di Luigi Scorrano
Il nostro è un tempo che ancor più di tanti momenti del passato ci richiede di coltivare idee chiare e di esprimere scelte direzionali che possano aiutare i nostri orientamenti. A chi potremmo chiedere aiuto o sostegno nella scelta? Al nostro mestiere, se è quello di ‘trafficare’ con le carte: quelle della poesia, le più inutili, s’intende! Confortati da questo pensierino semiserio proviamo a riaprire dei libri oggi inesorabilmente lasciati a impolverarsi sugli scaffali del Novecento: di un vecchio signore che esigerebbe qualche sberleffo in meno e qualche rispettosa attenzione in più. Andiamo a caso, naturalmente; affidiamoci a un giocoso azzardo: ne verrà, crediamo, una risposta grave o una risposta spiritosa: prendiamo per buono ciò che viene ma senza affidarci del tutto al registro dell’indifferenza.
Numero uno. Il caso si apre sulle pagine di un’opera che oggi non sappiamo quanti ancora leggano. Si tratta de L’avventura novecentista di Massimo Bontempelli. Un’opera ricca di contrasti, suggeritrice di comportamenti chiari anche talvolta di una chiarezza che poteva apparire incertezza di scelte mai però ragione di opportunismo. L’avventura bontempelliana si apre nel segno di una considerazione sull’uomo, sui compiti che egli si assegna e pensa di realizzare. Il primo dei quattro preamboli che lo scrittore presenta tocca una sorta di bilancio degli esiti conseguiti, ad esempio, in uno spazio estremamente importante, quello dell’arte al quale ha assegnato l’arduo compito di trasferire la vita quotidiana dalla dimensione fantastica (arte) in quella più agevole e necessaria della quotidianità. Quale, dunque, il compito in questo ambito? Scriveva Bontempelli: “Il mondo immaginario si verserà in perpetuo a fecondare e arricchire il mondo reale. Perché non per niente l’arte del Novecento avrà fatto lo sforzo di ricostruire e mettere in fase un mondo reale esterno all’uomo.” In questo reale esterno le aspirazioni di chi vuole operare nella compagine ipotizzata dallo scrittore, deve ricostruire in modo diverso la sfera della realtà affermando esigenze nuove, rinnovamenti che rifiutano un fantastico elementare e improduttivo. Ancora Bontempelli: “Piuttosto che di fiaba, abbiamo sete di avventura. La vita più quotidiana e normale, vogliamo vederla come un avventuroso miracolo: rischio continuo, e continuo sforzo di eroismi o di trappolerie per scamparne”. Qualcosa di queste aspirazioni è rimasta? Non si pensa mai invano: nel bene e nel male. Rimasta è l’aspirazione di dare una svolta decisiva alla propria esperienza quotidiana, che va tirata fuori dal grigiore e dalla stanchezza della routine consueta . Pur tra contraddizioni e ondeggiamenti, il discorso di Bontempelli può essere utilmente ripensato come espressione d’un continuo tendere a una novità ch’è vita, azione, movimento. Una cosa era chiara: “… il secolo ventesimo non vuole restaurazioni, una cosa repugnante alle leggi naturali”. Ma quando Bontempelli fissava in carta questi suoi pensieri, si erano viste, in Italia, restaurazioni ben ripugnanti, delle quali ci si era liberati non senza, forse, un poco di cattiva coscienza. Occorreva, però, distogliere lo sguardo dagli errori del passato e recitare un atto di fiducia nel futuro che si annunciava promettente. E c’era chi se ne preoccupava: un altro scrittore e figura di rilievo nell’arte del Novecento: Alberto Savinio. Scriveva, in data 27 dicembre 1944: “Mio pensiero costante è la sorte dell’Europa. Sono sempre più profondamente convinto che i popoli dell’Europa non guariranno dalle loro gravissime ferite se non formeranno una sola nazione unita da comuni pensieri, da comuni interessi, da un comune destino”. Ma che cosa aggiungeva Savinio alla percezione di un movimento interno delle nazioni europee? Una premonizione? Savinio sembra però convinto ben poco della bontà di nuovi ordinamenti, di una reale unione dell’Europa. Nello stesso testo citato afferma, scettico sulla bontà dell’idea: “… alcuni europei stanno covando ben altro in testa che l’idea dell’unione europea, il che dimostra oltre tutto che nell’unione dell’Europa, ossia al bene dell’Europa, non pensano se non quelli tra i suoi figli che in questo momento sono i meno benestanti, i meno fortunati, i meno ‘vittoriosi’, mentre i benestanti, i fortunati, i vittoriosi non ci pensano affatto”.
Ancora Bontempelli: sembra ipotizzare forme d’arte e di vita sgorganti non tanto da un flusso di continuità quanto da ciò che avviene in ogni attimo privilegiato, assolutamente a sé: “Nessuna legge ma ogni opera, ogni capitolo, ogni pagina, detterà a se stessa la propria ferrea legge unica, che non deve più servire un’altra volta. Ecco la regola di vita e d’arte per cent’anni ancora: avventurarsi di minuto in minuto, fino al momento in cui o si è assunti in cielo o si precipita”.
Pagine di un passato che pare a noi remotissimo a causa della velocizzazione tra il secolo concluso e quello che sperimentiamo da quasi un ventennio! Dovremmo confrontarci con le idee di quel passato prossimo per capire se le istanze promosse negli anni che diciamo “nostri” erano illusorie o semplicemente mal riposte. Per misurare, sulla base di odierni valori o disvalori, la giustezza di quelle pagine, di quelle attese, delle esigenze oggi viste come illusorie, dei fallimenti o delle riuscite. Di un mondo, di un’Europa infine, che si è voluta unita ma, si è rivelata piuttosto per la caratterizzazione delle sue attese in parte vane o dubbiose e i compromessi ai quali in varie occasioni ha dovuto piegarsi necessariamente.