di Antonio Lucio Giannone
Che rapporto c’è tra lo sviluppo urbanistico di una città e la vita culturale che si svolge all’interno delle sue mura? Probabilmente nessuno, eppure l’impetuosa crescita edilizia che si verifica a Lecce con la costruzione di interi quartieri, tra la metà degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta del secolo scorso, descritta nelle pagine di questo libro, coincide con un periodo di assoluta eccellenza della cultura cittadina. Lecce diventa ora una vera e propria cittadella delle lettere e delle arti, tra le più vivaci in campo nazionale, animata da una fervida, incessante attività: escono le opere, in versi e in prosa, dei maggiori scrittori salentini del Novecento; vengono fondate riviste di notevole rilievo nel panorama letterario del tempo; nascono periodici di vario genere e settimanali d’informazione; si tengono importanti manifestazioni con la partecipazione di personalità di primo piano della cultura italiana; si allestiscono mostre d’arte a ritmo continuo nelle gallerie cittadine. A questo straordinario fervore di iniziative contribuirono innanzitutto gli intellettuali locali, in rapporto con i centri più avanzati della nazione, ma anche le amministrazioni del territorio, in particolare quella provinciale, che misero in atto un’efficace politica culturale.
Il principale protagonista di questa “stagione d’oro” della cultura leccese è stato senza dubbio Vittorio Bodini, il maggiore scrittore salentino del Novecento, di livello nazionale e respiro europeo, che ha animato la vita culturale cittadina per almeno tre decenni, a partire dalla giovanile esperienza futurista dei primi anni Trenta. Bodini vive adesso il periodo più intenso e significativo della sua attività letteraria, diventando anche il punto di riferimento per altri letterati e artisti operanti nel Salento. Nel 1952 pubblica, nelle Edizioni della Meridiana di Milano, il suo primo libro poetico, La luna dei Borboni, in cui balza in primo piano, già dai versi iniziali, il tema del Sud, associato a una condizione esistenziale: «Tu non conosci il Sud, le case di calce / da cui uscivamo al sole come numeri / dalla faccia d’un dado». Ma lo stesso anno vede la luce, presso l’editore Einaudi, la sua prima importante traduzione, il Teatro di Federico García Lorca. Nel 1954 fonda una rivista letteraria, “L’esperienza poetica”, che va avanti fino al 1956, in cui propone una “terza via” alla poesia italiana, a metà strada tra postermetismo e neorealismo. Nel 1956 pubblica, ancora, presso le Edizioni di Salvatore Sciascia di Caltanissetta, in una collana curata da Leonardo Sciascia, il suo secondo libro poetico, Dopo la luna, e l’anno dopo, infine, la fondamentale traduzione del Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes, sempre con Einaudi, del quale era diventato ormai l’ispanista ufficiale.
Nato a Bari nel 1914, ma di famiglia e di origine leccese, Bodini era ritornato nella “sua” città nell’aprile del 1949, dopo una lunga permanenza in terra di Spagna, dove con la guida ideale di Lorca si era immerso nella realtà profonda di quella nazione alla ricerca del suo “spirito nascosto”, scoprendo le numerose affinità che la legano al Sud d’Italia. Una volta rientrato a Lecce, si dedica all’appassionata esplorazione della propria terra andando alla ricerca anche stavolta, come aveva fatto in Spagna, delle più autentiche radici di essa, della sua identità, attraverso l’individuazione di alcune costanti storiche, artistiche, antropologiche che l’hanno caratterizzata nel corso dei secoli. In tal modo “riscopre” anche la sua città, con la quale aveva avuto sempre un rapporto complesso, difficile, contraddittorio, caratterizzato da un’ambivalenza di sentimenti opposti: odio-amore, desiderio di fuga-periodici ritorni («Qui non vorrei morire dove vivere / mi tocca, mio paese, / così sgradito da doverti amare», scriverà in una poesia della Luna dei Borboni). In questi anni, anzi, la mette al centro della sua opera e della sua immaginazione, facendola entrare di diritto con la sua originalissima interpretazione nella “geografia” letteraria del Novecento italiano.
Per comprendere l’interpretazione bodiniana di Lecce, è fondamentale una prosa del 1950, intitolata Barocco del Sud, in cui egli incomincia a costruire l’immagine della città barocca «vedova del suo tempo» (cioè del Seicento), «condizione dell’anima» più che «luogo della geografia», dove s’arriva solo casualmente «scivolando per una botola ignorata della coscienza». Ma per Bodini il barocco, che caratterizza le facciate delle chiese e dei palazzi leccesi, non è solo uno stile architettonico e artistico, storicamente determinato e limitato appunto al secolo XVII, ma, sulla scia del saggista spagnolo Eugenio d’Ors, è inteso come categoria che si oppone al “classico” e trascende quindi il tempo e anche il mondo delle arti. Non a caso esso si estende dalle arti e dall’architettura all’artigianato, al paesaggio (il barocco “naturale”) nonché all’anima stessa degli abitanti di Lecce. Il barocco leccese arriva a diventare quindi per Bodini una condizione dello spirito in cui si riflette un disperato senso del vuoto (l’horror vacui), che si cerca di colmare con l’esteriorità, l’ostentazione, l’oltranza decorativa.
Ed è ancora la sua città che gli ispira alcune delle poesie più alte di questo periodo. Nella lirica intitolata Lecce, ad esempio, compresa in Dopo la luna, egli la interpreta proprio attraverso la chiave di lettura del barocco, inteso però nel senso che si è cercato di chiarire poc’anzi:
Biancamente dorato
è il cielo dove
sui cornicioni corrono
angeli dalle dolci mammelle,
guerrieri saraceni e asini dotti
con le ricche gorgiere.
Un frenetico gioco
dell’anima che ha paura
del tempo,
moltiplica figure,
si difende
da un cielo troppo chiaro.
Un’aria d’oro
mite e senza fretta
s’intrattiene in quel regno
d’ingranaggi inservibili fra cui
il seme della noia
schiude i suoi fiori arcignamente arguti
e come per scommessa
un carnevale di pietra
simula in mille guise l’infinito.
Altre poesie ispirate alla sua città sono Col tramonto su una spalla, sempre in Dopo la luna («Questa è la mia città / le mura le avete viste: / sono grige, grige. / Di lassù cantavano / gli angeli nel Seicento, / tenendo lontana la peste / che infuriava sul Reame.»), e la straordinaria Via De Angelis, compresa invece in La luna dei Borboni e altre poesie, apparsa presso Mondadori nel 1962, dove c’è un sentimento di completa immedesimazione con gli abitanti e con l’anima stessa di una strada, la «via / senza eguali», dove Bodini ha abitato per alcuni anni proprio dopo il suo ritorno dalla Spagna, nella suppinna della casa di famiglia:
Questa strada sbilenca, traballante
fu dunque la mia pelle,
pietre e lastrici umani
di cui m’entrò nel sangue
l’odore e la gaia tristezza […].
Mi guidavi lo sguardo per ogni porta,
per ogni vita altrui:
ho abitato
in ogni numero civico della via
con tutti
con le rondini
coi vecchi che muoiono all’alba
in una verde luce d’acquario
con quelli che sloggiano
portandosi coi mobili del carretto
i vetri della finestra
e l’albero di limone del cortile.
Insomma in questi anni c’è in lui una profonda comprensione della sua città, anche se lo scrittore non rinuncia mai all’ironia, presente soprattutto in alcuni racconti di questi anni come innanzitutto nel Sei Dita (1955), che si può definire la vera summa della leccesità di Bodini, dove protagonista alla pari dei personaggi diventa Lecce, la città amata-odiata, «sola e incomunicata – scrive – su un orizzonte così uniforme che scoraggia la vista; e le pietre e gli alberi e temo anche i pensieri degli uomini ne vengono irrimediabilmente appiattiti». E a Lecce sono ambientati ancora alcuni degli ultimi racconti che egli scrisse, come Il giro delle mura (1961), dove c’è una gustosa rievocazione della città fin de siécle e delle passeggiate dei leccesi di quel tempo («Attraversava il Corso, le Spezierie, la piazza principale, ma soprattutto i Villini. I Villini sono dei lunghi viali che costeggiano su due fianchi le mura della città») e Il duello del contino Danilo, composto nel 1970, l’ultimo anno di vita, il suo racconto più astratto e metafisico, ancora una volta ambientato a Lecce, dove l’horror vacui del protagonista, alter ego dell’autore, si riflette nel «vuoto regno di polvere, di scogli e di pietre» dell’arida campagna circostante.
Ma Bodini, in questi anni, oltre a pubblicare i suoi libri di poesia e le traduzioni, dà anche un importante contributo di idee e di proposte in campo letterario all’intera nazione, fondando e dirigendo nel capoluogo salentino, come s’è detto, “L’esperienza poetica”, stampata a Bari dall’editore Cressati. Questa rivista, della quale il redattore era Luciano De Rosa, era un trimestrale «di poesia e di critica», del quale uscirono in tutto undici numeri, dal gennaio-marzo 1954 al gennaio-settembre 1956, per complessivi sei fascicoli. Lo scopo principale, come scrisse Bodini nell’editoriale premesso al secondo numero, dal titolo Non è una poesia da serra (aprile-giugno 1954), era quello di documentare la «tendenza di rinnovamento» in atto nella poesia italiana, nella convinzione che essa non fosse morta nel 1945, con la fine della guerra, né che si riducesse a quella neorealista, come sosteneva certa critica, ma che fosse solo differente da quella “pura”, “assoluta”, “intemporale” dell’anteguerra. E la sua rivista voleva mostrare per l’appunto «questo sforzo transitivo della poesia sugli oggetti e passioni del mondo, ma a patto che gli uni e gli altri si accendano di una significazione fantastica».
Il che voleva dire, secondo Bodini, che era necessario per i poeti uscire fuori dalla «prigione di parole» in cui si erano rinchiusi gli ermetici e confrontarsi invece col reale, con la società, con il tempo, senza peraltro rinunciare allo scatto inventivo, alla fantasia, all’immaginazione, proprio come aveva tentato di fare lui stesso con La luna dei Borboni. Non a caso, le polemiche principali furono condotte, da un lato, nei confronti del postermetismo e, dall’altro, del neorealismo marxista, del quale si rifiutava il grezzo contenutismo e l’esplicita compromissione con la politica. Uno dei meriti principali della rivista è stato quello di aver dato fiducia a giovani poeti provenienti da vari centri italiani, affermatisi in seguito tra i migliori della loro generazione. All’“Esperienza poetica” collaborarono infatti, tra gli altri, Luciano Erba, Paolo Volponi, Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto e Margherita Guidacci. Sul primo numero figurano anche alcune poesie del lucano Rocco Scotellaro, morto improvvisamente qualche mese prima. Ma, accanto ad essi, sulle pagine della rivista bodiniana si incontrano anche nomi di poeti della generazione precedente come Giorgio Caproni e Leonardo Sinisgalli, Libero De Libero e Raffaele Carrieri. Anche il dibattito critico fu molto vivace, con contributi di notevole interesse.
“L’esperienza poetica” di Bodini, d’altra parte, in quegli anni, non era l’unica rivista letteraria di livello nazionale esistente nel Salento. Nel 1949 il poeta Girolamo Comi aveva fondato, in quel di Lucugnano, il paese dove risiedeva dopo il rientro definitivo da Roma, la rivista “L’Albero”, la cui prima serie andò avanti fino al 1966. Fino al 1954 la rivista era il bollettino dell’Accademia salentina, fondata da Comi nel 1948, della quale facevano parte letterati e artisti come Oreste Macrì, Luciano Anceschi, Rosario Assunto, Maria Corti, Vincenzo Ciardo, Mario Marti Michele Pierri, Luigi Corvaglia, Enrico Falqui, Ferruccio Ferrazzi, Giuseppe Macrì. “L’Albero” andò decisamente controcorrente, preferendo occuparsi nei suoi primi anni di vita, in piena stagione neorealista, di problemi esistenziali e latamente religiosi, oltre che letterari e artistici, piuttosto che di quelli politico-sociali com’era consuetudine dei periodici del tempo. Anche in seguito la rivista continuò ad essere sempre avulsa dai problemi concreti della realtà del tempo, anche se Comi, in una rubrica dal titolo Diario per “L’Albero”, rifletté spesso sul rapporto tra letteratura e società, sul marxismo, sul fascismo e l’antifascismo.
Nelle Edizioni dell’“Albero”, intanto, nel 1954, viene pubblicata la raccolta Spirito d’Armonia, una scelta della produzione poetica comiana dal 1912 al 1952, nella quale è possibile distinguere varie fasi: la prima, di tipo panico-sensuale, un’altra in cui la sua visione cosmica sembra umanizzarsi e l’ultima in cui emerge una concezione cattolica della vita. Nel 1956 esce invece la prima edizione di Canto per Eva, la cui edizione definitiva appare nel 1958, dove, attraverso la figura di Eva che rappresenta l’archetipo della donna, emerge il motivo ispiratore dell’opera che è l’amore. Nel 1966 appare infine l’estrema raccolta poetica di Comi, Fra lacrime e preghiere, in cui l’espressione poetica diventa ormai una forma di preghiera.
“L’Albero” venne ripreso nel 1970, dopo la morte di Comi, da Oreste Macrì e Donato Valli e andò avanti fino al 1985 con l’obiettivo di continuare, oltre che la prima serie, anche la migliore tradizione letteraria salentina, ristabilendo un rapporto privilegiato con Firenze. Ma con la seconda serie dell’“Albero” siamo fuori dai confini temporali di questo saggio.
Per tornare ora agli anni Cinquanta, invece, nel 1955 Francesco Lala fonda a Lecce un’altra rivista letteraria, “Il Campo”, che va avanti fino al 1964. Nettamente orientata a sinistra, la rivista, della quale dal n. 5 divennero direttori anche Giovanni Bernardini e Nicola Carducci, si caratterizza per l’impostazione neorealista e meridionalista e il forte impegno civile dei suoi collaboratori. Non a caso Lala, nell’editoriale premesso al primo numero, si richiamava all’appello di Vittorini per una “nuova cultura” apparso sul “Politecnico” e, in maniera più esplicita, a Quasimodo, che nel dopoguerra aveva rifiutato i preziosi moduli ermetici della sua prima stagione poetica e si era aperto alla storia, alla società e finanche alla cronaca di quegli anni. La prosa prevaleva sulla poesia e della prosa erano privilegiati alcuni generi come l’inchiesta, il reportage, il racconto-saggio. I collaboratori erano, in massima parte pugliesi e salentini (tra questi, oltre ai direttori, Tommaso Fiore, Nino Palumbo, Vito Amoruso, Michele Tondo, Aldo De Jaco, Raffaele Imperato, Enzo Panareo), ma non mancano nemmeno scrittori provenienti da altre regioni d’Italia, come Vasco Pratolini, Mario La Cava, Giuseppe Dessì, Alfonso Gatto, Dante Troisi). Dal primo numero del 1960 entrano nella direzione Michele Maddalo e Giovanni Leo, i quali imprimono alla rivista una svolta in senso fortemente ideologico e marxista, dando vita a numerose polemiche anticlericali.
Sulle pagine del “Campo” spiccano i coraggiosi reportage e le inchieste di Giovanni Bernardini sulla realtà socio-ambientale del territorio, che valsero al suo autore il Premio “Salento” per il giornalismo nel 1957. In questi scritti c’è soprattutto il bisogno di far conoscere situazioni di miseria e di degrado o problemi sociali gravi come quello dello sfruttamento del lavoro, secondo una concezione della letteratura come testimonianza, come impegno civile.
Nel 1956, accanto all’ “Esperienza poetica” di Bodini e al “Campo” di Lala, Carducci e Bernardini, si aggiunse un’altra rivista letteraria, “Il Critone”, che in realtà nasce come organo della Sezione distrettuale dell’Association internazionale de droit pénal. Il primo numero vide la luce a Lecce nell’aprile di quell’anno sotto la direzione dell’avv. Tommaso Santoro e la condirezione responsabile di Cesare Massa. Dal giugno di quell’anno però nacque un supplemento letterario affidato a Vittorio Pagano, che ristabilisce quell’asse privilegiato tra Lecce e Firenze, nato ai tempi della “terza pagina” del settimanale leccese “Vedetta Mediterranea”, redatta da Bodini e Macrì nel 1941e dà al supplemento una chiara impronta postermetica, anche se non mancano presenze di tipo diverso. Pagano invita alla collaborazione i maggiori rappresentanti dell’ambiente letterario fiorentino, da Mario Luzi a Carlo Betocchi, da Romano Bilenchi a Piero Bigongiari a Alessandro Parronchi, ma anche esponenti più giovani aperti allo sperimentalismo poetico, come Sergio Salvi e Lamberto Pignotti, oltre che Alfonso Gatto, Libero De Libero, Giorgio Caproni, Leonardo Sinisgalli. Tra i collaboratori salentini figurano invece Luciano De Rosa, Giovanni Bernardini, il giovane poeta Ercole Ugo D’Andrea e Rina Durante che dal 1961 è nominata segretaria di redazione.
La rivista, che continuò fino al 1966, venne affiancata da una collana, i Quaderni del “Critone”, di cui apparvero in tutto diciassette titoli dal 1958 al 1967. Si trattava di graziosi volumetti in ventiquattresimo con una illustrazione in copertina del pittore leccese Lino Suppressa, tirati in poche centinaia di esemplari numerati. Gli autori sono alcuni dei collaboratori del “Critone”, oltre allo stesso Pagano che pubblica numerose traduzioni dai prediletti poeti francesi. In quest’ambito, due sono stati i momenti da lui privilegiati: il Medioevo, con la Chanson de Roland e Francois Villon in primo luogo, e l’Ottocento, con i grandi poeti simbolisti, da Nerval a Baudelaire, da Verlaine a Rimbaud, da Corbière a Mallarmé a Rollinat, tutti presenti nell’Antologia dei poeti maledetti apparsa nelle Edizioni dell’”Albero” nel 1957. Le sue sono versioni metriche, più libere e originali ma meno fedeli rispetto a quelle di altri traduttori. Egli infatti cerca di ricreare in un altra lingua lo spirito dei testi tradotti, a volte a scapito anche della fedeltà al testo. Pagano, in questi anni, pubblica anche le sue raccolte poetiche, tra le quali, nel 1960, I privilegi del povero (1939-1959), quattro volumetti in cui raccolse la maggior parte della sua produzione fino a quel momento, restando fedele, fino alla fine, al simbolismo e all’ermetismo, poetica nella quale si era formato.
Tra gli scrittori che operano a Lecce negli anni Cinquanta meritano di essere citati ancora Luciano De Rosa e Fernando Manno. Il primo, di origine calabrese, è stato poeta, prosatore e critico. Collaboratore della “terza pagina” della “Gazzetta del Mezzogiorno”, ma anche di riviste letterarie, come “Letteratura”, “Il Critone, “L’Albero”, non ha mai raccolto in volume i suoi scritti. Il secondo, con il libro Secoli tra gli ulivi (1958), ha scavato a fondo nell’identità salentina, andando alla ricerca dei suoi tratti essenziali.
Accanto agli scrittori, operano a Lecce negli anni Cinquanta-Sessanta numerosi artisti di buon livello che stabiliscono spesso sodalizi fecondi e duraturi con i primi, svecchiando forme e tematiche provinciali anche nella pittura e nella scultura. Le rassegne d’arte ora si moltiplicano e trasformano la città barocca in una «piccola Montmartre», come venne definita da Gustavo d’Arpe (Fra mostre e circoli di Lecce. Alla piccola Montmartre “fauves” e post-impressionisti, in “La Gazzetta del Mezzogiorno”, 10 gennaio 1956). Scomparsi, nel 1950, Geremia Re, il pittore che era stato il maestro di un’intera generazione, e, nel 1954, Michele Massari, si affermano ora, tra gli altri, Lino Suppressa, Nino Della Notte, Aldo Calò, Luigi Gabrieli, Antonio D’Andrea, i quali si distinguono nelle maggiori manifestazioni regionali d’arte, come il Premio Taranto e il “Maggio di Bari”, dove ottengono spesso importanti riconoscimenti. Essi, come ebbe a scrivere Pagano in un articolo (I pittori leccesi in rassegna a Bari, in “Paese Sera”, 8 giugno 1952), si tenevano tutti fedeli con le loro opere, «al colore ed al senso della nostra terra, al calore ed al fremito della nostra anima». Tra questi, il cantore più appassionato di Lecce è stato Lino Suppressa, che esplora affettuosamente la sua città, penetrando nei luoghi caratteristici, come interni di case, sartorie, osterie (le putee) o rappresentandone incantevoli scorci, come certe piazzette o le innumerevoli chiese.
Altri artisti leccesi e salentini di spicco vivevano e operavano in quel periodo in altre città italiane anche se costanti erano i contatti con l’ambiente locale, tanto è vero che erano frequenti le loro presenze a Lecce in occasione di mostre, personali o collettive: da Vincenzo Ciardo a Gaetano Martinez, da Temistocle De Vitis a Mino Delle Site, da Pippi Starace a Cosimo Sponziello, da Roberto Manni a Fernando Troso. Da segnalare, negli anni Cinquanta, l’intensa attività di Delle Site nel campo della cartellonistica turistica che lo portò a realizzare anche manifesti dedicati alla Puglia, al Salento e a Lecce.
Ma in questo periodo, come s’è detto, anche le amministrazioni locali mettono in atto, forse per la prima volta, una politica culturale degna di questo nome. Nel 1952 hanno inizio le Celebrazioni salentine, un’imponente serie di manifestazioni (conferenze, concerti, mostre, rappresentazioni teatrali, ecc.) alle quali presero parte esponenti di primo piano della cultura nazionale. Promosse dall’Amministrazione provinciale di Terra d’Otranto e ideate da Teodoro Pellegrino, direttore generale delle manifestazioni nonché direttore della Biblioteca provinciale “N. Bernardini” di Lecce, le “Celebrazioni”, che andarono avanti fino al 1957, vennero aspramente criticate proprio dall’intellighenzia locale, che non si ritenne coinvolta nell’organizzazione, come sostiene Bodini in uno scritto del 1953, dal titolo Lecce alla scoperta della cultura (in I fiori e le spade, Scritti civili (1931-1968), a cura di Fabio Grassi Lecce, Milella, 1984). Esse però ebbero il merito di promuovere l’istituzione dell’Università degli studi, la quale in effetti prese il via nel 1956 con i corsi della Facoltà di Magistero ai quali seguirono, l’anno dopo, quelli della Facoltà di Lettere e filosofia. La statizzazione avvenne infine nel 1967, allorché si aggiunse la Facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali. Nel 1961 nasce ancora, nel capoluogo salentino, l’Accademia di Belle Arti e, qualche anno dopo, nel 1970, il Conservatorio musicale “Tito Schipa”, con cui la città si arricchisce di altre prestigiose istituzioni culturali, confermando la sua naturale predisposizione all’arte e alla creatività.
Collegato alle “Celebrazioni” è stato anche il più importante premio letterario mai sorto a Lecce, il Premio Salento, la cui prima edizione si svolse nel 1953 e che andò avanti fino al 1964 (con una interruzione di tre anni, dal 1961 al 1963). Articolato in varie sezioni (narrativa, poesia, giornalismo, tesi di laurea, opere dedicate al tema dell’industrializzazione nel Salento), il Premio poteva vantare nella Giuria illustri personalità della cultura italiana (tra questi citiamo Maria e Goffredo Bellonci, Bonaventura Tecchi, Giovambattista Angioletti, Carlo Bo, Girolamo Comi, Michele Saponaro, Mario Sansone), mentre tra i premiati figurano alcuni degli esponenti più noti della letteratura italiana del Novecento: da Carlo Bernari a Giuseppe Dessì, da Domenico Rea a Elio Vittorini, da Ignazio Silone a Carlo Cassola a Italo Calvino. Riconoscimenti vennero dati anche a giovani scrittori salentini, come Aldo De Jaco, per l’opera prima nel 1954, Giovanni Bernardini per il giornalismo nel ’57, Gustavo d’Arpe per il giornalismo nel ’58, Rina Durante per la narrativa nel 1964. Inoltre furono premiati anche promettenti studiosi, futuri docenti universitari, come Carlo Prato, Mario D’Elia e Oronzo Parlangeli.
Queste manifestazioni culturali attirano a Lecce e nel Salento numerosi scrittori e intellettuali che hanno lasciato preziose testimonianze nelle loro opere sui luoghi visitati: da Guido Piovene a Cesare Brandi, da Franco Antonicelli a Italo Calvino, da Mario La Cava a Elio Filippo Accrocca.
Ma bisogna menzionare ancora altri avvenimenti che dimostrano questa vivacità del capoluogo salentino in campo culturale negli anni Cinquanta. Nel 1953 nasce a Lecce la casa editrice Milella, che all’inizio pubblica solo testi scolastici ma successivamente avrà in catalogo collane di saggistica di prim’ordine, quale la “Collezione di Studi e Testi”, diretta da Mario Marti e Aldo Vallone, iniziata nel 1966, legandosi sempre più strettamente all’Università. Sempre nel 1953 sorge il Centro di Studi salentini, fondato dallo storico Pier Fausto Palumbo, che dal 1956 pubblicherà la rivista “Studi salentini” nonché la collezione di “Scrittori salentini”.
Nel 1955 si forma, ancora, il “Circolo di cultura”, di cui è nominato presidente Girolamo Comi e vicepresidente Vittorio Bodini. Il “Circolo” organizzò varie mostre d’arte e di fotografia fra le quali si segnalano quelle dello scultore e disegnatore Francesco Barbieri, che allora viveva in città, tenute entrambe quello stesso anno presso la galleria del Sedile: la mostra fotografica “Bella Lecce”, realizzata insieme al fotografo Salvatore Starace, e quella dei “Disegni leccesi”, presentata nel cataloghetto proprio da Bodini, cugino dell’artista.
Sempre quell’anno venne installata, sulla facciata della filiale cittadina della Banca Commerciale, in piazza Sant’Oronzo, un’opera di Barbieri, il magnifico Orologio in bronzo, che venne definito da Orio Vergani «l’orologio più grande del mondo» (in “Corriere d’Informazione”, 3-4 febbraio 1955) e al quale il 6 febbraio 1955 “La Domenica del Corriere” dedicò una copertina. L’Orologio, lungo m. 9,20, con un diametro di 2,40 e del peso di venticinque quintali, venne inaugurato il 6 agosto 1955 con un memorabile Discorso, pubblicato per l’occasione in un opuscolo, del leggendario Sindaco dell’epoca, l’avvocato Oronzo Massari
Anche la stampa periodica si sviluppa a Lecce in questo decennio. Nel 1954 Ernesto Alvino fonda e dirige il settimanale “Voce del Sud”, nettamente schierato a destra ma aperto anche a collaboratori di diverso orientamento. Sulle pagine di questo periodico, tra febbraio e aprile del 1956, si svolse un vivace dibattito, aperto da Fernando Manno, tra i collaboratori più assidui del giornale, sul termine dialettale ppòppetu, che per Bodini, uno degli intervenuti, rappresentava una «chiave dell’anima e del costume salentino». Nel 1959 nasce invece “La Tribuna del Salento”, fondata e diretta da Ennio Bonea, in cui ha un particolare rilievo la “terza pagina” culturale, spesso ricca di interessanti contributi. Negli anni Sessanta si assisterà ancora alla nascita di altre testate, legate o vicini a partiti politici o associazioni, quali “Il Popolo del Salento”, quindicinale della Democrazia Cristiana salentina (1964), “L’Ora del Salento”, organo ufficiale dei cattolici leccesi (1968), “Salento domani” , portavoce della Federazione locale del Partito comunista italiano (1968).
Sul versante dell’erudizione locale più che della cultura militante si colloca invece “La Zagaglia”, trimestrale di scienze, lettere e arti (Notiziario del Gruppo speleologico salentino), fondata da Mario Moscardino nel 1959, che andrà avanti fino al 1975. La rivista, che voleva essere una «sintesi programmata del sapere meridionale e salentino in particolare», si occupò di svariati argomenti legati al territorio (storia, archeologia, economia, arte, folclore, letteratura, filosofia, musica, ecc.). Ad essa collaborarono i più noti studiosi di storia patria, tra i quali ricordiamo Nicola Vacca, che ventisei anni prima aveva fondato e diretto “Rinascenza salentina” (1933-1943), Michele Paone, Mario Bernardini e Teodoro Pellegrino. Un carattere più specialistico ha invece “Studi linguistici salentini”, fondata nel 1965 da uno studioso di notevole valore, morto prematuramente, Oronzo Parlangeli, che nel 1962 aveva dato vita all’Associazione linguistica salentina.
Intanto, nei primi anni Sessanta, in campo letterario, si fanno conoscere alcuni narratori che, con i loro romanzi, spesso apparsi presso editori nazionali, tentano strade diverse rispetto al neorealismo da cui pure erano partiti, giungendo, in qualche caso, a una forma di moderato sperimentalismo. È il caso di Salvatore Paolo con Il canale (Milano, Nuova Accademia, 1962), di Salvatore Bruno con L’allenatore (Firenze, Vallecchi, 1963) e di Rina Durante con La malapianta (Milano, Rizzoli, 1964). Al 1969 risale invece Provincia difficiledi Giovanni Bernardini (Bari, Adda, 1969). Fuori dal Salento vivevano due scrittori-giornalisti che si erano fatti conoscere da qualche anno, come il leccese Gino De Sanctis, che aveva esordito già negli anni Trenta e il magliese Aldo De Jaco, che nel 1954 aveva pubblicato il suo primo libro, Le domeniche di Napoli, nella collana “I gettoni” dell’editore Einaudi diretta da Elio Vittorini.
In un ambito più circoscritto rimane, invece, in questi anni, la poesia in vernacolo che non raggiunge risultati particolarmente apprezzabili, non andando quasi mai al di là del bozzetto e della parodia. I numerosi cultori del genere trovano una sede adatta per le loro composizioni sui giornali umoristici come “Festa noscia”, il numero unico che appare puntualmente in occasione delle feste patronali di Sant’Oronzo, Giusto e Fortunato. Nel teatro dialettale invece ottiene un certo successo di pubblico Raffaele Protopapa con le sue commedie ispirate a scene di vita popolare, rappresentate con bonario umorismo.
Verso la metà degli anni Sessanta la situazione in campo culturale incomincia gradualmente a modificarsi anche a Lecce. Le tre riviste letterarie “militanti” ancora in vita, “Il Campo”, “Il Critone”, “L’Albero” , terminano le pubblicazione: la prima nel 1964 e le altre due nel 1966. Vittorio Bodini, che già nel 1960 si era trasferito a Roma, pubblica in questo decennio le ultime raccolte poetiche: La luna dei Borboni e altre poesie, che esce nella prestigiosa collana dello “Specchio” di Mondadori (1962) e Metamor, che vede la luce nelle Edizioni “All’Insegna del Pesce d’Oro” di Vanni Scheiwiller (1967). Nel 1963 esce ancora, sempre con Einaudi, un’altra importante opera nel campo della saggistica e della traduzione, il volume I poeti surrealisti spagnoli.
Un avvenimento quasi emblematico di questo cambiamento è rappresentato dalla morte, avvenuta a New York il 16 dicembre 1965, del tenore Tito Schipa, il “Grande Usignolo” di Lecce, i cui funerali si celebrarono presso la Basilica di Santa Croce il 3 gennaio 1966 con la partecipazione di una grande folla commossa.
Sulla spinta del Sessantotto e della ventata rivoluzionaria da esso portata, nascono ora gruppi e gruppetti d’avanguardia in vari campi, che scelgono tutti la strada della ricerca e della sperimentazione. Un precursore di queste tendenze si può considerare il Prismagruppo, formato da Toti Carpentieri, Giovanni Corallo, Salvatore Fanciano e Bruno Leo, che tenne la prima mostra alla galleria Maccagnani nel 1965. Proprio nel 1968 nascono invece: il Laboratorio di poesia di Novoli di Enzo Miglietta, che si farà promotore della “poesia visiva”; il Centro ricerche estetiche di Novoli con Sandro Greco e Corrado Lorenzo, i quali operano all’inizio nel settore della land art; il gruppo teatrale Oistros, che si collega col salentino Eugenio Barba, uno dei padri fondatori dell’avanguardia teatrale; il Canzoniere grecanico salentino, animato dalla scrittrice Rina Durante.
Negli anni Sessanta emerge anche una nuova generazione di artisti che seguono le tendenze più avanzate del tempo: dall’arte programmata a quella concettuale, dall’arte comportamentale alla nuova figurazione. Tra questi, si segnalano Salvatore Spedicato, Natalino Tondo, Francesco Saverio Dodaro, Franco Gelli, Cosimo Damiano Tondo, che continueranno la loro attività anche nei decenni successivi. Alcuni di essi, come Ercole Pignatelli, Fernando De Filippi, Tonino Caputo e Armando Marrocco scelgono di trasferirsi fuori dalla propria regione dove si affermeranno in campo nazionale. Una singolare figura di artista bohémien, molto noto negli ambienti cittadini più per le sue stravaganze che per la sua arte, è invece Edoardo De Candia.
Sul finire degli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta si fa conoscere, in campo nazionale, con i suoi rivoluzionari spettacoli rappresentati nei teatrini off della capitale, il più geniale innovatore della scena italiana del Novecento, Carmelo Bene, autore anche di opere letterarie ispirate alla storia e alle tradizioni salentine, come il “romanzo” Nostra Signora dei Turchi (1966) e il soggetto-trattamento cinematografico A boccaperta (1976), dedicato alla figura di S. Giuseppe da Copertino.
Ma ormai, mentre la città sta cambiando volto e nei nuovi quartieri i “grattacieli” prendono il posto dei palazzetti barocchi del centro storico, escono di scena a uno a uno, sul finire degli anni Sessanta, i maggiori esponenti della cultura leccese e salentina del Novecento. Nel 1968 muore Girolamo Comi, mentre nel 1970 si spengono Vincenzo Ciardo e Vittorio Bodini. Con la scomparsa di quest’ultimo, avvenuta a Roma il 19 dicembre di quell’anno, tramonta definitivamente quella stagione irripetibile che avevano vissuto le arti e le lettere leccesi tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta.
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