Ricordo di Alessandro Leogrande

di  Adele Errico

Dietro le lenti spesse degli occhiali, Alessandro Leogrande scrutava il mondo per conoscerlo, capirlo, raccontarlo.

Nelle sue storie si intrecciano giornalismo e letteratura; distinguere l’uno dall’altra è difficile; è difficile strappare da ogni suo personaggio quella carne che gli appartiene e che non gli consente di dimenticare la sua natura non letteraria, di essere non solo scrittura ma voce e respiro: i personaggi dei suoi libri, li ha guardati dritto negli occhi mentre ascoltava le loro storie e soffriva con loro.

Leogrande è il giornalista che ha fatto del reportage uno strumento non solo di cronaca ma soprattutto di narrazione; le sue inchieste sono letteratura: in quelle storie del Mediterraneo risuona l’epos dei viaggi per mare degli Achei verso Troia, di Giasone verso la Colchide, del capitano Achab all’inseguimento di Moby Dyck. Tra le onde del Mediterraneo affiorano le peripezie descritte da Conrad alle prese con il superamento della “linea d’ombra”.

Alessandro Leogrande narra per schierarsi contro i soprusi, le ingiustizie,  l’ignoranza, la sopraffazione, l’emarginazione,  la violenza.

Nasce a Taranto, il padre è un professore. Si diploma al liceo “Archita”, si trasferisce a Roma a studiare filosofia. Inizia a occuparsi di politica, poi di migrazioni, nuove mafie, caporalato e sfruttamento dei braccianti in Puglia. Scrive per l’”Internazionale”, “L’Unità”, “Il manifesto”, “Panorama”, “Il Fatto Quotidiano”, il “Corriere del Mezzogiorno”;  è vicedirettore del mensile “Lo straniero”. L’ultima sua inchiesta, nel 2017, riguarda la ricostruzione storica delle dittature in Argentina.

E’ trascorso un anno da quando Leogrande si è spento a Roma, a 40 anni.

A chi ha seguito e amato il suo lavoro certo verranno in mente due parole: “Meridione” e “frontiera”.

Ovunque egli vada, il Meridione gli resta attaccato alla pelle come si attacca lo scirocco che soffia impietoso per le strade di Taranto, la città di cui ha scritto, per cui ha combattuto. Forse avrebbe voluto sognarla com’ era ai tempi di Archita; avrebbe voluto che fosse ancora la città bella e fiorente della Magna Grecia. Ma la ama anche così, con quello stesso vento di scirocco che con sé porta le polveri dell’Ilva. Taranto, la “città-fabbrica”, è al centro di due libri e moltissimi articoli: è la Taranto dominata dalla “fabbrica matrigna”, che mai dorme e sempre produce,  che  troneggia grigia con le sue ciminiere e “le fiamme di una produzione eterna”. Quella fabbrica è come un’ossessione nelle sue inchieste, tutte raccolte da Goffredo Fofi in “Dalla macerie: cronache sul fronte meridionale”.  Ma Leogrande non dimentica la bellezza della città con le luci che si specchiano nel Golfo, la città che Pasolini, nel resoconto del viaggio sulla litoranea del 1959, ha definito “gigantesco diamante in frantumi”. A Leogrande, nell’intervento sul settimanale “Pagina 99” dedicato a Taranto, piace figurarsela con le parole di Pasolini: la città perfetta, come una conchiglia che regala protezione; le due Taranto, la nuova e la vecchia, incastonate tra i due mari.

Nelle inchieste di Leogrande, il Meridione non è solo geografico: è Meridione interiore dal quale non riusciva a cancellare la residenza. 

La seconda parola che connota il lavoro di Leogrande è anche il titolo di uno dei suoi libri. “La frontiera”. Una parola evocata quotidianamente ma che spesso si stenta ad afferrare nei suoi significati: la frontiera non è stabile; è mobile, cambia, muta collocazione geografica continuamente ed è diversa in base agli sguardi, in base al fatto che a guardare sia chi accoglie o chi arriva, chi vede i barconi avvicinarsi alla costa o chi è sui barconi a scrutare le luci della costa (e della speranza) farsi sempre più nitide. Questo “mare nostrum” che sembra strabordare da ogni pagina del libro,  è il teatro tragico  delle storie e delle vite dei migranti che partono dall’Africa per arrivare in Italia.

3 ottobre 2013: 368 persone partite da Tripoli muoiono perché un barcone si rovescia a poche centinaia di metri da Lampedusa. Questo evento costituisce l’occasione narrativa. Cosa fa Leogrande? Parte per Lampedusa e intervista chiunque possa dargli informazioni, i pescatori che hanno prestato i primi soccorsi e alcuni dei sopravvissuti. Non ama, però, la parola “intervista”. Gli sembra fredda. Lui, invece, è coinvolto: ascolta e scrive e condivide la sofferenza, compatisce perché cerca di capire cosa davvero abbia provato una persona che si lascia alle spalle una terra, le case rase al suolo e la guerra, perché i naufragi non sono fatti di numeri ma di persone che pensano, vogliono, desiderano, che hanno delle storie. E sono queste le storie che Leogrande vuole raccontare. Sotto lo sguardo di chi racconta, il giornalista prova un senso di pudore: pensa a come  trasformare la sofferenza in scrittura, la voce, il fiato, le lacrime in racconto, sapendo che la sofferenza delle persone di cui scriverà resterà incollata sulla loro pelle. Si chiede che cosa sia,  in un’intervista, la giusta distanza; se lo chiede nel momento in cui si sente risucchiato in quelle storie e il ruolo del giornalista che non si deve emozionare proprio non gli riesce. Quando poi si ritrova da solo a dover riscrivere quello che ha ascoltato, allora è il giornalista, il narratore, lo scrittore che fa il suo lavoro e comunica ogni evento con una prosa che possa rendere giustizia, una prosa esatta, chiara, che provi “ad illuminarlo esattamente per quello che è”.

Cosa resta di Alessandro Leogrande a un anno dalla sua morte: la passione per il suo lavoro e l’entusiasmo di inventare un giornalismo nuovo, in cui non si vede il confine tra cronaca e letteratura. Leogrande ne abbatte la frontiera.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 26 novembre 2018]

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