A mo’ di introduzione
Si narra, agli esordi della filosofia occidentale, che tra il 400 e il 300 avanti Cristo, un personaggio strano andasse in giro di giorno in Atene con una lanterna. Si chiamava Diogene. A chi gli chiese il motivo di quella anomalia, rispose: “Cerco l’uomo”. “L’uomo” definizione generica ma significativa perché indicava l’uomo onesto. Ma chi è l’uomo oggi? Lo cerchiamo ancora? Credo che oggi non lo cerchiamo più perché cerchiamo soggetti umani che abbiano competenza e ruoli: c’è l’avvocato, il docente, il netturbino, il politico e così via. Nel puzzle dell’esistenza odierna cerchiamo ruoli e competenze, maschili o femminili che siano. Io, per esempio, insegno da quando avevo 18 anni, tra scuola primaria, liceo e, poco dopo, università. Quindi per tutti sono stato un “prof”. Perché dico “sono stato”? Perché dal primo novembre, avendo compiuto i fatidici settant’anni, sono entrato in “quiescenza” o “pensione” che dir si voglia: evento normale, previsto, ineludibile, giusto, importante per il ricambio generazionale. Quindi oggi dovrei essere chiamato “pensionato” e non “prof”, anche se per quest’anno continuo ad insegnare.
La cosa non mi preoccupa, ma sarei bugiardo se non dicessi che essere nello sguardo dell’altro solo un “pensionato” non rappresenta per me il top della soddisfazione. Tra l’altro questa riflessione è stata casualmente anche sollecitata dalla rassegna stampa che seguo, insieme a Marisa, mia moglie, in tv la mattina tra le 6.30 e le 7.30. E, proprio stamane, un quotidiano locale parla nel titolo di un qualcuno che ha molestato la vicina e che, pertanto, rischia un processo. Questo qualcuno era definito nel titolo solo “un pensionato”. Io mi chiedo se il cambio di ruolo sociale e funzionale debba essere letto come una rivoluzione esistenziale o se l’esistenza del soggetto non si svolga in piena continuità, sulla base di ciò che ognuno ha fatto prima e che non è necessariamente l’impiego “a termine” che ha svolto, magari per decenni. Si potrà dire che un libero professionista non ha questa cesura nella vita, ma voglio anche spiegare il motivo per cui chi ha svolto per decenni lavoro dipendente (dallo Stato o da privati) continua ad operare, cioè a vivere, la propria vita, senza soluzione di continuità. Ognuno continua ad essere ciò che era prima: e ciò che era prima non era la mansione svolta, ma la sua vita in tutte le dimensioni. Mi viene da ripetere qui una affermazione che la Chiesa cattolica adopera, purtroppo, in un contesto doloroso qual è quello della fine della vita biologica. Essa dice: “Vita mutator non tollitur”: la vita è mutata, non è tolta.
Torniamo al mio tema, meno tragico. Ognuno di noi continua ad essere, in qualsiasi età e in qualsiasi ruolo lavorativo e famigliare, ciò che è sempre stato e a produrre per gli altri. Ma sto dicendo queste cose per autoconsolarmi? Proprio no. Io so già, come lo sa chiunque nel proprio settore, cosa farò in continuità, in integrazione, in innovazione rispetto a quanto ho fatto in tanti decenni. C’è uno scrittore francese (rifiutò il premio Nobel perché disse che era un premio borghese) che nel 1943 scriveva che ognuno di noi “recita” sempre un “ruolo”. Egli fa l’esempio del cameriere che si alza presto la mattina perché dice a se stesso, quasi sempre in maniera inconscia: sono cameriere, debbo andare presto per risistemare tavolini e sedie ecc. Questo filosofo, cioè Sartre, sottolinea che quell’uomo non si accorge che “non è” cameriere, ma che “fa”, cioè recita, il ruolo di cameriere. E questo avviene per ognuno di noi. D’altro canto abbiamo individualmente una pluralità di ruoli sociali: padre o madre, figlio o figlia, marito o moglie, impiegato o artigiano, politico o sportivo e così via, e volta per volta, in maniera automatica, mettiamo in campo il nostro ruolo come se fosse un canovaccio che avvertiamo necessario interpretare.
Allora io e ognuno di noi finisce, periodicamente, solo uno dei tanti ruoli che esercita. Cambiamo il ruolo ma rimaniamo sempre con la nostra identità. Ognuno di noi è l’uomo che Diogene cercava, circa quattro secoli prima della nascita di Cristo, con la lanterna sotto il sole splendente della Grecia.
Punizioni scolastiche
Ho avuto notizia dai mass-media locali, alcuni giorni fa, che una scuola, d’accordo con una nota associazione, nata all’interno della realtà ecclesiale per aiutare le persone indigenti, ha preso una decisione che mi ha lasciato perplesso. Pare che una sede salentina di questa associazione abbia deciso che gli studenti peggiori, per rendimento, nelle istituzioni scolastiche dovranno andare ad aiutare chi opera nelle mense dei poveri. Apparentemente sarebbe una scelta umanitaria se non nascesse da una intenzione punitiva in chi l’ha ideata: i più somari vanno ad aiutare i volontari che operano nella mensa dei poveri, come se il povero e lo stare insieme al povero fossero una punizione. Non mi pare, al riguardo, che Cristo, quando spesso si è avvicinato ai derelitti, lo abbia fatto per autopunirsi.
Io avrei capito l’opposto: gli alunni più bravi sono premiati attraverso l’opportunità di prodigarsi, aiutando chi lavora nelle mense dei soggetti economicamente disagiati. E, contemporaneamente, questi fratelli indigenti, che vivono in condizioni umilianti, avrebbero visto che la comunità ecclesiale, quella civile e quella scolastica – che ha come finalità primaria la formazione di uomini e cittadini – fanno avvicinare la parte migliore della gioventù a chi nella vita è stato sfortunato e vive in condizioni precarie e sub-umane. Ricordiamo che, nell’ultima cena, Cristo lavò i piedi dei discepoli, con atto di estrema umiltà e di umanità. E il rito si ripete nella chiesa cattolica il giovedì santo.
Ma basta leggere un brano del Vangelo di Matteo che, a mio parere, anche al di là dei credenti, è simbolo di vera umanità laica. Nell’immaginare il giudizio finale, Matteo mette nella bocca di Cristo queste parole: “ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. E quella affermazione avrà una risposta disarmante da parte dei destinatari, perché nessuno ricorda di aver mai fatto nei confronti di Cristo azioni di tale genere. E Cristo risponderà che tutto quello che loro avevano fatto a uno solo dei suoi “fratelli più piccoli”, lo avevano fatto a lui. Parimenti, rimprovererà e condannerà chi non ha mai aiutato quei fratelli, perché: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.
Ho preso spunto da questa decisione assunta nel nostro territorio, pur molto modesta rispetto alle fonti richiamate poco fa, per ribadire che è una decisone poco emancipante e per sottolineare che la scuola non deve assecondare scelte diseducanti come quella che starebbe per essere messa in atto, tramite le istituzioni formative, da strutture culturali e religiose che forse stanno uscendo fuori dalla loro stessa cultura plurimillenaria. Anche Francesco d’Assisi sarà inorridito quando gli avranno detto che, nel sud della sua Italia, i poveri sono usati come strumento di mortificazione e di punizione. Immaginiamoci quindi, se possibile (ma siamo nella fanta-storia), la reazione di Francesco che “decise” di essere povero.
Il mio sincero auspicio è che, quando appariranno queste riflessioni, chi ha il potere per farlo abbia già ribaltato la decisione iniziale.
Il bisogno di scrivere
Quando andavo, come alunno, alla scuola dell’obbligo, i miei bravi insegnanti ripetevano una definizione dell’Italia come terra di “poeti, navigatori ed eroi”. La cosa ci lasciava indifferenti perché, a quella età, forse l’unica prospettiva che ci allettava era quella di diventare giocatori di calcio o, se ci pensavamo come futuri eroi, si trattava di divenire come quelli che vedevamo nei film western e che combattevano contro gli indiani. I fumetti a strisce che compravamo ci convincevano di questo. E chi di noi, anche da adulto, non si sente un po’ eroe in una società travagliata ed insicura dove bisogna affrontare e vincere tanti ostacoli quotidiani?
Ma non è di questo che voglio parlare, ma di un’altra cosa che mi ha sorpreso: l’Italia e il Salento, se non sono terre di eroi, sono sicuramente sono terre di poeti. Perché dico questo? Perché negli ultimi anni ricevo libri di poesie di amici o conoscenti, che me li inviano come atto di omaggio o anche per avere un giudizio sul loro profilo poetico. Poi altri amici e amiche mi presentano raccolte di poesie inedite chiedendomi un giudizio e, se il mio giudizio è positivo, anche una valutazione scritta talvolta utilizzata come introduzione o postfazione. Io leggo tutto ciò sempre con enorme e convinto piacere, anche se talvolta mi sento in dovere di dire che, a mio parere e, aggiungo, che non è il parere di un addetto ai lavori ma di un semplice lettore, forse quegli scritti vanno rivisti globalmente oppure l’autore che dovrebbe rivederli in alcuni punti prima di renderli pubblici.
Ma non voglio parlare soltanto di questo nuovo aspetto della mia occupazione, che svolgo sempre con piacere e gratuità, bensì del fatto che si ha bisogno di scrivere il proprio vissuto in forma lieve, sonora, metaforica. Penso, tra l’altro, che ognuno di noi abbia scritto qualcosa in versi (non necessariamente in rima) nella propria vita. Da che dipende tutto ciò? Può dipendere dal fatto noi, essendone consapevoli o meno, ci raccontiamo a noi stessi e, raccontandoci e mettendo per iscritto il nostro vissuto, lo razionalizziamo e ci diamo spiegazione di tante cose. Questa è la finalità soprattutto del diario personale, perlomeno sino a quando si usavano i diari personali. Famoso quello di Anna Frank che nacque in maniera imprevista. Come sappiamo, la famiglia, ebraica, della tredicenne Anna, si era nascosta in una casa dove sperava di non essere rintracciata e, quindi, finire in campo di concentramento. Il giorno seguente al trasferimento in quella casa di amici, cadeva il compleanno di Anna. Lei, alle luci dell’alba, si alzò da letto per vedere che regalo avessero lasciato, come sorpresa, i genitori. E cosa trovò? Un diario. Non ne rimase molto contenta, anzi all’inizio fu sopraffatta dalla delusione. Poi pensò e disse a se stessa: “Ma io volevo un’amica. Ora non ho nessuna amica. Il mio diario sarà l’amica”. E così fu e ci donò uno dei testi più letti in Occidente.
Fatti i dovuti “distinguo”, la stessa funzione ha lo scrivere poesie, cioè quella di narrarsi e comunicare agli altri per metafore o per racconti, che hanno una scrittura lieve e sonora. Ha scritto Salvatore Quasimodo, premio Nobel per la poesia nel 1958: “Ognuno di noi sta solo nella terra/ trafitto da un raggio di sole/ ed è subito sera”. La poesia è, sì, solitudine ma è anche un raggio di sole che noi diamo a noi stessi e che partecipiamo agli altri. Un modo civile, discreto, bello di parlare di noi all’altro. Mi viene da dire che finché ci sono poesie, al di là del loro valore letterario, ci sarà civiltà umana.
Papa Francesco e le coppie separate
A fine febbraio papa Francesco ha detto qualcosa di importante per la vita della comunità. Egli ha affrontato il tema delle coppie separate, dando una spinta assolutamente innovativa rispetto alla prassi sinora tenuta da gran parte della gerarchia della Chiesa cattolica. Ha detto il pontefice: “Quando questo lasciare il padre e la madre e unirsi a una donna, farsi una sola carne e andare avanti, e questo amore fallisce, perché tante volte fallisce, dobbiamo sentire il dolore del fallimento, accompagnare quelle persone che hanno avuto questo fallimento nel proprio amore. Non condannare! Camminare con loro! E non fare casistica con la loro situazione”.
Perché dico questo? Perché circa quattro anni fa, attraverso un quotidiano locale, feci alcune domande, non retoriche, sul rapporto Chiesa-coppie separate, ad un arcivescovo. La cosa non riguardava direttamente me, ma tante persone di mia conoscenza e a me care. La risposta che ebbi fu abbastanza possibilista, ma la trovai anche “burocratica”. Io, da credente, volevo e vorrei ancora che un vescovo o un sacerdote si rendessero conto che una persona, che può avere sbagliato una scelta matrimoniale, possa avvertire la necessità di ripristinare il rapporto con la Chiesa, perché quello con Cristo, se uno è credente, rimane comunque. Capisco che, nella logica ecclesiale, chi scioglie un rapporto coniugale scioglie un sacramento, cioè qualcosa che, per i credenti, ha una valenza sia umana che religiosa. Mi chiedevo quattro anni fa e mi chiedo ancora oggi: chi è senza peccato anche dentro e fuori la Chiesa? Ma mi rendo conto che il fatto che, se tutti rubano, il rubare non sia più un reato.
Torniamo, quindi, al problema che papa Francesco ha saputo affrontare con l’umanità di sempre. Egli avrà tenuto conto che la separazione di una coppia non è per nessuno una festa, ma una ferita, un “vulnus” (come dicono gli avvocati) che rimane a vita e che pesa come un macigno. E il pontefice ha compreso che non ha senso, anzi è controproducente tenere lontano dalla Chiesa persone che vogliono riprendere a vivere in una comunità che non è solo civile e sociale, ma soprattutto spirituale e di ampio respiro umano. So bene che per i non-credenti tutte queste sono elucubrazioni che consolidano una vita di Chiesa, nella quale il laico è subalterno al clero e agli organi ecclesiastici, a tutti i livelli. Potrei aggiungere che questa condizione di dipendenza è anche giusta perché evita che ognuno si faccia della norme a propria convenienza. Ma che dovrebbe fare un padre che sa che ha un figlio drogato? Mandarlo via da casa ? Abbandonarlo o tenerselo vicino per vedere di fargli riacquistare il proprio autodominio? Stiamo parlando di una situazione umana forse più dolorosa e pericolosa di una separazione matrimoniale. La risposta è in ognuno di noi. La segregazione, la rottura dei rapporti non risolvono alcuna situazione ritenuta patologica (nel caso della separazione, oggi da alcuni considerata fisiologica): la criminalizza soltanto. E tutto ciò non è cristiano né umano.
Giardini privati leccesi
Non molti giorni fa, all’interno di un programma di incontri promossi da un’associazione culturale dedicata a Don Gaetano Quarta, sacerdote e docente universitario di psicologia morto da alcuni anni, si è parlato del Barocco e dei giardini di Lecce. Ne hanno parlato due donne che hanno estrema competenza in queste tematiche. Il tutto è stato confortato e arricchito da diapositive proiettate sullo schermo. Il discorso sul Barocco, pur condotto da una docente universitaria che da anni si dedica a questo tema con estrema competenza, ha presentato monumenti chiese, palazzi che, grosso modo, quasi tutti conoscevamo di nome o avevamo visitato di persona anche più volte e che ora abbiamo visto unificato in un discorso della storia artistica e, indirettamente, anche religiosa e civile della nostra terra.
La novità, invece, è stata questa scoperta dei giardini leccesi. E si parla non dei giardini pubblici, ma di giardini privati, all’interno di casa o palazzi situati normalmente nel centro storico. I proprietari non avevano avuto problemi nel far entrare l’autrice del programma e il giovane che si era prestato a fare le fotografie. Quando le diapositive sono state proiettate nell’ampio parlatorio della Benedettine, cioè delle suore di clausura di Lecce che, nonostante la clausura, sono sempre presenti alle iniziative che facciamo presso il loro convento, la sorpresa è stata generale. Nessuno di noi immaginava che, nascosti da un muretto o una ringhiera di ferro, ci fossero giardini molto belli, anche con piante, alberi, fiori rari e non rari. Erano e sono giardini che narrano una storia della nostra città proprio tramite quella dura pietra consumata dal tempo e incavata. Infatti in alcuni erano ancora sedili di pietra ultracentenari che manifestavano la vecchiaia del loro fungere da piano dove sedersi. Abbiamo visto, in questi giardini, anche alberi secolari, oppure piante ed alberi che si pensava fossero scomparsi nel tempo.
Perché questa omelia sui giardini privati? Perché non c’è bisogno dell’indovino per capire che tale fenomeno urbano non è esclusivo di una sola città, ma, a mio parere, per quello che vale, è presente in tutto il Salento. Allora andrebbe portato alla conoscenza dell’intera popolazione e non solo degli studiosi e degli amanti dell’antico. Tutto ciò fa parte della nostra cultura: e non dimentichiamo che cultura viene da coltivare. Non a caso, nel periodo fascista al posto di cultura si usava il termine coltura. Io me ne accorsi, quando giovanotto, nel 1962, insegnai alla scuola elementare di Gallipoli, nel Collegio dei Salesiani (ora non c’è più), e trovai nella segreteria della Direzione Didattica un diploma assegnato alla scuola e rilasciato, testualmente, dal “Ministero della Coltura”.
Sarebbe bello che, come in alcune nostre città si svolge in primavera la manifestazione dei palazzi privati aperti al pubblico, così si desse la possibilità ai cittadini di conoscere i giardini nascosti, perché anche quelli rappresentano la storia di Lecce come di Firenze, di Bologna come di Galatina. Sarebbe un modo non solo di conoscere meglio il proprio paese o città, ma anche di creare una circolazione umana di conoscenza tra i soggetti che abitano nello stesso posto, che si chiamano “con-cittadini”: cittadini che hanno in comune la cittadinanza che non è solo il votare nello stesso giorno e dovendo scegliere da liste che non sono quelle del paese vicino. Si è con-cittadini quando la città la si vive insieme e se ne conoscono limiti, ma anche pratiche e ricchezze culturali, urbane, artistiche, nascoste o palesi che siano. Allora la città sarà davvero di tutti.
Comunità
Mentre scrivo sto vivendo, come tutti, il periodo pasquale che, senz’altro, ha anche una valenza laica perché rappresenta una sosta, per quanto breve, negli impegni lavorativi o di studio per adulti e giovani. La cosa che dovrebbe, invece, farci riflettere, come fenomeno da approfondire, è vedere le chiese piene, o quasi, durante le cerimonie religiose o anche quando la chiesa, in quegli orari, è libera da funzioni religiose. Da noi, nel Salento, nel giovedì che precede la Pasqua c’è la consuetudine dell’allestimento e della visita ai “sepolcri”. Forse in nessun altro giorno dell’anno le chiese assistono ad un via vai tanto intenso o vedono un numero così alto di frequentatori del luogo sacro. Perché questo? Solo in quella giornata ci si ricorda della propria fede anagrafica? Credo proprio di no, ma credo pure che questo fenomeno di pacifica e bella “occupazione” delle chiese rappresenti un fatto di per sé positivo. Si tratta del volersi identificare in una comunità di persone che hanno lo stesso linguaggio, che vivono negli stessi luoghi, oramai divenuti familiari, di persone, cioè, che si riconoscono nella stessa realtà urbana e nei suoi abitanti.
Non sto facendo il professorino, perché anch’io sono legato allo stesso rituale e vivo le stesse sensazioni. Certo, visitare tutte le chiese di Lecce non è semplice (qualcuno ha chiamato Lecce “città-chiesa”). Io e Marisa, mia moglie, il giovedì sera precedente la Pasqua, entriamo in tre o quattro chiese non molto lontane da casa. In questa situazione incontriamo persone completamente a noi ignote, poi persone che conosciamo “di vista” e che, comunque, salutiamo quantomeno con un cenno della testa e un sorriso non di convenienza. Troviamo anche, com’è logico, amici e parenti e per questi il saluto è più caloroso e va dalla scambio della stretta di mano a un fugace bacio sulle due guance, accompagnato da un sorriso. Non credo che tutto ciò sia ipocrisia, credo invece che sia il desiderio di sentire intorno a sé persone con cui abbiamo tante o alcune cose in comune. Come scriveva, ai primi del 1600, John Donne: “Nessun uomo è un’isola”. Né, aggiungo io, nessuno può diventare un’isola, cioè rifiutare amicizie e la comunità, a parte coloro che vivono situazioni patologiche. Ma temo che il mio sia ottimismo e che invece, finite le feste, ognuno ritorni agli impegni usuali e riprenda a considerare l’altro, a parte le persone a noi care, come qualcuno che è superfluo se, addirittura, l’altro non torna a rappresentare un fastidio che dobbiamo tollerare.
Ma non è, per caso, che sto generalizzando il mio sentire che è di per sé portato a sottolineare le cose negative, perché le positive le considero ovvie? Qualcuno, però, potrebbe rilanciare l’accusa e potrebbe dirmi: ma, mentre pensavi queste cose negative, ti stavi guardando allo specchio? E potrebbe aggiungere, traducendo il motto latino: “Allora, medico cura te stesso”.
Presentazioni di libri
Una delle attività per le quali da tempo sono chiamato è la presentazione di libri di tematiche varie: filosofia, politica, religione, cinema, poesia, politica e persino l’autobiografia di Palaia, medico sociale del Lecce, squadra di calcio. Spesso debbo comprare di tasca mia il libro da presentare. Questo è avvenuto anche qualche giorno fa, quando un importante uomo politico, già vicesegretario del Partito socialista e ministro, Claudio Martelli, mi ha chiesto di parlare del suo libro autobiografico, lui presente, ad Avetrana, paese che ricorda eventi tristi. In sostanza io parlai del libro, della scelta dell’autore di non seguire la carriera universitaria di docente di filosofia e di dedicarsi alla politica. Alla fine del mio intervento di quindici minuti, ci furono gli interventi del pubblico che non parlarono assolutamente del libro, ma di problemi vari: l’euro, i partiti oggi, il loro paese ecc. Alla fine si alzò uno dei presenti che disse: “Caro Onorevole, facciamo qui un patto: si impegni a rifare il Partito Socialista Italiano”. Martelli disse subito di sì e accettò l’impegno della rifondazione socialista. A questo punto – erano le 21 – io mi alzai dal tavolo per andarmene, Martelli mi assecondò subito e la riunione si chiuse così. Io, per natura, penso sempre male e stavolta ho pensato che quel libro è nato già nella prospettiva della rifondazione di un partito e l’autore, che mi dice di averlo già presentato in 76 centri italiani, mi dà indirettamente una conferma. Perché scrivo questo su il Galatino? Non perché mi scandalizzi l’ipotesi della rinascita di una partito storico e benemerito per la democrazia italiana, ma perché credo che non ci sia bisogno di camuffare le finalità implicite per poi dichiararle al momento finale. Sarei andato ugualmente ad Avetrana per Claudio Martelli, che stimo come persona, ma sarei stato più contento se mi avessero detto in anticipo la finalità dell’iniziativa sottintesa a quel libro. Gli italiani preferiscono spesso le vie storte. E Avetrana ne è un esempio: e non solo per questo libro.
Etica, politica, filosofia
In questi giorni ho letto un libro della Sindaca di un centro importante del Salento (ho chiesto a Marisa, mia moglie, che si interessa del femminile, se debbo chiamarla Sindaco, Sindachessa o Sindaca e lei, quasi scandalizzata per la mia ignoranza, ha detto: Sindaca). In questo libro si parla di politica e di filosofia insieme, ma in un modo originale. Ci si immagina un incontro in cielo tra il guardiano san Pietro e Socrate, che era morto 399 anni prima della nascita di Cristo. Non sappiamo cosa abbia fatto il filosofo marito di Santippe o dove sia stato in questi 432 anni che vanno dalla sua morte alla morte di Cristo e, quindi, dall’incarico dato al patrono di Galatina di essere portinaio del Paradiso. Tra i due c’è, inevitabilmente, un lungo colloquio. Il succo del loro discorso è se la filosofia possa aiutare a governare la città. Ma quale filosofia? Il dialogo tra il portinaio del paradiso e il primo filosofo importante del pensiero occidentale si avvia proprio col problema etico che è alla base dell’esperienza di Socrate. Tra l’altro, quando costui si presenta a Pietro e gli dichiara che era, anzi che è ancora un filosofo, l’altro lo irride dicendogli che quando si presentano anime di persone che nella vita non hanno praticato alcun mestiere, dicono tutte che sono filosofe. Il problema centrale merita una riflessione attenta. Se Socrate teme il populismo e la demagogia politica, Pietro evidenzia la sua preoccupazione per i giovani che sono in balìa di se stessi e non hanno punti fermi. Il tema di fondo è, però, questo: non ci può essere politica vera se non è guidata dall’etica. La conclusione dell’autrice/Sindaca è che dobbiamo dapprima rendere responsabili e onesti tutti i cittadini: questa è la principale e unica garanzia per avere dei governanti onesti. Una cittadinanza sana, libera, pulita non sceglierà mai come suo rappresentante qualcuno che non abbia le stesse virtù della comunità da guidare. A questo punto non resta che dire: provare per credere.
Quale Salento vogliamo?
Il Salento è oggi di moda. Anche la tv nazionale, quando può, sottolinea l’interesse per la nostra terra. Ma, al di là della comune origine culturale, cosa collega i novantasette Comuni della Provincia di Lecce? Non possiamo dire che sia il linguaggio vernacolare perché il dialetto di Trepuzzi e quello di Leuca, solo per fare un esempio, sono diversi per lessico e per sonorità. Le feste patronali sono limitate al bacino territoriale specifico. Non ci sono momenti istituzionali che possano essere considerati momenti di unificazione culturale. Sinora avevamo la Provincia che, in alcuni periodi storici, ha fatto da collante e volano per le politiche del territorio: pensiamo all’Università voluta alla fine degli anni Cinquanta dalla Provincia e da altri enti locali, anche di altri comuni e provincie. Per il resto c’è stata una estrema discontinuità. Alla fine degli anni Quaranta e per una parte degli anni Cinquanta ci fu il “Premio Salento” letterario che aveva un ampio respiro nazionale. Pochi anni dopo morì, nonostante un tentativo successivo di Lorenzo Ria di rianimazione. Ora abbiamo “L’olio della poesia” ideato da chi scrive e Peppino Conte che ne è il materiale programmatore e garante di continuità. Potrei fare esempi di altre iniziative lodevoli, ma che non vanno oltre i confini della provincia. Tra l’altro le Province, come istituzioni, stanno per essere eliminate. Pare che ci sarà un collegio di sindaci e speriamo che abbiano la cultura dell’aggregazione e del bene comune e non quella del campanile. Forse sarebbe opportuno che tutte le realtà culturali e sociali del territorio si interrogassero insieme anche pubblicamente sulla domanda: quale Salento vogliamo?
Storture universitarie
Mi sono da poco arrivate, dalla Presidenza della mia Facoltà, le disposizioni per le lauree della sessione estiva. Niente di nuovo, purtroppo. Ma non dipende dall’Ateneo né dalle singole Facoltà. Si tratta di rispettare la riforma avviata dal ministro Mariastella Gelmini nel 2010. La Commissione di laurea, che dev’essere composta da “almeno” tre docenti, è decisa dal docente relatore della tesi, che è uno dei tre. Già in questa prospettiva si può paventare qualcosa di viziato, cioè che si formino delle terne di docenti ruotanti nelle tesi che riguardano allievi dei tre docenti: e, sia chiaro, non per condurre loschi affari, ma per lavorare in un clima di serena amicizia. La commissione, così formata, dovrà decidere anche data e luogo in cui si farà la valutazione delle tesi. Però il laureando, in relazione all’anno di iscrizione all’Università, non può essere presente alla discussione della propria tesi. Questo non è giusto perché, mentre avviene la discussione dei docenti che valutano il suo lavoro trovandone eventuali limiti, spropositi, carenze, il laureando, non ammesso alla discussione, non può giustificare e spiegare il proprio operato. Eppure nessun tribunale emette sentenze senza ascoltare l’interessato. Ma non c’è solo il pericolo che i tre o più docenti giudichino severamente l’elaborato dello studente, senza che il candidato possa giustificare il proprio prodotto, ma c’è anche l’ipotesi opposta: facciamo l’avvocato del diavolo e, visto il mercato dei cosiddetti centri culturali privati che “aiutano” (dietro consistente pagamento) il laureando nel lavoro di tesi, immaginiamo di trovarci davanti ad una tesi ottima, di altissimo livello. I docenti della commissione vogliono verificare se quel lavoro è farina “del sacco” dello studente. Ma costui, non essendo presente “per legge”, non può dimostrare di non essere stato sostituito, nella stesura del lavoro, da altri soggetti. Insomma, ci troviamo con una prassi che va al di là delle norme costituzionali che garantiscono al massimo i diritti del cittadino. Eppure queste storture nascono da una legge dello Stato italiano. Non è colpa né dello studente né delle Università, ma di governanti che si son sentiti chiamati, in maniera prioritaria, a far quadrare l’equilibrio tra partiti e correnti. E il paese, e i cittadini? Ognuno dia una risposta.
[“Il Galatino”, gennaio-luglio 2014]