di Guglielmo Forges Davanzati
Sul sito della Lega si legge “ogni laurea presa in qualsiasi università italiana ha lo stesso identico valore, ma sappiamo bene che diversi atenei, soprattutto meridionali, offrono un servizio nettamente peggiore della media”. Non è chiarito chi “sa bene” che gli atenei meridionali sono mediamente peggiori di quelli del Nord, ma da questa convinzione – sebbene non sostenuta da alcuna evidenza – scaturisce questa proposta: “La Lega Nord propone … di abolire il valore legale del titolo di studio”.
Non si tratta di una proposta nuova e non si tratta neppure di una proposta troppo sorprendente, se solo si considera la spinta alla ‘regionalizzazione’ dell’istruzione data dal Ministro leghista Marco Bussetti.
Sarebbe difficile comprendere queste scelte leggendole esclusivamente con la lente dell’antimeridionalismo leghista. Vi è di più. In linea generale, le politiche formative seguono le fasi di trasformazione del capitalismo e queste fasi non sono omogenee su scala globale, implicando incessanti cambiamenti della divisione internazionale del lavoro, guidati anche dalla capacità di alcuni Paesi di arrivare prima alla realizzazione di rivoluzioni tecnologiche. In tal senso, l’Italia è un Paese late comer e le sue politiche formative risentono di questa sua collocazione. La riarticolazione dei processi formativi, oggi, è imputabile alla necessità di intercettare i cambiamenti tecnologici innestati dalla cosiddetta quarta rivoluzione industriale (anche denominata Industria 4.0) Industria 4.0 ha a che fare con i processi di digitalizzazione e computerizzazione, con l’automazione dei processi produttivi e, dunque, con una profonda trasformazione del mercato del lavoro su scala globale e sulla tipologia di domanda di lavoro espressa dalle imprese.
Si stima che i Paesi dell’Eurozona, soprattutto per il traino della Germania e dei Paesi satelliti, producono circa il 35% della produzione mondiale di software per il movimento di treni, auto e macchinari: quota che sale a circa il 60% se si considerano i robot per la sicurezza. La percentuale di sensori prodotta in UE rispetto al resto del mondo è pari a circa il 55%. Il Rapporto dell’osservatorio delle competenze digitali, realizzato dal MIUR e dell’agenzia nazionale per l’Italia digitale, registra, fra il 2016 e il 2018, un aumento della domanda di lavoro per professionisti Itc fra 85mila e 61mila unità. Le offerte di posti di lavoro sono localizzate prevalentemente nel Nord- Ovest (48%) e in misura irrisoria al Sud e nelle Isole (5%).
La ristrutturazione del capitalismo italiano nella crisi si è infatti associata alla crescita dei divari regionali: le imprese dell’arco alpino (dal Piemonte al Veneto) agganciate, attraverso rapporti di subfornitura, al capitale tedesco, per produzioni ad elevato contenuto tecnologico; l’economia meridionale prevalentemente a vocazione turistica e agricola.
Le politiche formative messe in atto in Italia negli ultimi decenni, in questo scenario, diventano sempre più incoerenti rispetto alla necessità, di parte del capitale italiano (quello localizzato al Nord), di disporre di forza-lavoro altamente qualificata. L’incoerenza discende dal fatto che le politiche formative degli ultimi anni si sono essenzialmente basate sul postulato per il quale a scuola e Università è demandato il compito di immettere nel mercato del lavoro individui ‘occupabili’, in un’ottica funzionalistica di breve periodo. In sostanza, si è fatto riferimento alla crescita delle competenze (il saper fare) non a quella delle conoscenze, trascurando il fatto che in un’economia con rapido avanzamento tecnico le competenze acquisite oggi tendono a diventare rapidamente obsolete e che, per conseguenza, ciò che bisognerebbe fare è potenziare le capacità critiche di apprendimento (il saper imparare).
La quarta rivoluzione industriale in corso induce a prefigurare alcuni scenari, relativi alle trasformazioni del mercato del lavoro e dei sistemi formativi.
Appare ragionevole innanzitutto la congettura in base alla quale la rivoluzione tecnologica renderà il mercato del lavoro sempre più duale, con effetti incerti sulla crescita del tasso di disoccupazione imputabile all’avanzamento tecnico. Si ritiene cioè verosimile immaginare la polarizzazione fra tecnici con competenze molto specifiche ed elevate retribuzioni e una platea di lavoratori nel settore dei servizi. Così come si ritiene anche verosimile immaginare un aumento della domanda per lavori di cura, a seguito dell’invecchiamento della popolazione su scala globale.
Vi è poi un problema di ordine più generale, che non attiene alle specificità italiane ma che ovviamente in un sistema produttivo fortemente interconnesso su scala globale può riguardare anche l’Italia. Si tratta di questo. L’attuale modalità di riproduzione capitalistica è basata su quello che viene definito neo-mercantilismo, ovvero dal perseguimento della crescita attraverso continui incrementi delle esportazioni (e riduzioni delle esportazioni). Poiché, per definizione, non tutti i Paesi possono crescere esportando, il neomercantilismo avvantaggia alcuni, quelli che partono per primi e che per primi sfruttano la crescita della produttività derivante dall’avanzamento tecnico. E l’avanzamento tecnico è uno strumento essenziale per consentire alle imprese (che lo adottano) di accrescere il tasso di rotazione del capitale, acquisendo quote di mercato e profitti attraverso il minor tempo necessario per la produzione e la vendita. Se si pone la questione in questi termini, il vero rischio – per l’Italia – non è tanto l’esplosione della disoccupazione di massa, ma un ulteriore ampliamento dei divari rispetto ai Paesi core dello sviluppo capitalistico. Ciò anche a ragione del fatto che gli attuali processi di concentrazione avvengono al di fuori dei confini nazionali, ponendo le premesse per una riproduzione, all’interno dell’area OCSE, dei meccanismi di scambio ineguale tradizionalmente riferiti ai Paesi sottosviluppati.
E’ infine rilevante osservare la discrasia esistente fra le politiche formative pubbliche e la ricerca e la domanda di ricerca di base, applicata e di lavoro espressa dalle imprese più innovative del Nord. Queste ultime necessitano non più delle sole competenze di breve periodo, ma di conoscenze interdisciplinari che mettano i lavoratori nella condizione di saper apprendere. In una recente intervista rilasciata al Sole-24 ore, il Rettore del Politecnico di Torino ha ben fotografato le necessità di quella parte dell’imprenditoria italiana: “lo studente deve essere contaminato [per] renderlo più flessibile e capace di qualificarsi in un ramo che ancora oggi non tira e che domani tirerà”.
La regionalizzazione dell’istruzione la si può leggere in quest’ottica: finanziare l’istruzione e la ricerca nelle aree del Paese nelle quali servono, dunque nei luoghi nei quali occorre forza-lavoro qualificata e ricerca, nel tentativo di generare in quelle aree un percorso potenzialmente virtuoso di innovazioni e di intercettare i cambiamenti tecnologici in atto. Alquanto ovvio il fatto che, in queste condizioni, il Sud è pressoché inevitabilmente destinato a restare ulteriormente indietro, soprattutto a ragione del prevedibile incremento del numero di studenti meridionali che andrà a iscriversi in sedi del Nord.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di Domenica 18 novembre 2018]