Quando il gioco si fa duro

di Paolo Vincenti

“Guarda i miei piedi che ballano lo swing 
al centro del ring 
al centro del ring 
Guarda i miei piedi che ballano lo swing 
al centro del ring 
al centro del ring 

Destro sinistro. 
Colpisci l’avversario. 
Non dargli respiro. 
Annientalo distruggilo…” 
(“Battiti di ali di farfalla”   – Jovanotti)

I cartoni animati dell’Uomo Tigre, che guardavamo da ragazzi, ci facevano sorridere con quel sangue che scorreva a fiotti inondando il ring e raggiungendo anche il pubblico in sala, che assisteva attonito a quelle carneficine. Si trattava di un’esagerazione e forse era eccessiva la componente splatter che gli autori profondevano nel manga giapponese. Certo, era garantito in questo modo l’effetto desiderato, ossia quello di tenere i piccoli telespettatori di Tigerman inchiodati alla sedia. Poi arrivò  il wrestling in tv. Era sensazionale vedere quei lottatori in carne ed ossa, non cartoni, ma persone vere, che se le davano di santa ragione negli incontri di Catch (come allora veniva chiamato questo sport, debitore dell’antica lotta greco- romana ma anche della arti marziali orientali come judo, karate e kung fu) . Eravamo a fine anni Ottanta. Memorabili quelle trasmissioni sul wrestling, commentate da un sulfureo Dan Peterson (col suo inconfondibile accento americano), già speaker delle partite del campionato di basket NBA,  nonché  testimonial del Te Lipton (chi può scordare il suo originalissimo tormentone : “Uhhhhuhu! Magico Lipton! Per me, numero uno!”). Le trasmissioni andavano in onda più o meno all’ora di pranzo della domenica su Italia 1. All’inizio, si poteva restare spiazzati e non capire se i lottatori di wrestling si menassero davvero o facessero per finta. All’epoca non c’era Internet e io, per fugare qualsiasi dubbio, non potevo ricorrere certo ad un tablet come il Manuale delle Giovani Marmotte per Qui Quo Qua. Ma era un attimo accorgersi che si trattasse di messe in scena, che i wrestlers fossero degli stunt men, cioè degli abili atleti capaci di simulare spettacolari lotte nelle quali nessuno si faceva male. Ricordo incontri davvero coinvolgenti fra i vari campioni dell’epoca: su tutti, Hulk Hogan che, avendo partecipato al film “Rocky III”, era una vera star; e poi Andrè the Giant (morto a soli 47 anni), un colosso impressionante che dava del filo da torcere persino al pluripremiato Hogan, Jessie Ventura, ed altri.

Nel wrestling c’erano degli stereotipi, cioè dei personaggi caratterizzati, come le maschere nella commedia dell’arte: il meccanico, il ballerino, il poliziotto (molto “macho gay”), l’uomo bionico, l’esattore delle tasse, e immancabilmente l’uomo Tigre. Roba da spanciarsi dalle risate. Oltre ai mestieri e alle professioni, vi erano anche i tipi umani: per esempio, il campione grande e arrogante, che era generalmente il cattivo, malvoluto dal pubblico, il campione buono, forte, e alla fine vittorioso, perché amato dai fans, e ancora il fallito, cioè lo sfigato predestinato a perdere sempre ma che perciò stesso suscitava un moto di spontanea simpatia. Il cattivone in genere non lesinava scorrettezze, mosse proibite dal regolamento: gustosissimi i siparietti in cui l’arbitro faceva finta di non accorgersene e lui menava colpi bassi a tutto spiano. Poi, poteva anche finire che il cattivo se la prendesse con l’arbitro, mal sopportando i suoi rimbrotti, e lo facesse volare via dal ring, oppure che ingaggiasse una lotta con lui; e l’arbitro lì a combattere, come un concorrente.   Ho seguito le trasmissioni sul wrestling trasmesse di notte su Italia 1 e commentate da  Christian Recalcati e Giacomo Valenti fino a metà anni Duemila.

Tantissimi i campioni  scomparsi prematuramente negli ultimi anni, quasi tutti per problemi di droga o per complicazioni cardiache dovute all’assunzione massiccia di steroidi e anfetamine varie. Penso a Bam Bam Bigelow, a Eddie Guerrero “La Raza”, e a tanti altri. Caso eclatante, quello di Chris Benoit, uno dei più amati wrestler di tutti i tempi: si impiccò nel 2007 nella palestra di casa sua dopo aver massacrato moglie e figlio. Più rare le morti sul ring, come accaduto per esempio al canadese Owen James Hart, noto anche come Blue Angel e The Blue Blazer. E’ morto a 34 anni nel 1999 appunto sul ring. La sua fine ebbe dello spettacolare. Infatti, da superstar quale era, doveva fare un’entrata in grande stile calandosi con una corda sul quadrato, ma il costume si imbrigliò e Hart si sfracellò sul ring. Il pubblico in sala, gasatissimo, applaudiva , mentre il pubblico a casa sfortunatamente  non poté assistere al tragico evento perché proprio in quel momento  si stava trasmettendo un’intervista preregistrata dello stesso Hart. Tuttavia, rimosso il cadavere maciullato del campione, l’incontro  si tenne ugualmente, poiché nessuno meglio degli americani ( e in particolare degli impresari americani) sa che lo spettacolo deve continuare (“the show must  go on”) e, a fine match, quello che sarebbe dovuto  essere il rivale di Hant, Jim Ross, annunciò l’avvenuto decesso del  collega. La trasmissione tv “Raw”  continuò ad andare regolarmente in onda, anzi cercò di trarre il massimo profitto per accrescere gli ascolti, brindando e festeggiando alla faccia del povero “Hart” spezzato in due. Un altro caso è quello del giapponese Mitsuharu Misawa, morto in un incontro doppio nel 2009, poiché, colpito dall’avversario Saito, cadde a terra sbattendo la testa.  Non seguivo ormai più questo sport quando, a farmene ricordare, fu un film bellissimo del 2009, The Wrestler, con protagonista  Mickey Rourke e colonna sonora di Bruce Springsteen. Rourke, davvero bravo, nel film interpreta il vecchio campione Randy “The Ram” Robinson, ormai uscito dal giro e “fumato” come solo un derelitto che vive nelle periferie americane può essere. Randy cerca di recuperare il rapporto con la figlia ma, drogato e alcolizzato come è, ha enormi difficoltà nel coltivare qualsiasi rapporto. Alla fine tornerà sul ring per un riscatto che ovviamente non ci sarà. Il wrestling, un po’ come il pugilato di molti anni fa, è uno sport praticato in genere da gente problematica, borderline, in cerca di una rivincita sulla vita che è stata troppo dura, troppo avara e arcigna. La morte è arrivata ancora sul ring qualche giorno fa, nel campionato messicano. Pedro Aguayo Ramirez è rimasto ucciso a causa di un calcio al collo inferto dall’avversario Rey Mysterio Jr. Tutti i media hanno riportato la notizia che ha avuto vasta eco nel mondo. I soccorsi sono arrivati in ritardo e il giovane campione non ce l’ha fatta. Aperta un’inchiesta.

La morte nello sport non è mai messa da conto ma è la variabile improvvisa, la tragica fatalità, la sorpresa dietro l’angolo. L’automobilismo, il motociclismo, e in genere gli sport estremi, come le arrampicate, il Bungee jumping, il parapendio, ecc. , richiedono una notevole preparazione psicologica oltre che fisica. Gli atleti convivono con questo spettro che è l’incidente, l’imprevisto imprevedibile, il corto circuito, il maledetto tilt. Non credo si sia mai preparati ad affrontare la morte, anche se si sceglie di fare rafting o paracadutismo, certamente non si è preparati ad affrontarla, a sfidarla, quando si pratica uno sport spettacolo come il wrestling, dove è tutto nella finzione, nell’esibizione muscolare, nella capacità atletica e di rappresentazione. Eppure, succede. Quando il gioco si fa duro…

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