli tedeschi (il c.d. spread), che comporta maggiori interessi che lo Stato italiano deve pagare ai sottoscrittori di titoli del debito pubblico. E’ utile osservare, a riguardo, che nei mesi scorsi, con uno spread sistematicamente assestato al di sopra dei 300 punti, il Governo provava a spiegare che ciò era da attribuirsi alle variazioni degli acquisti giornalieri di titoli di Stato da parte della BCE. Questa tesi sembra oggi falsa, dal momento che, chiusa la trattativa con Bruxelles, lo spread si è ridotto (giungendo – il 20 dicembre – ai minimi da settembre scorso), indipendentemente dall’azione della Banca centrale europea.

2.Maggiore incertezza, dovuta alle continue revisioni di stima del tasso di crescita e della dinamica del deficit, che si traduce in minori investimenti privati. Fatto piuttosto grave se si considera che dal 2010 al 2018 il tasso di accumulazione del capitale fisso di è quasi dimezzato.

La trattativa non ha infine portato a nessuna revisione dei Trattati. A fine 2018, le Istituzioni europee – in quanto deputate al rispetto dei Trattati, e quindi dal loro punto di vista – vincono.

Ma soprattutto questa trattativa non è servita neppure a rendere possibile l’attuazione di qualche provvedimento né per la crescita (gli investimenti previsti sono del tutto irrisori e manca un’azione sul rilancio dei salari) né per frenare i processi di impoverimento dei ceti medi. Questi ultimi sono rilevanti per ragioni politiche ed economiche.

Impoverimento e immobilità sociale deteriorano le aspettative e tendono ad associarsi a voti di protesta che virano tendenzialmente verso un connubio di attitudini nativiste e sovraniste, riunite in una visione idealizzata della piccola Patria e di una grandezza persa per l’imperialismo della finanza internazionale o per colpa di presunti “poteri forti” sovranazionali e/o per effetto dei vincoli posti dai Trattati europei. Sul piano economico, si richiamano le presunte virtù salvifiche della svalutazione della lira, immaginando che questa avrebbe prodotto crescita ininterrotta trainata dalle esportazioni. Difficile dare torto a Mario Draghi, che, recentemente, ha ricordato che le svalutazioni della lira (7 casi dal 1979 al 1992) si sono sempre accompagnate a cali di produttività, per effetto della possibilità accordata alle imprese di competere con un cambio favorevole rinunciando a innovare. A ciò si può aggiungere il fatto che, poiché soprattutto negli ultimi decenni le imprese italiane esportatrici sono localizzate prevalentemente a Nord, le svalutazioni della lira hanno di norma prodotto un ampliamento dei divari regionali.

Il problema dell’impoverimento dei ceti medi (commercianti, artigiani, impiegati pubblici e privati, liberi professionisti) e dei lavoratori dipendenti andrebbe affrontato con una profonda revisione del sistema fiscale, nella direzione di una maggiore progressività delle imposte. La detassazione dei redditi più bassi non avrebbe solo un effetto positivo di riduzione delle ormai insostenibili diseguaglianze: l’aumento dei salari netti è tendenzialmente associato a elevata produttività. Si ricordi, a riguardo, che l’evidenza empirica ci mostra che Paesi con bassi salari (l’Italia all’interno della media europea) sono Paesi con minore propensione all’innovazione e maggiori ore lavorate.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di Giovedì 27 Dicembre 2018]

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