Itali-e-ni 1. Di oscenità in oscenità

di Paolo Vincenti

“Mi piace scombinare l’acquisito e rivoltar la giacca ad un partito 
E fare i conti in tasca alle morali e tradizioni 
Col gusto di scoprire le finzioni 
E allora con la falce taglio il filo della luna 
La musica mi sembra più vicina 
E prendo a pugni e schiaffi la tristezza e la sfortuna 
E cerco di tornare come prima”

(“La fatica”  – Pierangelo Bertoli)

Di oscenità in oscenità

“Venite pure avanti voi con il naso corto, buffoni imbellettati io più non vi sopporto,

infilerò la penna ben dentro al vostro orgoglio perché con questa spada vi uccido quando voglio”

(“Cyranò” – Francesco Guccini)

Il libro che avete fra le mani consta di un certo numero di articoli pubblicati in un arco temporale di un anno e mezzo circa, su alcune riviste salentine on line. Si tratta della seconda parte del libro “L’osceno del villaggio”, pubblicato nel 2016. Difficile definire a quale genere appartengano questi scritti. Sono vicini alla forma dell’articolo giornalistico e in particolare dell’articolo di opinione, il cosiddetto editoriale, dei quotidiani. Mentre però l’editoriale si caratterizza come una riflessione seria e articolata su un fatto di cronaca (nera, rosa, politica, giudiziaria), i miei pezzi si pongono fra il serio e il faceto. I brani poi hanno una lunghezza molto varia e non rispettano delle regole editoriali precise. Un forte debito hanno nei confronti della satira, antichissimo genere letterario nato in Italia proprio con la letteratura latina (“Satura tota nostra est”, affermava Quintiliano).

I luoghi privilegiati di indagine del libro, cioè i temi principali degli articoli, sono: la televisione e in genere i mezzi di comunicazione, la politica e la cronaca nera. Sono partito dalla domanda: che cosa è osceno oggi in Italia? Mi sono guardato intorno e molti spunti ho ricevuto dai media. Oscena è oggi buona parte della televisione, dove nei vari talk show i temi affrontati sono scelti sulla base del clamore che possono creare e sulla loro capacità di sollevare gli animi a vantaggio dell’audience. La televisione ha ormai smesso da tanti anni di fare cultura, per inseguire soltanto gli umori della gente, con trasmissioni volgari e inutili. Paradigmatiche di questa deriva trash, sono le trasmissioni di Maria De Filippi e Barbara D’Urso (il filosofo Carmine Castoro ha intitolato un suo libro “Maria De Filippi ti odio. Per un’ecologia dell’immaginario televisivo” Caratterimobili 2012). Ciò è davvero grave, in un Paese in cui non si leggono né libri, né giornali, e la tv di Stato, che dovrebbe contribuire all’innalzamento del livello medio culturale, ha tradito del tutto l’originaria missione, immiserendosi nell’inseguire il “paese reale” e nel proporsi come specchio delle nefaste tendenze in atto. Oscena è questa televisione dunque, che alimenta le infondate ambizioni di buoni a nulla che vengono trasformati in opinionisti e ospitati nei dibattiti, molce il narcisismo di alcuni analfabeti giovinastri trasformandoli in “tronisti” e “troniste”, vellica la pancia di vanesi privi di talento rinchiudendoli nelle gabbie dei “reality” dove essi possano dare il meglio, cioè il peggio, di sé. Certe trasmissioni infatti sono come delle latrine pubbliche, il luogo in cui i mentecatti dell’Italia spurgano le loro deiezioni, vomitano le loro meschinità, esibiscono la propria ignoranza, esalano la propria puzzolente caproneria. Sugli schermi della televisione di oggi vanno in onda le nefandezze dei tanti imbecilli vagotonici con la diarrea di rincontrare un parente che non li vuole vedere, oppure di ex vip che vogliono rientrare nello star system che li ha dimenticati, oppure prendere la rivincita su qualcuno che li ha offesi, o ancora di falliti che non sanno come pagare le bollette o l’affitto a fine mese. Quando non si occupano di politica, i talk show si occupano di cronaca, ospitando uxoricidi, fratricidi, omicidi seriali, stragisti di mafia o, quand’essi non siano disponibili perché ospiti delle patrie galere, il loro fetido parentame. Genitori di criminali assassini, figli, mariti o mogli, che trovano anche il coraggio di apparire in televisione, scrivere articoli, sostenere dibattiti e conferenze. Non so se siano peggiori questi stupidi, oppure le bestie umane che commettono efferati delitti, oppure ancora gli autori delle trasmissioni televisive che se li contendono.

Oscena è la classe dirigente, ministri e vice ministri, bravissimi a reggere il primo piano, che hanno del potere una concezione del tutto originale, di una politica non più fondata sull’ethos ma, semmai, sui mores, cioè sui costumi: su di essi l’attuale politica “transgender” si modella, si conforma, seguendo gli umori di un’età di transizione e assecondando pratiche e consuetudini.   Di fronte ad un cambiamento epocale, come quello che in Italia ha avuto inizio più o meno col ciclone di Tangentopoli nei primi anni Novanta, e che attraverso l’onda lunga del berlusconismo continua tuttora attraverso il renzismo (quanto nefasti tutti gli “ismi” della storia), i militanti della Prima e Seconda Repubblica, quelli che nel vecchio stato di cose sarebbero stati gli intellettuali organici, estroflessi da qualsiasi appartenenza, ancorché barcollanti fra trascendenza ideologica e dura necessità, si sono trovati nell’impellenza di riposizionarsi nel nuovo sistema. E come serpenti, si sono fatti credere ipnotizzati dal potere magico dei nuovi incantatori, si sono contorti e annodati sinuosi al suono dei loro flauti e hanno così, in spirali e volute, addomesticato quelle volontà dalle quali si sono finti addomesticati. Come in un gioco di specchi insomma, i riciclati, gli eterni ritornanti, vessilliferi del “Franza o Spagna purché se magna”, hanno promesso ai nuovi capi totale fedeltà e nella babele italiana di questi anni, di questa “transludica” Terza Repubblica, camaleontici e tecnologici, di fronte alla playstation della politica 2.0, hanno alla fine trovato una consolle dove sedersi a manovrare comodamente il loro joystick. Ma i veri manovratori, quelli che hanno accesso alle leve del comando, stanno molto più in alto.

Nell’osceno lupanare italiano, i potenti magnaccia si arricchiscono sulle prestazioni della loro protetta, la “porca democrazia”. Che non è mica bagascia o scoppola di strada, di questi tempi, ma “escort”, come viene definita oggi la puttana d’alto bordo. E del resto, dai tempi di Pericle ad oggi, è ben stata “nave scuola” per generazioni e generazioni di classi dirigenti. 

Osceni sono la cialtroneria, l’ipocrisia di alcuni intellettuali, il narcisismo di certi scrittori. Il medesimo narcisismo che si ritrova nei loro scritti che non dicono nulla, nei quali vi è una tendenza baroccheggiante all’accumulo di parole per il semplice gusto di riempire la pagina. Esercizio di scrittura, ricerca dell’effetto. Osceni, anche certi ciarlatani, quelli che vendono prodotti miracolosi per ogni tipo di malattia, novelli Dottor Dulcamara (il famoso guaritore dell’ “Elisir d’amore” di Romani-Donizetti), dalla caduta dei capelli ai tumori più inguaribili. A differenza del loro predecessore letterario, questi santoni sono volgari, ancora più spietati, pataccari e criminali, perché si gabellano di poveri disgraziati che, disperati per la triste situazione, perdono la capacità di discernimento e si affidano a loro. Oscena, la finta beneficienza, quella fatta dai vip a favore di telecamera o in serate di gala nelle quali si consegnano assegni sotto i flash di fotoreporter e l’occhio dei cameramen. Ma anche nella vita di tutti i giorni, è difficile non diffidare di una certa generosità troppo smaccata, perché la vita ci ha insegnato che essa non è quasi mai disinteressata ed è come un assegno postdatato, alla lunga verrà riscosso. E a chi dice “a caval donato non si guarda in bocca”, ricordo che queste furono anche le parole di Sinone al re di Troia Priamo, e fu così che dal cavallo, imbottito di Achei, venne la distruzione della città.

Certo è più facile stimmatizzare comportamenti e malvezzi quando questi sono sotto la luce dei riflettori, alla ribalta nazionale, quando coinvolgono personaggi pubblici, politici e regnanti. Ma possono trovarsi oscenità anche nella vita di tutti i giorni, quella dei tanti “signor nessuno” come me, le oscenità delle piccole convenienze, dello spicciolo fotti fotti, della micro criminalità, della grettezza dei burocrati, dell’ignoranza degli amministratori locali, della maleducazione e della superficialità diffuse anche nei ceti sociali più bassi.  Queste oscenità non producono clamore, non hanno visibilità mediatica, almeno fino a quando di esse non si impossessino le cronache giornalistiche e ne facciano strame. Fino a quel momento, le scorrettezze e le ruberie dei piccoli travet della mediocrità restano nel sommerso, appannaggio semmai di un meschino pettegolezzo paesano. La grettezza e la disonestà, infatti, si annidano anche fra chi non percepisce lauti stipendi, chi non si è sistemato con la politica, non ha amicizie illustri e altolocate, ma è costretto a tirare la carretta day by day. Mi sono chiesto: sono più assolti questi ultimi, dalle loro oscenità di piccolo cabotaggio, dalle loro modeste evasioni fiscali, come per esempio la mancata emissione dello scontrino, dalle loro bugie bianche, solo perché sono meno abbienti, rispetto alle corruttele dei grandi approfittatori, dei magnati della finanza, dei politici, dei mega evasori fiscali? Mi sono risposto di no. Chi butta una cartaccia per terra o danneggia le altalene del parco cittadino non è migliore, o meno colpevole, di chi sversa i veleni nel mare; chi sputa per terra o imbratta i muri dei palazzi con pensieri demenziali e sgrammaticati, o ancora getta il vecchio frigorifero o la vecchia tazza del cesso in campagna, non è migliore di chi contamina la falda acquifera. E allora bisognerebbe bastonare tutti.  E bastonare anche i bastonatori, come me. Osceni tutti, osceno anche io? “Muoia Sansone con tutti i Filistei”. Chi di spada ferisce di spada perisce. Bisognerebbe fare le pulci anche a chi fa invettiva, col rischio di innescare così una reazione a catena, un circolo vizioso dal quale non esce nessuno, un cul de sac che inghiotte innocenti e colpevoli. Infatti, il diritto di satira e il gusto di mettere in burla vizi e vizietti del Belpaese prevalgono nettamente sulla prudenza e sul calcolo che inviterebbero a non esporsi, a restare nel privato. Ho deciso dunque di correre siffatto rischio.

Nei miei testi, sono tante le fonti di ispirazione. Quasi sempre in epigrafe, la citazione di una canzone italiana.  A volte, il contenuto della canzone è collegato all’oggetto del mio articolo, ma può anche essere del tutto slegato e scelto semplicemente per una suggestione o perché nel brano viene citata una parola intorno alla quale ruota l’articolo. Non ho l’intento di moralizzare attraverso i miei scritti, però mi rendo conto che il rischio di cui ho detto prima, quello di essere definito un moralista, nel “castigat ridendo mores, è molto alto. Ciò perché la satira è anche ricerca della condivisione generale. Ma ogni medaglia ha due facce e quindi al plauso, al cenno di consenso, può contrapporsi la riprovazione, il dissenso, quando certe posizioni sostenute non siano condivise. Questo accade quando si legge la contemporaneità con gli occhi del notista, dello scrittore politico o di costume, o ancora del menestrello, del diavoletto seminadubbi. Io non mi ritengo assolto o peggio immune, non guardo ai difetti e al vizio con atteggiamento farisaico, oltranzista. Mi pongo invece nei confronti delle debolezze umane, delle piccinerie, delle truffe, degli intrallazzi, con atteggiamento divertito e irriverente. Canzonare ladri e corrotti è un modo di far letteratura, mai salendo in cattedra o bacchettando con furore iconoclasta, ma fotografando i guasti e le discrasie di questo nostro Paese con un pizzico di cinismo, come un reporter satirico, un giullare al limite, con quel disincanto che non è mai disfattismo o qualunquismo. Il mio vuole essere il punto di vista del buffone, cioè di colui che corre sempre sul filo, fra due baratri, come Arlecchino sulla città. Di qua e di là, i due estremi opposti, che il buffone non concilia, non fa coincidere, ma li contiene entrambi e li esprime.  La rabbia si trasforma in battuta salace, la bile si stempera in motteggio, facezia. A volte, sulla satira si impone l’umorismo che mi spinge all’assurdo, al paradosso, per il gusto della battuta. Ma nella maggior parte dei casi, l’arma usata nei pezzi è il sarcasmo. E così, di oscenità in oscenità, anche per questo secondo volume, lascio a voi, come è sempre giusto che sia, il giudizio finale.

FEBBRAIO  2016

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