Antonio Prete narratore

di Gianluca Virgilio

…in ogni istante io sogno sulle cose, 
immagino oggetti o persone la cui presenza qui 
non è incompatibile con il contesto e che tuttavia 
non si mescolano al mondo, ma sono oltre il mondo, 
sul teatro dell’immaginario.

Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Premessa.

La data di nascita di Antonio Prete narratore può essere fissata nell’anno 1984 quando per le Edizioni di Barbablù di Siena l’autore pubblica in 400 copie numerate Chirografie. Variazioni per Mallarmé. Si tratta di una breve composizione in prosa spesso intercalata da citazioni francesi tratte da Crise de vers di Mallarmé, nelle quali è possibile individuare i primi segni del complesso mondo poetico dello scrittore: la memoria, il dialogo con i poeti, la lingua della poesia, la meditazione mai disgiunta dallo sguardo sull’Altro. 
“Dietro il vetro della memoria…” (p. 7) il narratore rivede il paese natale, luogo dell’origine e meta continua della rammemorazione. Ma queste Chirografie, cioè letteralmente parole scritte con le mani, non a caso sono dedicate a un poeta, Mallarmé: “… i nomi dei poeti lampeggiano sul cielo d’un ragionare meditativo e conversevole” (p. 8), afferma Prete, quasi riassumendo in poche parole il suo stesso modo di scrivere, disteso e pensoso, che, attraverso la mediazione dei poeti, cerca l’approdo ad una verità non facilmente raggiungibile: “… allineare versi è guardare l’abisso” (p. 10): si affaccia qui, per la prima volta, il tema dello sguardo rivolto verso l’abisso, ovvero verso ciò che ci rimane sconosciuto, l’Altro, a cui sempre tendiamo senza mai essere sicuri di poterlo raggiungere. Lo sguardo dello scrittore verso l’abisso è paragonato all’allinear versi, in una coincidenza tra visione e verso, tra vedere e poetare che diventerà elemento caratterizzante di tutta l’opera narrativa di Prete: “pensare è poetare” (p. 11). Non si può non citare, a questo proposito Il pensiero poetante (Feltrinelli, 1980), nel quale il pensiero di Leopardi, a partire dallo Zibaldone, veniva letto alla luce di questa equazione; poiché è evidente che è lì, in Leopardi, la matrice vera, la genesi vera del mondo poetico di Prete narratore.

“Interrogavo, ragazzo, i silenzi che da Mallarmé s’allargavano fino a Ungaretti…” (p. 14); e io penso a come sia unita in un sol nodo la rammemorazione di una giovinezza ormai lontana e la lettura dei poeti avviata già allora, sia pure in traduzione, e questa lettura con l’interrogazione dei poeti, e l’interrogazione dei poeti con la meditazione sul paesaggio: “Interrogare i poeti: salire, in sogno, su un tetto da cui il paesaggio di parole appare consumarsi nell’infinito e il sogno stesso, trasformatosi in parola critica, permane come assenza, come amarezza d’un inatteso risveglio.

La poesia è quel che si perde quando si pronuncia una parola” (p. 17). Una bella differenza tra poesia e parola, poiché la prima costituisce un rifugio per la seconda, mentre la questa costituisce la negazione della prima, il suo impoverimento e svilimento: “Nel verso la parola si rifugia, sfuggita al mercato del senso, del buon senso. Dal nuovo avamposto guarda le distese dei significati che la comunicazione manipola, contratta, svende. Come ha potuto vivere finora senza il fremito dell’impossibile?” (p. 18). La questione della lingua poetica trova qui la sua prima decisa trattazione: “Nel verso, come in un cristallo, l’iridescenza della lingua pura, della vichiana prima lingua, della lingua favolosa d’Atlantide, della lingua che ha il ritmo della baudelairiana “vie antérieure”.

Le lingue, private del canto, s’affollano confuse nella babele dei significati.” (p. 19). La lingua poetica cerca un’approssimazione alla prima lingua vichiana, la lingua della fantasia e dell’entusiasmo, che oggi appare spenta a causa della sua mercificazione. Ecco perché la lingua poetica è una sorta di compensazione della prosaicità della lingua: “Col canto le lingue sono compensate della loro confusa diaspora…” (p. 19). E come la lingua poetica ci riporta alla Lingua, così “I silenzi e la musica dei libri dei poeti sono solo un corteggio all’impossibilità scintillante del Libro” (p. 26).

Chirografie, queste “lettere d’una lingua perduta” (p. 26), toccano già tutti i temi della narrativa di Prete. Li si ritrova, immutati, in una prova di qualche anno dopo, Le saracinesche di Harlem (Edizioni Dell’Obliquo, Brescia, 1989), in cui Prete racconta un suo viaggio a New York. “Da una panchina salgono parole di lingue perdute che bucano l’inglese della conversazione pomeridiana” (p. 7), le parole di tre italiani emigrati ad Harlem, che ricordano i vecchi tempi abbandonandosi alla lingua delle origini, la lingua del ricordo (che è anche la lingua della poesia).

Ecco il tema dello sguardo: “La città ti si scopre subito, ma per dirti che la conoscenza del suo pulsare sfugge allo sguardo del flaneur” (p. 8), il quale, a quel punto, preferisce indugiare sulle saracinesche dei negozi e dei garage o dei vagoni della metropolitana dove è dipinta l’intera città. Anche in questo caso, dunque, la realtà non si lascia conoscere direttamente, ma solo attraverso la mediazione di forme d’arte, pitture murali, graffiti e quant’altro, che le si sovrappongono e la rendono intelligibile e consentono, a loro volta, una meditazione su di essa. Qui la metropoli è l’Altro, l’inconoscibile, ciò a cui, attraverso la scrittura, si tenta l’approssimazione, e che continuamente sfugge alla nostra definitiva comprensione; e, pertanto, impone frequenti ritorni al passato, alla terra d’origine, ai luoghi consueti: “Fra questi pensieri, s’insinua, non chiamata, un’immagine: due leoni di pietra sul portale di un’antica chiesa collegiata, e noi bambini che li cavalchiamo, mentre dall’interno giunge l’onda di un litaniare che si trasforma in canto.
Fuori il sole indora le strade di Harlem: ha cancellato tutte le ombre dai marciapiedi” (p. 13).

Il ricordo funziona non solo come immagine associativa, ma come elemento del racconto, funzionale alla completa registrazione di una esperienza di viaggio, che coinvolge la soggettività, e la modifica, modificando a sua volta lo sguardo del narratore, la sua visione della città. Così, osservando il modo che ha una ragazza “di allontanarsi i capelli dal volto”, il narratore sente all’improvviso “il rifrangersi d’onda, nella memoria, di lontanissimi pomeriggi al Petit Cluny…” (p. 15). Non c’è nessuna spiegazione razionale a tutto ciò. Il narratore non vuole giustificare nulla, ma solo narrare in maniera completa la sua esperienza di viaggio, dentro la quale il ricordo compare come elemento fondamentale della percezione.

“Tra le parole mi si insinuano pensieri impalpabili: forse la distanza tra la siepe e la metropoli, oppure l’idea di un limite che è un’intera città, di un limite che ha il suo oltre iscritto in un marciapiede insozzato o in una vetrina vuota oppure nel fischiettare del ragazzo nero che scende nella subway danzando” (pp. 15-16).

Un pensiero impalpabile (il pensiero di Leopardi) costringe a una comparazione, che, contro ogni apparenza, si rivela molto plausibile. Se si sposta la siepe, il limite leopardiano, entro l’unico orizzonte immaginabile, ecco di nuovo approssimarsi l’idea che non sia temerario pensare alla moderna metropoli come ad un luogo dove possa nascere l’idea dell’infinito, o il desiderio di essa: “… New York… una cartografia del mondo, una rappresentazione formicolante di quella che è detta essenza di un’epoca” (p. 17).

Lo sguardo sul mondo, il ricordo ovvero lo sguardo sul passato non separato dalla consapevolezza di sé, e poi ancora il tema della lingua e quello dell’Altro tornano, dunque, in questo libretto di viaggio, nel quale si compie la seconda prova narrativa di Prete.

A quattro anni di distanza da Le saracinesche di Harlem, nel 1993, segue Prosodia della natura. Frammenti di una fisica poetica(Feltrinelli). Nell’incipit si legge questa dichiarazione di intenti, in cui ritroviamo alcuni princìpi già espressi: “… si tratta di mettersi in ascolto dei poeti, di accostare il loro sguardo al nostro” (p. 5) al fine di cogliere nel “lavoro della lingua”, ovvero nell’ “interiorità del poeta”, “il vero suono del paesaggio. La natura è poesia” (p. 25). In queste poche righe si condensa l’anima dell’intero libro. Lo sguardo di Prete non ricade direttamente sulle cose, bensì è mediato ancora una volta, questa volta in modo sistematico, dallo sguardo dei poeti, attraverso il quale l’autore esercita la propria meditazione sul mondo. Se “la natura è poesia”, solo attraverso lo studio dei poeti è possibile giungere alla natura. Ripenso a Chirografie, nella quale già appariva chiaro il ruolo dei poeti in questa ricerca dell’autore: bisogna “interrogare i poeti” (p. 17), aveva detto lì Prete. E proprio a questo scopo servirebbe ora “una lingua paradisiaca (lingua dell’armonia e della conoscenza)”, precedente ad ogni “offesa dell’uomo alla natura” (p. 27), una lingua ormai introvabile e a cui è possibile sopperire solo con la lingua dei poeti: “La lingua della poesia… compensa l’imperfezione della lingua, il fatto cioè che tra le lingue manchi quella “suprema”, impossibile e forse da tempo perduta” (p. 113).

La polemica sottesa a queste parole è contro “quelli che hanno sottratto alla natura il suo pulsare, la sua lingua”, i quali “non potranno avere dell’imitazione che un’idea gelida e priva di vita: infatti, la creazione, nell’arte, si dà solo come contiguità con la creazione che è in atto nella natura” (Prosodia della natura, p. 22).

Prosodia della natura è un libro pervaso dalla speranza che infine sia possibile, attraverso lo sguardo dei poeti, attingere il mistero della natura, conoscere la sua radicale alterità, che ci permetta di “narrare il romanzo della natura” (p. 102). Prete è certo che la metafora poetica non sia “mai un’astrazione, ma è soltanto una dislocazione fisica dello sguardo. Con questo stesso sguardo è possibile auspicare una “fisica sperimentale dell’anima”” (p. 21). Centrale è qui la questione della lingua: “Rifare la lingua vuol dire ridare alla metafora la sua anima “naturale”, la sua fisica, vivente creaturalità. Ecologia della lingua e poesia sono la stessa cosa” (p. 130).

La poetica dello sguardo, fondamentale – come vedremo – nelle narrazioni seguenti, aveva trovato già in Chirografie una sua prima coerente formulazione: “La letteratura vela, del paesaggio, quel che lo sguardo libera. Ma dà anche una parola e una possibilità d’oltrepassamento al limite dello sguardo” (p. 22), dove è da notare la funzione di mediazione che Prete attribuisce alla letteratura nel rapporto tra sguardo e paesaggio, oltre il paesaggio che la percezione riesce da sola a discoprire. In Prosodia della natura, Prete torna a interrogarsi sulla “relazione” che “la lontananza della notte” “dischiude tra vedere e poetare” (p. 81), e ancora sul senso del guardarsi allo specchio, “lo specchio dell’io, luogo dell’affrontamento di sé” (p. 90) secondo Baudelaire dell’Irrémédiable; e poi sul significato del mare, “riverbero metafisico dell’altro” (p. 91), presente in Moby Dick; e infine – ma gli esempi potrebbero continuare – considera “la preziosità di una pietra” che è “testimonianza di un ordine, cioè di una forma e di una lingua che sono sotterranee, originarie, anteriori all’uomo” (p. 107), e che l’uomo cerca di rendere a sé familiari. Così anche le piante hanno un loro “sentire” (“Dante è attento al “sentire” della pianta” p. 120), che ci rimarrebbe per sempre sconosciuto senza la poesia (vedi la sezione del libro intitolata Jardin des plantes).

Bisogna capire, dunque, che “ogni esperienza poetica è davvero la nascita di un nuovo sguardo” (p. 129), anche quando questo sguardo non sia che uno “sguardo animale” (p. 148). “Rilke… fa dell’animale il testimone di quell’infinito che per il poeta è “indicibile”, ma nello stesso tempo vede la fraternità dell’animale e dell’uomo nel dolore di una separazione dall’origine” (p. 149). Anche in questo caso la poesia trasforma lo sguardo muto dell’animale nella metafora di quella “prima lingua, lingua purissima, prossima al Verbo, nella quale l’essenza delle cose era irrimediabilmente nome e il nome conoscenza” (p. 155). Un intero universo ci rimarrebbe precluso, a meno di intendere la sapienza alla maniera degli antichi, come “scrigno che custodisce il fantastico” (p. 153), ovvero tutto ciò che immediatamente ci è sconosciuto. Prete sa che solo “la narrazione fantastica può ospitare, senza raggelare, la verità” (p. 156), e che solo una lingua che vada “oltre la barriera della convenzione semantica” e fondi “la sua sintassi nell’armonia creaturale” (p. 167) può ristabilire un rapporto autentico tra uomo e natura. Per questo l’estetica della percezione in Prete non può che approdare all’ipotesi che sia lo sguardo animale il miglior punto di vista dal quale guardare alle cose del mondo ed anche a noi stessi, poiché esso “restituisce all’uomo il limite della sua percezione, la povertà di campo del suo linguaggio e, persino, l’insensatezza, alla lettera, della sua superiorità” (p. 170).

Se è vero l’assunto iniziale, che cioè “la natura è poesia” (p. 25), l’excursus tra i poeti delle varie letterature non può, alla fine, che condurci alla riscoperta della natura nello “sguardo animale”, lo sguardo poetico per eccellenza: “Osservare la singolarità del vivente, di ogni cosa vivente, come la pulsazione necessaria di una stessa lingua: se la poesia ha, come le nuvole, uno sguardo, esso è il riflesso dello sguardo animale” (p. 171). Questo è l’approdo dell’estetica della percezione in Prete, un approdo che stabilisce una misura definitiva per l’uomo abituato a ergersi a sovrano dell’universo. Lo sguardo animale, cioè lo sguardo poetico, è la misura di questa percezione, nella quale si riassume il limite umano e la vera essenza dell’uomo come essere naturale.

Rimane da chiedersi quale posto occupi Prosodia della natura nel percorso narrativo di Prete. Questo libro, come si è visto, si colloca sulla soglia dei generi; come uno zibaldone di pensieri, mescola l’intuizione critica all’annotazione riflessiva alla meditazione sulla poesia. La questione della lingua, sottratta a secolari dispute di parte, costituisce il fulcro della riflessione di Prete. Il titolo annuncia un trattato di regole “prosodiche” utili a leggere la natura, o a ritrovarla, ma allude anche al compito che Prete si assume rispetto alla tradizione poetica europea (e non solo), di comprendere, attraverso la lingua poetica, il senso della presenza umana nel mondo, ricondotta alla sua dimensione reale, sottratta ad ogni antropocentrismo e a ogni falsa certezza. Il senso di questo programma era già ben chiaro all’autore sin dai tempi di Chirografie, quando così Prete definiva la prosodia: “La prosodia come statuto che unifica i linguaggi, li distoglie dalla chiacchiera, li corazza di silenzi e di assenze, li spinge verso quel prima e quel dopo la lingua che è la musica.” (p. 20); come dire, alla ricerca di una lingua naturale…

Probabilmente, proprio a causa di questa necessità meditativa che oltrepassa e reprime la vena fantastica e narrativa, Prosodia della natura rimane al di qua della narrazione, che si dispiega completamente solo con i libri seguenti, dove lo sguardo del narratore non è più mediato (almeno, non palesemente) dallo sguardo dei poeti, ma acquista la sua piena autonomia affabulatoria. Tuttavia, in Prosodia della natura sono ripresi e sviluppati e variati in forma di frammento tutti i temi che fin qui abbiamo visto caratterizzare la narrativa di Prete e che ritroveremo nei libri seguenti: l’osservazione della realtà a partire dalla propria interiorità, il fantastico come luogo di una conoscenza più autentica, lo sguardo animale, eccetera.

Provo ora a leggere L’imperfezione della luna (Feltrinelli, Milano, 2000) e Trenta gradi all’ombra (Nottetempo, Roma, 2004) come un medesimo libro. Del resto, solo pochi anni separano l’uno dall’altro e, dunque, è lecito pensare che essi siano il risultato di una medesima disposizione narrativa. Il racconto di Prete ha varie tonalità e non è facilmente riassumibile in una formula. La scena della narrazione è spesso riconoscibile nei paesaggi salentini della giovinezza dell’autore, la natia Copertino e il Salento in generale, e nelle città grandi e piccole in cui l’autore ha vissuto, Parigi, Milano, Siena, ma si accenna anche a una non meglio precisata città anseatica (L’imperfezione della Luna, p. 108), che diventano i luoghi prediletti della sua osservazione, della sua “percezione delle cose” (L’imperfezione della luna, p. 30). Osservare è parola chiave nella narrazione di Prete, e l’osservazione è la pratica ricorrente, sia essa l’osservazione di scene di vita paesana (vedi Cinema meridiano in Trenta gradi all’ombra La stagione delle tarante ne L’imperfezione della Luna, per citare solo due racconti) sia quella che riporta il narratore nelle Stanze (L’impeferzione della Luna) abitate nelle varie età della vita (dal sapore proustiano) o che gli fa rivedere le movenze leggere di una donna (“osservavo il suo passo leggero” ne Il passo leggero, L’imperfezione della luna, p, 75), le infinite regioni siderali (vedi la sezione Carte celesti, L’imperfezione della luna) o le corse di Luna, la cagna ormai morta dal “nome d’ombra, o meglio di luce nell’ombra (Trenta gradi all’ombra, 11, pp. 51-52). Già in Prosodia della natura Prete ci aveva spiegato che osservare significa entrare in relazione con il mondo esterno, comunicare con l’Altro e, dunque, intraprendere la difficile strada della conoscenza, anche per via fantastica. Osservare è vivere nel senso pieno del termine. E allora bisogna intendersi su questa parola, osservare, poiché è certo che nessun cieco realismo è presente nella pagina di Prete. Ne è prova la presenza di racconti in cui alla credenza popolare si sovrappone una limpida visionarietà (“… che della malinconia è un po’ la lingua…” scrive Prete in Dalla lettera di un cartografo a un amicoTrenta gradi all’ombra, 13, p. 56) come in Portenti di fra Giuseppe da Copertino (L’imperfezione della Luna) o, nella stessa raccolta, in A largo, dove si racconta come un pescatore pescò una nuvola; ma vedi anche i racconto immaginifici dal titolo Questioni naturaliSulla torre di tufo, e la Favola dell’ombra raccontata dalla madre (Trenta gradi all’ombra 3, 5 e 10); racconti nei quali – ma se ne potrebbero citare altri – l’immaginazione dello scrittore carica di una misteriosa potenza allusiva e visionaria la narrazione.

Quello che il narratore, in fatto di osservazione, richiede al lettore è un nuovo “sistema delle nostre percezioni”. In Una rimostranza(Imperfezione della luna, p. 32) scrive: “Insomma è tutto il sistema delle nostre percezioni e dei nostri poteri che va rimesso in discussione, riordinato, sottoposto a revisione e controllo, sottoposto a modifica. Tutto è nello stesso tempo lontano e vicino, sommerso ed evidente, non ci sono proporzioni, distinzioni tra esterni e interni, delimitazioni di campi visivi. Quel che può parere una virtù del nostro stato si rivela di fatto essere un limite per la nostra azione. Non possiamo agire se non, per così dire, in interiore homine…”. Osservare significa percepire in modo nuovo la realtà, a partire da se stessi, dalla propria interiorità. Ne troviamo conferma in una vera e propria dichiarazione di poetica che apre Da un incompiuto Libro d’ore (Trenta gradi all’ombra, 25, p. 97), dove, commentando alcuni scritti del fantomatico Libero Martano, Prete dichiara che bisogna “comprendere come per lo scrittore la cura dell’interiorità, o meglio l’interrogazione di sé, del proprio situarsi in rapporto ai viventi, non fosse mai disgiunto da una sorta di esercizio dello sguardo, assiduo e ostinato. Si potrebbe dire che descrivere era per lui vivere. Perché descrivere era entrare in relazione con le cose, sentire il loro respiro, mettersi in ascolto della loro lingua.”

Cura di sé e sguardo aperto sul mondo sono, dunque, le due facce della narrazione, inscindibili l’una dall’altra, necessarie l’una all’altra; e non è difficile rinvenire in tutto questo, sia pure entro un disegno narrativo più ampio e variegato, una conferma di quanto Prete aveva scritto in Prosodia della natura e anche nelle sue opere precedenti.
La cura di sé sottintende una diuturna interrogazione sul senso della propria esistenza, a partire dalla considerazione che la singolarità dell’individuo è una cosa ben misera: “…la mia singolarità sarebbe in questo caso solo un’egoistica supposizione, la mia irripetibilità – di figura, di sentimenti, di pensieri – sarebbe una credenza arrogante.” (L’imperfezione della luna, p. 105).

Lo sguardo aperto sul mondo, sugli infiniti universi, porta anch’esso a conclusioni estreme: “Dunque nella linea che separa il giorno dalla notte c’è un segreto spaventoso: ogni sua oscillazione può essere il primo istante di un sistema infiammato da una luce sovrana e distruttiva, oppure può essere il primo istante di un crescente gelo notturno nel cui buio si spengono uno dopo l’altro i pianeti, precipitando, privi di energia e di futuro, nell’assoluto niente.” (L’imperfezione della luna, p. 116). Così “il cielo di per sé puro vuoto” diventa “abisso della lontananza, anzi figura stessa dell’assenza.” (L’imperfezione della luna, p. 120). A questi risultati sconcertanti approda la percezione nella narrazione di Prete. Ma si leggano anche le belle pagine dal titolo Lo sguardo, l’ombra (L’imperfezione della luna, pp. 166-167) scritte per Luna, la cagna ormai morta, nelle quali lo sguardo della cagna (“i suoi occhi, sorprendendo i miei”) rimane “inesplicabile”: “Nessuna familiarità poteva addomesticare questa distanza: nei suoi riverberi si potevano qualche volta leggere barlumi della separazione dell’uomo dall’universo animale”.

Non diversa è la soluzione della dialettica luce-ombra, la prima “figura stessa della conoscenza”, ma solo se la si pensa “in relazione” con la seconda (Solstizio d’estate, in Trenta gradi all’ombra, 26, p. 103), in quando “siamo necessarie l’una all’altra”, dice l’ombra alla luce nel Dialogo dell’ombra e della luce (Trenta gradi all’ombra, 27, p. 108). La percezione, alla fine, deve arrendersi davanti all’estrema ipotesi: “Di fatto, in questa percezione, lo stato di ansia è dato dalla prossimità di un sospetto: se, come l’ombra, tutto fosse apparenza, i corpi stessi e l’universo intero fossero apparenza? L’ombra è dunque figura dell’apparenza, sua messaggera e testimone.” (L’ora dell’insidia, in Trenta gradi all’ombra, 28, p. 114). E’ questa una delle ultime pagine del racconto di Prete, nel quale si condensano gli interrogativi più ardui che l’uomo possa rivolgere a se stesso e agli altri; pagine leopardiane, oltre le quali non è possibile spingere la nostra percezione. Dinanzi al cielo stellato e all’infinito mistero che esso racchiude, anche l’osservatore più acuto deve ritrarsi: “… in quegli abissi mi soffermo a lungo, e vedo senza vedere, o sogno di vedere oltre il visibile, e ancora oltre, fino allo smarrimento del pensiero stesso, dell’immaginazione stessa. Così diviene impossibile il mio compito di osservatore.” (Dalla lettera di un cartografo celeste a un amico, in Trenta gradi all’ombra, 13, p. 59).

Nessuna meraviglia, allora, se il ritmo della prosa trova una sua misura nelle figure conclusive dei paesaggi consueti della giovinezza, dove il fluire del tempo sembra sospeso, tra il verde argentino degli ulivi, i racconti delle donne, i giochi dei ragazzi, il vecchio che fuma la pipa tra i bagliori del meriggio, il mare…
Queste figure sospese nel tempo, su cui ritorna la narrazione, sono le figure del ricordo, della nostalgia (non si dimentichi che Prete ha curato nel 1992 per Raffaello Cortina Editore un volume, ristampato nel 2004, dal titolo NostalgiaStoria di un sentimento), del tempo irreversibile e irrecuperabile, se non attraverso il ritmo delle parole. E’ facile imbattersi in stilemi del tipo “Fu proprio allora, rivedo il momento…” (Al banco, in L’imperfezione della luna, p. 22) oppure “Te la ricordi anche tu…” (La petracadente, ne L’Imperfezione del Luna, p. 40) o anche “…pensando al passato…” (La frase, in L’imperfezione della Luna, p. 68); e ancora si legga La meridiana, i cui capoversi, salvo l’ultimo, sono tutti introdotti dalla formula “C’è, nel ricordo…” (Trenta gradi all’ombra, pp. 37-38). Nel ricordo, dove prevale il “tempo verbale dell’imperfetto” (Lo sguardo, l’ombra, in L’imperfezione della luna, p. 166), si esercita l’osservazione della realtà e l’indagine sul mistero che essa racchiude; ed è esercizio mai fine a se stesso, come quello di chi non abbia altra prospettiva che il passato, e in esso si adagi, bensì diventa il momento risolutivo d’ogni interrogazione e d’ogni ricerca, l’unico possibile approdo consentito alla lingua imperfetta dell’uomo, lingua intesa come “atto di una separazione, il primo segno di una ferita”. Il ricordo, dunque, sembra ricondurre alla “lingua vera della creazione” (La prima solitudine, in L’imperfezione della luna, p. 128), che permane “anche nell’atonia, o nel deserto del sentire”, e di cui occorre imparare ad “apprendere qualche tecnica per proteggere con l’arte del linguaggio la trama impalpabile del sentire.” (Da una lettera, in L’imperfezione della Luna, p. 80). Come si vede, vi è una ripresa di temi e motivi già presenti nelle prime opere dello scrittore, che qui trovano una più limpida e matura definizione, ma soprattutto si incarnano in storie e racconti di grande respiro narrativo.

“Osservare il mare […]: di qua il profumo di una terra aspra e pietrosa, di là il suono dello sconfinato, il rumore della lontananza. Lu rusciu ti lu mare, il suono del mare, è voce che poi ti accompagna. Anche nell’atonia, o nel deserto del sentire.” (Epilogo. La luce, dall’ombra, in Trenta gradi all’ombra, p. 122).

Terminata la lettura dei racconti di Antonio Prete, so che è dalla cura di sé, da una ostinata osservazione dell’Altro, in tutti i suoi aspetti, persino quelli di un Bestiario familiare (vedi L’imperfezione della luna, pp. 125-167), di un mondo fantastico che sempre si sottrae alla nostra immediata comprensione, so che è da questa instancabile ricerca che bisogna ripartire per poter ancora una volta narrare una storia, anche quando dietro l’angolo ci attenda il fallimento, il terribile volto di una verità che non ha nulla di consolante per noi umani, ma che non ci può cogliere impreparati. Prete narratore ci consegna infine questo messaggio, chiaro e severo, e tuttavia implicitamente invitante a non sospendere mai la ricerca dell’Altro, che costituisce la fonte preziosa di ogni affabulazione. Oggi come ieri, soltanto una narrativa consapevole delle sue ragioni, solo un raccontare che sia l’esito di una seria e spregiudicata riflessione sul rapporto tra sé e il mondo, a lungo mediato dallo studio della tradizione poetica, può avere diritto di cittadinanza nelle lettere contemporanee, troppo spesso bistrattate da facili sequele di narrazioni immotivate.

(2005)

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