Nel 2001, ero a Lecce, nello studio del pittore Raffaele Spada. Parlavamo della storia dell’arte e delle moderne linee di tendenza della pittura italiana, quando il Maestro, mostrandomi uno dei suoi ultimi dipinti, mi dice: «Io sento la mia pittura come ormai giunta ad un punto di coagulo della mia esperienza artistica. La sento come qualcosa di profondo, come un qualcosa che nasce da un intimo che sconfina con l’abisso, la sento come Grembart». Era la prima volta che sentivo questo neologismo – “Grembart” –; chiesi quindi al Maestro di spiegarmi meglio cosa intendesse con questa parola. Rispose: «La mia Grembart vuole essere un ritorno al grembo originario idealizzato dal mare e da finestre che si aprono sul cosmo dove il chimico-elettrico del blu contiene strutture e pieghe che, fluttuanti, viaggiano verso l’ignoto. Io non dipingo ciò che è, ma quello che potrebbe essere». Dopo questa risposta, ritornai a guardare i suoi ultimi dipinti ed effettivamente mi accorsi di questo luogo/grembo di cui egli parlava: un Utero della grande Madre Terra metaforizzato nel blu marino e celestiale. Il pensiero mi volò subito a dieci prima, al 1991, quando con Antonio L. Verri, avevamo compilato un catalogo dell’artista ed io volli che si intitolasse “S/Fondali” (Centro Pensionante de’ Saraceni, Lecce).
Allora, quel titolo mi era nato spontaneo senza, cioè, che ci ragionassi sopra più di tanto. Avevo semplicemente – com’era in voga in quegli anni a fare uso di certi sperimentalismi – messo la “S”, che stava per Salento, e “Fondali”, che stava per fondali marini, per cui alla fine veniva fuori un titolo che, decriptato, si poteva leggere “Fondali del Salento”. In copertina avevamo scelto un’immagine tratta da un grande dipinto del Maestro, uno dei suoi ultimi di quel periodo, “Il sogno di Ar” (tecnica mista su tela, cm 60×80, 1990), che appunto mostrava tutta la complessità del profondo, dell’intimo, dell’inconscio materico. A riguardarla ora quell’immagine, mi accorgo effettivamente di trovarmi davanti ad una sorta di enorme grembo di una Grande Madre, che è poi la Madre di tutte le madri, la Madre Terra, dentro cui ribolle il liquido magmatico o, se si vuole, amniotico, che genera la Vita. Forse, senza avere piena coscienza di tale scombussolamento interiore, l’artista Raffaele Spada ha fatto nascere un nuovo modo di fare pittura: combinare gli elementi immaginifici con nuovi cromatismi e nuove prospettive. Verri si era immediatamente accorto di questa novità, tanto che, nel Catalogo, scrive: «Oggi siamo davanti ad una delle ultime tele di Raffaele Spada. Più che mai senza rancore. Un’esplosione. Coinvolgente. Forse la nascita dell’universo. Piani spezzati che mostrano profondità chimico elettriche. Materia dominata da segreti e turbolenze. La vita sta per cominciare. O per finire. È un momento alchemico – sono spariti l’ironia e la leggerezza di altre opere che conoscevamo, i simulacri in pietra, gli aquiloni continuamente veleggianti… Masse di materia che si disgregano. Aperture. Varchi: che al pari del pittore di scuola umbra di Enzensberger anche Spada si stia orientando a dipingere la fine del mondo? Ma come si fa a dipingere la fine del mondo?». E sì, constato con stupore ora, e ovviamente col senno di poi, che Verri aveva colto nel segno, perché effettivamente Raffaele Spada tentò allora (ma oggi ci è sicuramente riuscito) di dipingere la fine del mondo. Già in quello stesso catalogo, nella sezione delle opere, appaiono alcuni dipinti che a guardarli non si può non constatare che si tratta di visioni apocalittiche, e nello stesso tempo di magma profondo rigenerativo. Ad esempio, nel dipinto “Programma conclusivo” (olio e materico su tela, cm 80×60, 1986), dipinge un sole appena rosso che si sgretola su un’umanità disperata e morente con un cromatismo opaco
da fine del mondo. Un altro dipinto, ancora più sconvolgente, almeno dal punto di vista degli eventi che accadranno l’anno dopo con la caduta del muro di Berlino, e che si intitola “Il muro” (tecnica mista su tela, cm 71×80, 1988), l’artista dipinge un sole rossastro striato di verde che si sgretola su una massa identificabile come una muraglia graffitata che a sua volta si sgretola e va in rovina. Il pittore qui ha fatto sì che da un’umanità semplicemente disegnata sul muro si risvegli dal suo sonno profondo e, attraverso una sorta di resurrezione, sortire viva e palpitante dal disegno stesso. I cromatismi del dipinto tendono tutti alla combinazione caleidoscopica di colori granulati con effetti elettrico-chimici splendenti. In quello stesso catalogo, ci sono poi altri dipinti, che a guardarli oggi, non fanno altro che confermare l’idea che l’artista aveva già di questo suo nuovo modo di intendere e fare arte e che egli chiama Grembart. Ma come ci è arrivato a tale risultato? Raffaele Spada è partito da una riflessione amara su come la Terra sia stata ridotta dalla voracità egoistica dell’uomo, ridotta a un immondezzaio; persino lo stesso uomo si è abbrutito a tal punto da non riconoscersi neanche da se medesimo; per cui l’artista è andato alla ricerca di un qualche valore possibile, che sia almeno resistito allo spaventoso tsunami che sembra aver travolto tutto e ogni cosa. Non trovandolo, si è allora immaginato sulla tela una Terra in rovina, sconvolgente, abissale, ancestrale, di magma ectoplastico, di astralità stromatolitiche, e solo dentro alla stessa Terra o, se si vuole, all’interno del suo grande Utero universale (il Grembo della Grande Madre) ha cominciato ad individuare come una sorta di resurrezione, di rigenerazione, di nuova Vita. È il solo modo, secondo lui, di tentare la riconciliazione di Dio con l’uomo, la Natura con la natura, l’uomo con se stesso e gli elementi della Madre Terra con le Divinità Ctonie, nella speranza di rivedere il bagliore aurorale di una nuova Vita.
Della fine ricerca dell’artista se n’era accorto pure il professore Giancarlo Sergio che sul giornale «Il Corriere del Sud» scrive: «Ciò che caratterizza il lavoro di questo artista è che la sua pittura non può essere inserita in alcuna classificazione, né fa parte di uno dei tanti “ismi” del Novecento. Superata da tempo la tradizionale paesaggistica meridionale, come le opere di soggetto sacro, tematiche in cui eccelleva e per la sapiente tecnica compositiva e per un cromatismo prezioso e raffinato e nella stesura e nelle tonalità, quest’artista ha voluto fortemente quanto caparbiamente andare “oltre” per trovare una sua identità nel variegato mondo dell’arte. Per molti anni si è dedicato alla ricerca per superare la realtà e per inoltrarsi in dimensioni e spazi mai percorsi e quindi sconosciuti. Una ricerca catartica, capace di liberarlo dal retaggio della tradizione e dalla cultura artistica contemporanea; una ricerca che, anno dopo anno, si è rivelata quasi ossessionante, continua, sofferta, per uscire fuori dal labirinto e dalle pastoie della tradizione. / E così, man mano, la sua ricerca l’ha portato ad una visione-rivelazione di un cosmo primordiale senza tempo, scaturito da esplosioni ed implosioni del magma primigenio alimentato da una “vis” incontenibile, irrefrenabile ed inesauribile, destinata a separarsi prima e a ricompattarsi poi in mille e mille “situazioni” in cui tagli e profondità, vortici e volumi, cadenzano il tutto senza soluzioni di continuità oppure trovano uno sbocco nell’identità cosmogonica» (cfr. anno IX, n.2, 2000). Esplosioni ed implosioni, come Giancarlo Sergio scrive, comportano sempre la luce, una luce particolare, che per Raffaele Spada significa sofferenza, doglianza, ma anche Vita. Il parto di una nuova creatura è impensabile senza il dolore, senza la doglianza appunto. E sempre la luce è parto di sofferenza vitale, e di luce come parto vitale è fatta la pittura di Raffaele Spada. Nel 1991 scrivevo: «Oltre ogni limite è l’amore di questo artista per la luce. Non per quella artificiale, non per quella manipolata dall’uomo, ma per l’astrale, la solare, per quella nostra balzante luce che “gioca”, quando gioca, con le mille e mille rifrangenze possibili/inspiegabili sulla pietra, pure su quella angariata di certi vecchi angoli barocchi di terra d’Otranto. Con questa luce egli ama lavorare, “giocare” sulla tela nella solitaria quiete tufacea, in nascondigli messapici, e trasportarla senza riposo con infiniti, sottilissimi veli, impercettibili quasi; con essa poi inventare, creare, dare senso alle sue tele ormai già materiche, ormai già inspessite di figure sfangate, di vortici turbolenti, di sostrati di puro colore, ma al contempo leggerissime come voli della speranza» (cfr, “Il Grifo benigno della pittura”, Catalogo, Lecce 1991, p. 9). La luce di Raffaele Spada è quella dell’immensità celestiale, dei molti blu del cielo, sia che esso sia “scartato”, come lui ama dipingerlo, o semplicemente naturale come spesso appare in non pochi dei suoi stupendi paesaggi salentini. Tanto che il filosofo Paolo Protopapa, nel presentargli la mostra nella agreste cornice dell’antica masseria Torcito, scrive: «Spada, con magici spruzzi di pennello nei morbidi ondulati dell’affresco, veste il cielo. Letteralmente: affresca il cielo rinnovandolo nelle sue creature primigenie, le nuvole. Cirri e nembi, ma anche grappoli e festoni di corpi scarnificati […] e insieme dinamici, significativamente sinuosi entro uno spazio-ritmo ciclico, rivelatori di un presagio estetico che sembra mimare la platonica “immagine mobile dell’eternità”. […]. “Affrescare il cielo” non è per Raffaele Spada gioco coloristico o cortigianeria fatuamente ‘alla moda’, né tantomeno rammemorazione nostalgica di un protettivo “ventre materno” infantilmente preteso. Al contrario: il dolore-del-ritorno (nòstos-algia) è feconda proiezione nel futuro, ansia mai doma di piegare la brutalità inerte della materia ai valori fondativi dell’ethos, spiando con la commozione virginale dell’arte l’incipit aurorale della forma che ‘avviene’. Solo così il fulmine dell’intuizione più ardita riesce a lambire l’oltrepassamento sublime del ‘logos’» (cfr. “Affrescare il cielo”, in «Anxa News», Gallipoli maggio 2005, p. 16).
Quando noi oggi osserviamo le tele di Raffaele Spada non possiamo non domandarci da dove provengono quegli squarci “scartati” nel cielo; quella sua ricerca della platonica «immagine mobile dell’eternità», opportunamente citata da Paolo Protopapa. Ed è allora che ci chiediamo: cosa l’artista si propone di vedere attraverso quegli “scartamenti”? Forse la nettezza dell’eternità? Forse la purezza dell’incanto di un bimbo innocente volato via per sempre in spazi insondabili fatti unicamente di luce e di intensi profumi sacrali? Forse. Per noi, però, il suo silenzioso dipingere sta lì come monito a farci vedere il disastro provocato dall’uomo, sta lì a farci riflettere sui mali del mondo. Mai potremo dimenticare quel suo dipinto profetico di più di vent’anni fa: la “Venere ecologica” (tecnica mista su tela, cm 59×76, 1988); quel volto dolce e bellissimo, sobrio e soave, di Madonna Botticelli, che sta per affondare in una busta di plastica. A rivederlo oggi quel dipinto ci viene da piangere, perché effettivamente in questi ultimi vent’anni l’uomo è stata capace di far affondare il pianeta nella plastica, nell’immondizia, nella sporcizia, nell’anima truce e nera della cattiveria. Nella “Venere ecologica” di Raffaele Spada, dipinta con tecnica materica (acrilico, olio e tufo) e con cromatismi luminosi di luce solare sostenuta da vortici spiraliformi, c’è tutta la sofferenza, la doglianza della nostra immatura umanità. E Lei, Madonna in plastica, che dall’alto del cielo perlato di rossoazzurracei psichedelici, con l’indice ci fa vedere il crollo, la caduta, la disperazione, l’obnubilamento della coscienza. È da lì, da questo dipinto, che è partita la Grembart di Raffaele Spada, una tecnica ed un’arte pittorica che sfidano il tempo, che tengono conto della grande storia dell’arte, del Masaccio, di Raffaello, di Michelangelo, di Leonardo, e nello stesso tempo, tecnica e arte che si proiettano nella più effervescente modernità di Picasso, Modigliani, Gaudì, Dalì, Chagall, Matisse, anche se poi, a sentire l’artista, egli ama dire: «I miei maestri in arte sono: Leonardo, il mare e il vento». Non a caso, a intuire per primo il valore di denuncia e della catarsi della nuova nascente arte fu un filosofo cileno Sergio Vuskovic Rojo. È stato lui a dirci per primo che la Grembart di Raffaele Spada «ci apre la porta a nuovi stupori […] che la [sua] pittura, [è] come [una] forza originaria che produce armonia, [… che] le [s]ue opere hanno l’energia del fulmine e la capacità di superare il luogo della mente, […che] la Grembart, la cui ossatura geometrica non appartiene ad una sola figura, bensì al passaggio da una figura all’altra, si presenta come un’architettura viva, labile che respira, e non come una mera semplice scenografia. In essa sono in assoluto preminenti le linee curve, intese come creazione della vita animale e vegetale ed un abbandono, anche esso assoluto, delle linee rette, intese come manifestazione tardiva della civiltà tecnologica, che affonda nel Suono che avvolge, che si muove in cerchi concentrici, che semplicemente naviga. Geometria curva, illuminata dalla luce, aura sostanziale che si presenta come una qualità insita nella materia e non solo mero colore. Luce che va oltre la dimostrazione dei colori intesi come risultato di un fatto culturale, storico ed acquisito, in accordo con i canoni del vedere. Luce che ci attrae al di là di ciò che uno vede, o vuol vedere o è abituato a vedere. Insomma, colori che diventano luce e luce che dà la vita».
Siamo con ciò ritornati al punto d’origine della pittura di Raffaele Spada, una pittura fatta di luce, di calore, di sofferenza, di solitudine e di silenzi al cobalto. Quando l’artista si pensa, non riesce a sottrarsi al suo viaggio solitario nella notte: è lì, in quegli anfratti del luogo della mente, come dice Vuskovic, che nasce l’ascolto del lamento della pietra, e poi ancora uno strano suono di silenzio, e una nuova specie di lamento inumano di voci che il vento arrotola e si porta via. Dal grembo della Grande Madre nasce la nuova arte. Ed è l’eco lacerante di un giorno di dolore, flagellato da mille sofferenze. È il lamento del vento che bussa alla porta degli uomini e chiede loro di ravvedersi, quando ormai già essi stessi sono divenuti vento. Ecco. L’artista è ora arrivato al punto dogliante del parto di nuovi orizzonti d’arte, di nuove periferie e nuovi infiniti centri vitali. Il suo è un urlo oceanico, sotto un cielo che grida vendetta con un povero Dio che non ha più la forza di rispondere alla violenza dell’uomo.