Storie vere di donne salentine

di Pietro Giannini

Il compito della scrittura è sempre lo stesso: sottrarre le vicende e le persone alla distruzione del tempo e conservarne a lungo (possibilmente per sempre) il ricordo.

La motivazione che spinge alla scrittura è, anch’essa, sempre la stessa: le vicende e le persone sono, per chi scrive, particolarmente significative ed emblematiche e perciò degne di essere salvate.

Le considerazioni appena fatte possono spiegare perché Giovanna Scaramella abbia scelto di raccontare le storie di cinque donne, Lucia, Antonietta, Addolorata e Bianca, Clelia: perché, come ella stessa dice nel risvolto di copertina, esse sono esempi “di dolore, di coraggio, di fragilità e di determinazione”. Il lettore, che è in definitiva il destinatario implicito della scrittura, ne coglierà i singoli tratti percorrendo direttamente l’itinerario del teso. Ad accompagnarlo si premettono qui alcune considerazioni, da lettore a lettore.

Le storie sono, anzitutto, vere. Esse cioè sono realmente accadute. Tutte rientrano nell’esperienza personale, diretta o indiretta, dell’Autrice.

Le storie sono, anche, locali. Si svolgono tutte nel Salento e nel caso di Clelia se ne danno delle coordinate più precise: Lecce, nei pressi di Porta Napoli, Monteroni e Galatina. Della provincia salentina esse condividono non solo i luoghi, ma anche i costumi ed i pregiudizi: il terrore del disonore familiare per un figlio nato al di fuori del matrimonio (Lucia), la persistenza di valutazioni legate alle umili origini (Antonietta, anche se è laureata,  è sempre “la figghia te lu mulaforbici”), l’uso di nomignoli o di diminutivi, talvolta con intento eufemistico (ad es. Ndata per Addolorata, ma anche Cia per Lucia e Tonetta per Antonietta), la prassi di affidare a parenti prossimi l’allevamento dei figli (Mjriam nella storia di Bianca).

Sono, infine, storie dolorose. Le protagoniste attraversano difficoltà, malattie, lutti, che però sono le condizioni in cui si manifestano le loro doti di coraggio e di determinazione, e concludono tragicamente la loro vita. Solo nel caso di Clelia le vicende, pur drammatiche, hanno un esito positivo.

In ogni racconto i fatti e le persone sono associati inestricabilmente alla sensibilità del narratore. In queste storie questo legame appare piuttosto attenuato perché l’Autrice procede con una esposizione secca, essenziale, che indulge poco all’aggettivazione, che è sempre funzionale, raramente esornativa. Quasi che ella volesse far corrispondere alla durezza delle storie una durezza linguistica e stilistica. Oppure, quasi volesse ricercare una veristica impersonalità, che metta in rilievo solo la nuda realtà. E in effetti sono pochi i casi in cui l’Autrice si lascia andare a considerazioni extra-narrative, come ad es. a proposito della fiducia in Dio di Bianca, in contrasto con i suoi dubbi in materia religiosa e la sua fede nella poesia (pp. 44-45) oppure sul senso della vita e sulla forza dell’amore (p. 50). Per il resto il racconto procede con un ritmo serrato, sorvolando su particolari superflui, e talvolta con travolgente rapidità, specialmente nei momenti in cui le vicende precipitano verso la catastrofe. Si veda, ad esempio, nella storia di Lucia :”Lei sembrava non sentire, rifiutò cibo e acqua, morì di lì a poco, mentre lui, disperato, entrò in uno stato confusionale: la vedeva seduta in un angolo della casa che cullava il bambino, lui le si avvicinava ma lei non c’era più, altre volte le appariva con gli occhi bagnati di pianto e allora piangeva anche lui.

Non si riprese più, fu ricoverato in un ospizio dove morì solo dimenticato da tutti”.

Pur non adottando sempre una sintassi narrativa lineare, l’Autrice riesce a tenere saldamente in mano le fila del racconto, anche quando (è il caso della storia di Addolorata) esso è complicato da personaggi di diverse generazioni che vivono in diverse località. Ma a dare il senso di un racconto vero contribuiscono le numerose lettere che vengono puntualmente registrate.

Resta da rilevare che l’Autrice mostra una particolare sensibilità per gli aspetti psicologici, o anche psichiatrici, dei personaggi: così per la fobia di Lucia, per il narcisismo di Antonietta, per la depressione di Bianca. E non si tratta di curiosità marginali, ma di dati in base ai quali ella spiega i comportamenti dei personaggi. Una sensibilità psicologica che l’Autrice dichiara espressamente di aver maturato a contatto proprio delle vicende narrate (e poi specificamente approfondito) e che trova un’eco nelle parole di Bianca (p. 38): “Io credo che il nostro corpo sia lo specchio della nostra anima, esso mostra ciò che la nostra anima si rifiuta di vedere, e nella malattia noi viviamo visibilmente ciò che nella nostra psiche reprimiamo”.

Le vicende dolorose dei personaggi trovano una efficace rappresentazione nell’immagine di copertina che mostra una donna piegata dalla vita. Allo sconforto dei personaggi l’Autrice ha voluto dare una testimonianza di partecipazione, per pagare con lo scritto un debito che forse avrebbe voluto risarcire con le parole.

[Premessa al volume di Giovanna Scaramella, Mi dovrai perdonare. Storie vere di donne salentine, L’officina delle parole, Lecce 2018.]

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