di Guglielmo Forges Davanzati
Vi sono ragioni per ritenere che l’aumento dello spread influenzi i tassi di interesse sui mutui? In larga misura sì, sebbene vi siano altre variabili (in primis la direzione che assume, o ci si attende che assuma, la politica monetaria della BCE) che possano influenzare questi ultimi.
La domanda, che ha suscitato ampio dibattito nelle ultime settimane, investe ovviamente anche la valutazione che si dà alla manovra economica del Governo. La questione – in sé estremamente tecnica – riguarda molte famiglie italiane, indebitate con le banche o che si accingono a farlo. Banca d’Italia comunica che la riduzione del valore dei titoli di Stato “ha determinato una riduzione del valore della ricchezza finanziaria delle famiglie”, stimando tale riduzione intorno agli 85 miliardi di euro. L’effetto di un aumento dello spread – il differenziale dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico italiano e quelli sui titoli tedeschi – influisce sui bilanci bancari per effetto della perdita di valore dei titoli italiani, aumentando il costo della raccolta. Per conseguenza, le banche tendono a reagire aumentando il costo del denaro a danno di chi prende a prestito. Sul piano fattuale, già in alcuni casi si stanno registrando aumenti dei tassi di interesse e comunque il nesso fra aumento dello spread e aumento dei tassi di interesse sui prestiti bancari si verificò negli anni del Governo Monti. Come accadde in quella fase, vi è oggi il rischio che l’aumento dello spread accentui la restrizione del credito e che, per questa via, generi ulteriori compressioni di consumi e investimenti.
Il tentativo, da parte del Governo o di alcuni suoi autorevoli esponenti, di minimizzare i danni di un differenziale di interessi sui titoli di Stato sistematicamente superiore ai 300 punti è del tutto fuorviante. Come è ancora più fuorviante la tesi per la quale l’aumento dello spread sia frutto di un complotto. Ammesso che esistano “poteri forti”, non esiste un centro di potere unico sovranazionale che decide le sorti del mondo. Sarebbe troppo ingenuo pensarlo e troppo ingenuo credere che, a lungo andare, gli elettori ci credano.
E’ comprensibile che il Governo tenda a minimizzare i rischi di uno spread elevato per ragioni esclusivamente politiche. La paura del suo aumento, nel 2011, determinò la formazione di un Governo che impresse la massima accelerazione alle misure di austerità, che questo Governo dichiara di aver abbandonato. Ma da ciò non si può dedurre che variazioni dello spread, di per sé, implicano la necessità di attuare politiche di riduzione della spesa pubblica.
L’alternarsi dello spread registra la percezione che i nostri creditori hanno in merito alla solvibilità dello Stato italiano, e la nostra solvibilità dipende dal tasso di crescita. Se è vero che le misure di austerità hanno generato recessione, non è automaticamente vero che attuare una politica fiscale espansiva, ingaggiando un braccio di ferro con le Istituzioni europee, generi crescita.
Nello scenario globale, la crescita è oggi demandata essenzialmente a incrementi di produttività derivanti dall’adozione delle nuove tecnologie prodotte dalla cosiddetta quarta rivoluzione industriale. Il Governo Renzi, per impulso del Ministro Calenda, aveva provato a intercettare i cambiamenti in atto attraverso il Piano Industria 4.0, che questo Governo ha fortemente ridimensionato nella sostanziale assenza di motivazioni.
Industria 4.0 – denominazione coniata nel 2011 in Germania in occasione della Fiera di Hannover – è un programma finalizzato alla modernizzazione degli impianti delle imprese italiane che si immagina debba avvenire attraverso ingenti sgravi fiscali – il c.d. iper e superammortamento. L’Italia, in tal modo, cerca di intercettare – o almeno di non essere tagliata fuori da – la cosiddetta quarta rivoluzione industriale, che attiene ai processi di computerizzazione e robotizzazione dell’attività produttiva. Il piano Calenda prevedeva uno stanziamento finalizzato a incentivare l’ammodernamento degli impianti e per il periodo 2017-2020. Si trattava di un provvedimento che si muoveva nella direzione giusta con strumenti discutibili (la detassazione, soprattutto in fasi recessive con aspettative pessimistiche, ha effetti irrisori o nulli sugli investimenti) e che soprattutto arrivava tardi rispetto al ritmo di avanzamento tecnico su scala globale e rispetto alla caduta del tasso di crescita della produttività del lavoro che in Italia va avanti ininterrotta da circa venticinque anni.
Dovrebbe essere chiaro che il principale problema dell’economia italiana sta precisamente in questo, ovvero nella riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro databile almeno a partire dall’inizio degli anni novanta. E dovrebbe essere altrettanto chiaro che la storia recente dell’economia italiana è stata caratterizzata da una successione di tentativi (in larga misura falliti) di mettere le nostre imprese in condizioni di essere competitive sui mercati internazionali comprimendo i costi di produzione e dunque non innovando.
L’aumento dello spread è un segnale che, a partire dalla crisi valutaria del 1992, ha caratterizzato tutti le fasi sopra descritte di accentuazione della lunga recessione italiana e dagli anni nei quali i mercati finanziari sono diventati totalmente deregolamentati, permettendo attacchi speculativi sul debito pubblico. Sarebbe saggio prenderne atto e non addebitare le responsabilità della crisi italiana esclusivamente alla stupidità dei vincoli dei Trattati europei o all’ottusità dei burocrati di Bruxelles.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 25 novembre 2018]