di Antonio Di Seclì
“Sono convinto che la bellezza non salva il mondo, che non c’è niente, nessuna bellezza, che possa alleviarne il dolore” (p. 59), afferma Michele ex ragazzo, alle soglie dell’adultità estrema, sul finire del racconto Accecante col suo buio (Edizioni Grifo, pp. 60, Lecce 2018), un volumetto ben curato; dove non ho incontrato alcun refuso.
Non posso condividere la convinzione di Michele (dell’autore), se non altro per un motivo umanamente contingente: mi accingo a scrivere con ancora negli occhi immagini vitali, dense di colori che esprimono gusto immenso dell’esistenza. Immagini che mi beano e mi rendono pienamente felice per giorni e giorni. Immagini di Monet, di Renoir, di Kandisky, di Chagal, di Rodin, di de Chirico, di Guttuso e di decine e decine di artisti europei del XIX e XX secolo. Ed inoltre mi aggiro per una città dove la bellezza al femminile è sempre ammirevole e la cura degli spazi e l’attenzione verso anziani, donne e bambini avrebbe tanto da insegnare al nostro Occidente, talora supponente. La città è Mosca.
Ed ancora la pittura mi porta a costruire un parallelismo tra, credo, l’ultima immagine che Antonio Resta ci restituisce del Salento e Renoir. Mi riferisco ad una tela dell’impressionista in cui un possente scoglio si erge dalle acque di un mare crespo in mezzo ad altri monconi. A pagina 45 il nostro autore di Neviano descrive lo scoglio come una macchia scura: è nudo e solo lo scoglio sulla superficie violacea del mare, dove “davanti” agli occhi dell’uomo – Michele, lo scrittore – si prospetta “l’attesa livida”, carica di lutti e sofferenze. Qui il mare è “l’orlo del destino per quanti vivono su questa penisola (salentina) di sole e di pietre”. Lì, nell’opera di Renoir, il mare sembra minacciare inutilmente il destino dello scoglio; anzi ne amplifica la solidità.
Stravaganza a parte della riflessione, è mio desiderio segnalare qui la ferma concezione dell’autore; la convinzione che, dalla narrazione, emerge dell’esistenza degli uomini, degli animali, delle cose; di ogni creatura.
“Dove saranno don Giustino e donna Agatuccia? Dove Eustichio, Pasqualino, Martino? La risposta non tentenna: “Scomparsi, annullati, come se non fossero mai nati, non fossero mai vissuti … Ma, dov’è finita la loro vita, i gesti di ogni giorno … le parole … le gioie e le pene, le passioni e i pensieri … nutriti? Ecco il problema. Se la vita è un attimo, e sovente è sofferenza, che senso ha vivere, “che senso ha la vita, che senso ha il cumulo di sofferenza che affligge le creature, schiaccia tanti innocenti.” Trovare certezza agli interrogativi circa il fine del nostro passaggio terreno è arduo, perché “l’attesa è uno spazio vuoto. La pallida luce del giorno ( io intravedo una metafora della vita) se ne va con la sua ombra lunga … Le cose sono le cose, forse il mare dirà, e non c’è da aspettarsi risposte”. Eppure nella sera della vita “c’è ancora luce, e tutto splende ancora di meravigliosa straziante bellezza”.
Ancora! Ancora luce nel tempo dell’adultità estrema. C’è ancora luce quando il distacco dalla bellezza meravigliosa è oramai imminente, perciò straziante. La bellezza splende fin quando c’è vita e crea per contrasto uno sfaldamento negli occhi, nel pensiero, nel cuore dell’uomo che si gode, ancora, il tepore del sole, della vita, in silenzio, accostato a una tamerice, seduto dinnanzi al mare su un blocco di calcarenite.
Il racconto, introdotto da una dedica dolorosa all’amico pisano Luca Bertini, “tolto alla dolce luce” troppo presto, trae titolo dal verso “Dazzling within its darkness”della poetessa Denise Levertov. L’incipit annuncia subito la materia del ricordo e del dolore: “una lama viola lambisce, irregolare, le zone in ombra” (p. 13). Michele, protagonista eteronimo dell’autore, assiste sgomento in sul primo mattino alla scena di un pesciolino che corre impazzito verso la battigia, a pelo d’acqua, inghiottito in un attimo da un’ombra che è apparsa all’improvviso: “Un essere, di primo mattino ha cessato di vivere, e un altro ancora vivrà, essendosene nutrito”. Ma sembra che la morte sia connaturata alla vita se “Tutto è così splendente di bellezza”. In effetti” le acque sono rimaste tranquille e trasparenti; e gli scogli che affiorano sono sempre lì, immutabili nella luce. Lo stesso azzurro si stende e sfolgora lo stesso sole”
È solo l’assaggio di descrizioni meravigliose da contemplarsi alla stessa maniera, con quella medesima intensità che di solito mettiamo nella contemplazione di un dipinto o di una statua che trasmette palpiti prepotenti. Entra così in ballo la qualità della scrittura di A. Resta, pulita, efficace, intellegibile, senza concessioni all’estetismo di maniera, equilibrata e competente nelle aggettivazioni che stimolano sensazioni e aiutano e definiscono la comprensione.
Penso che della scrittura del nostro autore si possa dire, mutati i luoghi e gli uomini, quanto Sciascia affermò a proposito della scrittura dell’autore di Grenoble nel suo illuminante L’adorabile Stendhal.
Il dolore è dietro l’angolo di ogni individuale esistenza, anzi è nella ragione stessa dell’esistenza, sia degli umani che degli animali. Eppure la bellezza delle cose, della natura, del mare, dell’aria che “scioglie le ultime stelle” e che “si imbeve di luce che sa di mare”, della luce che “si allarga, liquida, sulle cose”, lascia supporre che tutto è ancora uguale, come nell’infanzia, nella beata giovinezza. Invece “Tutto è uguale” apparentemente e “tutto è uguale e niente è più come prima”. Michele è mutato. Il tempo altera “volti e corpi”, sottrae “implacabile la luce della giovinezza, lo slancio dei pensieri”.
Il racconto si snoda tra descrizioni, poetiche, dell’ambiente e ricordi di vita, tra acquerelli e rêverie.
“La quiete è forse apparente, di là dall’eterna bellezza. Come se si nutrisse, ogni vita di dolore”. La profonda bellezza che emerge dalla descrizione preziosa del creato sottende sempre la fragilità della vita, di per sé dolorosa. Allora ecco che la lucertola che “ ha lasciato, al suo passare, un esile solco sulla sabbia, e ora a due passi, si smemora al sole su una scheggia di calcarenite” (p. 17) somiglia tanto alla metafora della vita, forse della vita dello stesso Michele che a fine racconto se ne sta assiso in contemplazione a fronte mare su un lacerto di calcarenite ad ascoltare l’ultimo tepore del giorno. Metafora, quella della lucertola, ripresa a pagina 38 : “Chissà se il ricordo… possa consolare dei soli spenti, dei giorni caduti. Poi pure il ricordo, labile, dileguerà, come il segno leggero lasciato dalla lucertola sulla sabbia, che un tremito di vento appiana, cancella.
Tali sono state le vite dei tanti che Michele ha conosciuto. Un segno sulla sabbia che un tremito di vento appiana.
Tanto è accaduto a Eustichio, che allegro, va a studiare al nord, diviene avvocato, si sposa, ma le incomprensioni lo sfiniscono. E al povero Pasqualino, vissuto per poco tempo, limitato ad assistere dietro il vetro di una finestra ai giochi dei coetanei. Tanto accade a don Giustino, ma anche al suo asino Martino, e alla madre donna Agatuccia: due persone buone, scomparse, senza che nulla aiuti a prolungare la memoria del loro passaggio votato all’altruismo. E a Cristina, bella ed estroversa, che nella realtà finisce per scegliere una vita al contrario, diventando suora. E pure Amina, l’amica volatile, scompare e non tornerà mai più, come la bambina bionda che lo prese per mano.. E ai tanti uomini e donne conosciuti e vissuti per momenti brevi e lunghi. Nulla resta. “Non è rimasto nulla”. In fondo l’esistere, a rimirare, appare “una linea lontana, incerta confusa, indistinta. Il tempo pare che si accremi. Una striscia opaca, come piombo lasciato fluire, che si disfi in un alone di cenere diffusa: poi sempre più scura. Dove il sotto, dove il sopra? Dove il confine che separi, quando verrà la notte?”
C‘è una forte presenza autobiografica, lo si evince con immediatezza, così come era già avvenuto nei precedenti L’attesa, il mare del 2013 e Il miele, l’ombra del 2017.
C’è anche tanto Salento in questo racconto, c’è tanta passione e attenzione per questa terra dei padri che soltanto chi la vive a sprazzi, ne avverte – da una posizione di semi/esclusione – con intensità le persistenze e i sommovimenti.
C’è un Salento luminoso, pregno di natura ancora suggestiva, denso di colori e profumi. Non travisamento nostalgico trasuda la scrittura di A. Resta, bensì descrizione attenta del proprio sentire, del proprio vissuto di allora e di oggi.
Il nostro Salento possiede per l’ autore un sole, nel cielo vuoto, che è un croco di giallo svanente; le sue spiagge deserte odorano di posidonie e di alghe; le sue lune distendono un chiarore di argento. Qui il sole tinge di fulvo oro la spuma dei marosi che corrono a riva; qui gli orti scintillano di terra rossa. Qui la luce del sole a quest’ora è al massimo splendore; si riflette sul mare compatta e inesorabile; proietta, di case alberi e oggetti, ombre minime, minimi contorni scuri, dalle linee nette, decise. Ma soprattutto, il Salento è “lo scoglio nudo, solo, sulla superficie violacea. Dove il mare, orlo del destino per quanti vivono su questa penisola di sole e di pietre, segue ogni suo ( del protagonista) movimento, Michele lo sa, ogni suo pensiero, mentre fa finta di dormire. (p.45)
Quale scrittura! E’ proprio questa bellezza narrata, questa armonia di immagini persistenti nel racconto che rende la mia, la nostra, quotidianità terrena accattivante, possibile, distratta da tutto ciò che di bruto, di doloroso ci costringe.