La comunicazione frivola e maleducata del nostro tempo

di Antonio Errico

Io non lo conosco. È uno dei tanti viaggiatori sconosciuti che per qualche ora abitano la carrozza del treno. Però conosco le sue storie. So come si chiamano la moglie e i figli, che cosa fanno. So che cosa vorrebbe mangiare quando arriverà dove deve arrivare. So per quale squadra tifa, la sua depressione per le sconfitte, la sua felicità senza misura per le vittorie.

È seduto di fronte a me. Non so con chi parla al cellulare ma lo fa a voce alta, senza alcuna riservatezza, anche senza alcuna educazione. Io vorrei dirgli che non me ne frega assolutamente niente delle sue faccende, che anzi mi disturbano, mi infastidiscono, mi annoiano. Vorrei dirgli che tifo per la squadra che lui odia. Ma non lo faccio: sbagliando, forse. Avrei dovuto dire per favore mi faccia leggere questo giornale, oppure mi permetta appena appena di riposare. Non l’ho fatto. Ho sbagliato. Per educazione. Per delicatezza, forse. Magari aveva ragione quel ragazzo che si chiamava Arthur Rimbaud quando nella sua “Chanson de la plus haute tour” diceva “par délicatesse j’ai perdu ma vie”. Ma non è il caso di fare paragoni.

Quando lo sconosciuto che mi siede di fronte interrompe per un attimo la sua altisonante comunicazione, mette – sempre al cellulare – una musica che non è una musica ma lo sconquasso di un martello pneumatico, un’ossessione che fuoriesce dai suoi auricolari.

La carrozza di un treno può essere la metafora, la realistica rappresentazione di quello che è diventato l’universo della comunicazione. I suoi paradossi, le sue esasperazioni. Il suo chiacchiericcio, il cicaleccio, lo starnazzamento. Il suo vuoto clangore. Il parlare smodato, eccessivo, incontrollato, quello superfluo, quello che alla fine dei conti non è altro che un gioco, ma è un gioco che gradualmente risucchia il cervello, altera la relazione con lo spazio e con il tempo.

Nella carrozza del treno, ciascuno ha il suo smartphone fra le mani. Non è solo lo sconosciuto che siede di fronte a me a parlare dei fatti suoi. Lui è soltanto quello che mi è più vicino e quindi quello che mi dà più fastidio. Non è il più maleducato. E’ solo il maleducato più prossimo, e quindi più invadente, più importuno. Non c’è nessuno che ha un libro in mano. C’è solo un uomo con un pacco di giornali. Ogni tanto ne strappa una pagina e la ripone nella tasca del giaccone.

Forse nella storia della comunicazione non si è mai verificata una così assoluta e probabilmente ormai irreversibile condizione di invadenza. Ma non è una condizione determinata dalle possibilità offerte dai mezzi. E’ un fatto che riguarda l’etica della comunicazione, o più semplicemente il pudore e il rispetto nei confronti degli altri e anche di se stessi. E’ una violazione di principi fondamentali sui quali si fondano le relazioni fra gli esseri umani. E’ uno scardinamento di logiche basilari di comportamento e di educazione.

Non saprei dire quanti posti ha la carrozza di un treno. Saranno un centinaio. So che il treno su cui viaggiava lo sconosciuto che mi sedeva di fronte aveva nove carrozze. Si può provare a moltiplicare i viaggiatori di una carrozza per il numero di carrozze, e poi moltiplicare il risultato per il numero di treni che corrono in un giorno, e poi ritornare alla metafora, alla rappresentazione.

La comunicazione del mondo è quella che si verifica nei treni che viaggiano in un giorno. Superflua, vacua, superficiale, insignificante, frivola.

Si potrebbe dire: nei treni è stato sempre così. Certo, si potrebbe dire ma sarebbe sbagliato. Fino ad un certo punto il treno è stato il luogo delle storie che s’incontravano, delle narrazioni reali, ma anche dei silenzi profondi e degli sguardi che attraversavano i paesaggi che scorrevano dietro il finestrino, o dei dormiveglia madidi o ghiacciati. Fino ad un certo punto il treno è stato il luogo del più grande romanzo possibile, dei racconti veri e falsi. Lo dice, meravigliosamente, Giorgio Caproni nei versi del “Congedo di un viaggiatore cerimonioso”: “Era così bello parlare/ insieme, seduti di fronte:/ così bello confondere/i volti (fumare,/scambiandoci le sigarette),/e tutto quel raccontare/di noi/(quell’inventare/facile, nel dire agli altri),/fino a poter confessare/quanto, anche messi alle strette,/mai avremmo osato un istante/(per sbaglio) confidare”.

La realtà è cambiata e di conseguenza è cambiata anche la sua metafora. Adesso il treno rappresenta il contesto della comunicazione che avviene nell’assenza del ricevente e ignora colui che è presente.

Veramente, lo sconosciuto che mi sedeva di fronte e parlava e parlava al cellulare senza soluzione di continuità, fatta eccezione per i minuti di trivellazione con la falsa musica, di tanto in tanto mi guardava. Non è che guardava me; sapete com’è quando tu guardi qualcuno ma in realtà non lo stai guardando. Ecco, così. Mi guardava senza vedermi e intanto elencava le gesta dei suoi eroi pallonari, come Omero quando fa il catalogo delle navi.

Non è una questione di mezzi della comunicazione. E’ una questione di stile. Perché anche la comunicazione ha uno stile. Soprattutto la comunicazione. Anzi: tutto quello che accade in un modo o nell’altro coinvolge lo stile della comunicazione. Che sostanzialmente non è proprio come il coraggio di Don Abbondio che se uno non ce l’ha non se lo può dare. Uno lo stile se lo può dare.

Forse questo tempo ha perduto lo stile del comunicare. Oppure ne ha acquisito uno banale, sciatto, qualche volta anche un po’ volgare. Si potrebbe finanche pensare che questo tempo non intenda più comunicare ma soltanto parlare, straparlare, sparlare. Per esempio, probabilmente i social costituiscono la concretizzazione di una riduzione o azzeramento della funzione del mittente e del ricevente a favore di una esaltazione del messaggio. In altre parole: si parla tanto per parlare, senza attribuire importanza a colui al quale ci si rivolge e forse nemmeno a quello che si dice.

Lo sconosciuto che mi sedeva di fronte ha parlato per ore ininterrottamente. Parlava lui soltanto. Sembrava che non ci fosse nessuno ad ascoltarlo. Forse non ascoltava nemmeno se stesso. Forse parlava soltanto per parlare.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica, 11 novembre 2018]

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