di Gianluca Virgilio
Possiamo considerare il potere come il particolare, mutevole rapporto che tiene insieme gli uomini, facendo di essi una comunità di animali sociali e politici, come voleva Aristotele. Tutti gli uomini, a diversi livelli e per i più disparati motivi, afferenti alle necessità del vivere insieme, sono uniti tra loro da una relazione di potere. Tale relazione nelle società civili è caratterizzata dalla legge, in quelle più rozze dalla forza. La domanda è questa: è possibile ipotizzare una società in cui il rapporto tra gli uomini non sia mediato dalla legge o dalla forza, un rapporto non fondato sul potere?
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Moto di meraviglia durante la lezione di storia, quando, paragonando la situazione degli schiavi per debiti dell’antica Grecia a quella di noi moderni, ho detto che ciascuno di noi nasce con un debito di circa 37.000 euro. Già, è difficile pensarci. In effetti, la moderna schiavitù si accompagna all’inconsapevolezza del nostro essere schiavi per debiti. In altri termini, gli uomini sembrano essersi accordati su una nuova forma di schiavitù, che fa salve tutte le apparenze della libertà. Noi siamo liberi, ma abbiamo perduto la possibilità di immaginare un mondo diverso da quello nel quale viviamo; che è come dire che abbiamo perso tutto. Abbiamo solo debiti!
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Nell’anfiteatro della mia scuola, tra gli interstizi di blocchi di cemento, cresce la vigna e il fico selvatico: lunghi tralci e steli mitigano il grigiore del cemento. Il bidello mi ha detto che ha provato a fare pulizia, addirittura gettando sulle radici, negli interstizi del cemento, un acido particolarmente corrosivo, ma non c’è stato verso: dopo qualche mese la vigna e il fico sono rispuntanti. “Ma perché non lasciar crescere queste piante?” – gli ho chiesto -. Esse custodiscono l’antica memoria del luogo. Io mi ricordo bene le vigne e il ficheto di cinquant’anni fa, proprio nel fondo dove ora sorge l’edificio della mia scuola. “Ordini!” – mi ha risposto – “ordini!”, indicandomi con la mano il soffitto della scuola.
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I libri si dividono in tre categorie: 1) Quelli che si leggono una sola volta, per curiosità, per rispondere al consiglio di un amico, perché si è stati indotti da una pubblicità talmente pervasiva a cui non si è saputo resistere, per dovere professionale ecc.; 2) Quelli che si rileggono, anche più di una volta, che si leggono sempre e, dunque, ci accompagnano per tutta la vita, essendo un tutt’uno con la nostra stessa esistenza; 3) Quelli che non si leggeranno mai, perché il nostro fiuto ce lo vieta.
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Tenere un diario, scrivere giorno per giorno i fatti che mi sono accaduti: è quanto vado facendo da qualche anno a questa parte; e da questo diario estraggo i pensieri che formano il presente Zibaldone galatinese. La mia opera “completa” è dunque il diario, un’opera improponibile, impubblicabile, poiché essa non potrebbe interessare a nessuno, piena com’è di dettagli personali, familiari, spesso ripetitivi, di cui il lettore non saprebbe che farsene. Un diario non può essere scritto per un lettore, a meno che chi lo scrive non sia persuaso che esso, un giorno, possa avere un qualche interesse pubblico. Un diario, infatti, è sempre segreto, nel senso preciso del termine, ovvero deve rimanere nascosto. Di esso si possono pubblicare solo estratti, ma anche questi dopo essere stati “rimaneggiati” e adattati ad un pubblico di lettori, che certamente, se non avvertito, li considererà scritti autonomi, validi per sé, privi di una genesi diaristica.
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Nella novella di Gianni Celati intitolata La città di Medina Sabat, in Romanzi, cronache e racconti, Mondadori, Milano 2016, p. 803, il protagonista, un giovanotto di Mirandola, spiega la differenza tra raccontatori di storie e narratori di genealogie: questi ultimi “sono tutti falsi e inventano le genealogie delle famiglie o dei capi di stato, facendosi pagare in anticipo e poi inventando quello che vogliono. Siccome inventano quello che vogliono, diventano potenti.
I raccontatori di storie invece non inventano quello che vogliono, devono attenersi a quello che dice la storia. E a un raccontatore non si può chiedere: “Ma è vera la tua storia? È veramente successo così?”, perché sarebbe una grande offesa. Loro raccontano esattamente quello che dice la storia, non quello che s’inventano loro.”
Raccontatori di storie e narratori di genealogie: distinzione utile a discernere i buoni dai cattivi scrittori, dunque faro orientativo nel mare magnum delle odierne narrazioni.
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Riflettere sull’uso dell’imperfetto nei racconti di Celati, un tempo che usa un maresciallo dei carabinieri per scrivere il rapporto d’un fatto realmente accaduto. È il tempo dell’obiettività di un evento e del suo resoconto, che prevede una figura di narratore incapace di raccontar balle. L’uso dell’imperfetto proprio di una relazione o di un referto indubitabile, opera di un raccontatore verace. “Sarebbe una grave offesa” dice Celati, chiedere se la storia è davvero accaduta, proprio come nessuno si permetterebbe di dubitare del rapporto di un carabiniere. Insomma, l’imperfetto celatiano è il verbo dell’autenticità del narrare.
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Nel mio diario trovo scritto: “Ho sognato qualcosa che vorrei scrivere in questo diario, ma ora non ricordo cosa e questo mi dispiace assai.”. Quante cose rimangono escluse dalle pagine di un diario!
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Paganesimo e cristianesimo. Leggo in Max Polhenz, La tragedia greca, Paideia, Brescia 1961, p. 94, nella traduzione di Maria Bellincioni: “Importa ancor più, poi, chiarire la differenza fra le idee religiose dei Greci e le nostre. I Greci non conoscono un dio trascendente che, unico e immutabile, regni per l’eternità sul mondo governandolo. L’idea fondamentale era data per loro dal cosmo ordinato, che abbraccia tutto l’essere. Nel suo ambito “tutto è pieno di dei”, che pure esistono, però, appunto entro i confini del mondo, in cui hanno una loro determinata sfera d’azione, come gli uomini e le bestie. Sono “i più forti”, ma anche il “pantocratore” Zeus è, sì, il signore assoluto degli uomini e degli dei, ma non è onnipotente, nel senso della fede cristiana. Anch’egli è inserito nel mondo, è legato alle sue leggi e al suo ordine eterno, legato alla moira, che è la legge del suo stesso essere.”
Il cristianesimo ha misconosciuto quell’ordine e ha illuso l’uomo, dotandolo della speranza di una vita eterna, non più sottoposta alla moira, poiché Cristo ha vinto la morte. Così sono scomparsi tutti gli dei, eccetto uno, che è divenuto potentissimo; al pari dell’uomo, dato che questi è pur sempre fatto a sua immagine e somiglianza. Non solo l’uomo, infatti, è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, ma Dio stesso è fatto a immagine e somiglianza dell’uomo.
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Riflessione su come scegliere una traccia di italiano da assegnare agli studenti liceali. Bisogna tenere conto di com’è fatta una mente giovane, dei suoi limiti conoscitivi. La traccia deve consentire allo studente, a partire da suoi limiti, di superarli. La traccia è fatta per essere seguita, ma non deve mai incatenare le argomentazioni dello studente. Essa non deve contenere una tesi definita, ma deve proporre un problema da risolvere, un tema da svolgere alla ricerca di una soluzione originale.
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L’aziendalismo nella scuola è un’ideologia totalitaria pericolosissima, che ha prodotto danni enormi di cui siamo in grado benissimo di valutare le conseguenze.
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Mauro Covacich, La mia speranza sono le stelle goffe, “Corriere della Sera – La Lettura”, domenica 20 settembre 2015, p. 9, ci ricorda che desiderio “viene dal latino sidera, ovvero da un sentimento di lancinante lontananza dalle stelle”. Ne parla a proposito delle statue viventi che si vedono nelle piazze delle nostre città: “Sono sempre stato colpito da questo tipo di invenzione: una performance che consiste nel sopprimere il movimento, un’action concepita contro l’azione, un essere umano che diventa una pietra. È stupefacente l’immobilità che questi ragazzi sanno ottenere, per non parlare del modo in cui riescono a prolungarla. Autoipnosi? Tutorial di ascetismo? Risorse da fachiro? Esprimono, non so quanto consapevolmente, un’antica idea di perfezione”.
Covacich ci parla del desiderio, che, in quanto sentimento di una mancanza – come sono lontane le stelle! -, costituisce la somma imperfezione dell’uomo. Le statue viventi vorrebbero negare ogni desiderio, ma è proprio in questa volontà che si manifesta il loro desiderio: desiderano di non desiderare. La duplice natura, di vivente e di statua, attrae e suscita meraviglia perché ci mette di fronte ad una verità che spesso misconosciamo, ovvero che la materia è vivente (non è cosa inerte e priva di desiderio). La statua vivente è lì per chiedere un euro e si muove per ringraziarti quando tu depositi la moneta nel cestino. Essa ci ringrazia, rivelandoci qual era il suo desiderio (un euro), che noi siamo contenti di aver appagato perché abbiamo riconosciuto nella materia vivente, di cui è fatta la statua, un nostro simile.
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Riflessione sulla lettura, la cui pratica è piacevole e faticosa a un tempo. È piacevole apprendere nuove cose, che non si possono apprendere se non con la lettura; ma essa richiede anche impegno, è uno sforzo intellettuale, che noi cerchiamo di mitigare sdraiandoci su una comoda poltrona o stando distesi su un divano o a letto. In ogni caso, leggere è sempre un atto complesso, il cui il piacere dovrebbe ripagare della fatica. Pregustare una lettura, desiderare di leggere un libro, ma non ancora leggerlo, questo sì che è un piacere puro. Ma il piacere appare contaminato appena apriamo il libro e ci sottoponiamo volontariamente a questa pratica, che è sommamente innaturale. Nell’evoluzione umana la lettura è un fenomeno recentissimo (non più di 2500 anni), e ancor più recente se si pensa ad esso come a un fenomeno relativamente di massa (i caratteri di Gutenberg sono del 1450). Sarebbe interessante indagare sul ruolo che ha giocato e gioca ancora la lettura nel grande processo di disciplina dei comportamenti e dei modi di partecipazione alla vita sociale delle persone. Si scoprirebbe che il potere ha utilizzato ed utilizza ancora anche questa strategia, la lettura, per isolare le persone, spostare la loro attenzione sulle fiction letterarie, immobilizzarle (si legge stando fermi), plasmare le loro menti e, dunque, rendere innocui i corpi dei lettori.
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Nel “Corriere della Sera” del 6 ottobre 2015 leggo l’intervista rilasciata da Marina Berlusconi, che, a proposito della casa editrice Einaudi, afferma: “L’abbiamo rilevata quando era in una situazione piuttosto difficile senza intaccarne in alcun modo l’identità, anzi, rafforzandola.”
Come darle torto? Eppure, questa “identità rafforzata” dell’Einaudi rimane imprigionata all’interno della cornice berlusconiana. Ho pensato, per analogia, all’impero romano, che, vinto un popolo, gli consentiva di venerare gli dei aviti e perfino di erigere templi in loro onore a Roma. Il potere romano sapeva che per dominare, bisognava “rafforzare l’identità” del popolo sottomesso. Marina Berlusconi, “rafforzando l’identità” dell’Einaudi, ha eretto un tempio nell’impero della sua famiglia. Il vero potere, infatti, non è quello che schiaccia, percuote, distrugge. La violenza è sintomo di debolezza e d’una fine imminente o comunque temuta da chi la pratica. Il vero potere è nella capacità e nella forza di inglobare, incorniciare, neutralizzare ogni possibile opposizione, facendola esprimere tanto liberamente quanto inutilmente.
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Da Joseph Conrad, Appunti di vita e di letteratura, in Opere complete, vol. XVII, Bompiani, Milano 1950, p. 48, estraggo questo pensiero sulla storia e sulla finzione letteraria, scritto a proposito dell’opera di Henry James: “La finzione è storia, storia umana, o non è nulla. Ma è anche qualcosa di più; è fondata su un terreno più fermo, essendo basata sulla realtà delle forme e l’osservazione dei fenomeni sociali, mentre la storia è fondata su documenti e sulle letture di stampati e manoscritti, cioè su impressioni di seconda mano. Così la finzione è più prossima alla realtà. Ma lasciamo correre. Lo storico può anche essere un artista; e il romanziere è uno storico, il conservatore, il custode, l’interprete dell’esperienza umana.”
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“ – E’ stata una bella fiaba! – disse la regina (…). Adesso dunque ti daremo nostra figlia.”, scrive Hans Christian. Andersen, Il baule volante, in Fiabe, Einaudi, Torino 1954, p. 140. Una bella fiaba per avere una sposa: chissà che non sia questo il motore della letteratura!