Fu in uno di quei concorsi letterari, in cui ci sono premi in denaro, che ho avuto l’onore e il piacere di conoscere Maria Luisa Spaziani, ” la volpe”, come la definì Montale, quasi sette lustri più vecchio, che fu suo “goffo amante e suo sponsor”, come scrisse malignamente Alda Merini in una poesia dedicata al premio Nobel: Maria Luisa fu il tuo gingillo felice / vi ci giocasti la senilità.
Era “incazzatissima” (parola sua) perché era stata trattata alla stregua di tutti gli altri misconosciuti poeti (quorum ego) e per il fatto che ancora non era arrivato il suo libro Mondadori, La traversata dell’Oasi, che le aveva fruttato il primo premio, (millecinquecento euro), di cui avrebbe potuto vendere qualche copia. Con quei suoi capelli rossi e radi e il suo scialle nero mi sembrava, più che una volpe, una di quelle vecchine che portano le cartate di avanzi ai gatti famelici del “Teatro Marcello” di Roma, in cui risiedeva come Presidente della “Fondazione Montale”, ma della volpe conservava comunque le sembianze del volto. Nel suo libro rincorre la parabola di un amore maturo e senza tempo. Palpiti, impennate emotive e altrettanti scoramenti eludono la monotonia della melodia fissa in doppie quartine che alternano endecasillabi, decasillabi e versi ipermetri. Certo – mi disse qualcuno – ci vuole del gran coraggio a mettere in rima, a ottant’anni, “i furori della passione amorosa, sfidando le insidie del romanticismo rosa e le secche dello scetticismo, se non le paludi del ridicolo”. E in effetti a vederla così nessuno avrebbe detto che quella vecchia signora potesse essere ancora soggetto di erotismo. Epperò… c’era l’ironia, anzi l’autoironia come scudo.La Spaziani ricorreva al paradosso sarcastico per pungere, l’enfasi pronta a minacciare, con le sue iperboli, la verità del sentimento, altrimenti cannibalizzato nei fuochi fatui della modernità. Alla fine mi convinsi e pensai che Maria Luisa fosse una donna straordinaria, nata per fare poesia e poesia d’amore, ma il mio interrogativo fu questo: esiste veramente una poesia al femminile? Altroché se esiste!, disse lei. Ha un suo timbro, un odore, un calore, anche una facies che la distingue dalla poesia maschile. Basti pensare a Anna Achmatova, Emily Dickinson, Marina Cvetaeva, o a quella straordinaria, raffinatissima, elegantissima e quasi eterea creatura che è stata Rossana Campo , una Venere delle nubi e del vento e delle stelle. Come si fa a non innamorarsi di Maria Luisa Spaziani, delle sue poesie che hanno il ritmo delle stelle, il fascino delle costellazioni, che sono la chioma di Berenice e il respiro di Andromeda? Hanno tutte quelle caratteristiche peculiari, quel quid che è solo e proprio della donna, della femminilità. Eppure, vi assicuro, che Maria Luisa era tutt’altro che “femminile”, quando ti guardava con quell’occhio strabico costantemente in tralice, ti scrutava e ti pesava, solo per farti sentire una nullità, oppure si smemorava perché annoiata o infastidita. Così – suppongo – che poco femminile fosse anche la Cvetaeva (il figlio le disse, – prima che Marina si suicidasse, impiccandosi ad un chiodo di una stamberga polacca, dove, esule, non la volevano neppure come serva -, che era come una gallina spennacchiata) : e poco femminile pare che fosse anche l’Achmatova davanti alle carceri, con uno straccio in testa, tremante, pallida e denutrita, per reclamare la liberazione del figlio e del marito. Anche la Dickinson, la signorina vestita di bianco, era diventata ossuta, secca come una vecchia scopa ingiallita ed era una zitella cinquantenne piena di nevrosi. Insomma , queste poetesse erano tutt’altro che belle e femminili, ma lo era la loro grande e nobile poesia. Quei versi, anche quando recavano la forza e l’energia pura tipica della paternità, o della virilità (certe poesie della Cvetaeva lo sono molto più di tante poesie maschili) erano ” femminili” e ti incantano , ti fanno delirare proprio per questo: hanno una grazia suprema, come questi versi di Maria Luisa: ogni mio nervo è teso come un arco / o un’arpa eolia che vibra al respiro. È…poesia mitologica, epica, simbolica, certamente tributaria dei maudit francesi, con una tangente estetica che costeggia un po’ Baudelaire, Valery e un po’ D’Annunzio, un po’ Leopardi e un po’ Montale, un po’ Gaspara Stampa e Quasimodo (Sulla sabbia ormai scrivi da anni / Riposati innalzando cattedrali) . C’è molto della cultura francese, anche dei musicisti da lei prediletti (Debussy, in primis) e degli impressionisti (Monet, in particolare) ma soprattutto la sua è – l’abbiamo detto – una poesia d’amore, un amore-oasi dove poter rifugiarsi e riflettere nel deserto quotidiano dei nostri sentimenti e dell’anima. Maria Luisa parla d’amore in senso lato, universale, e va in profondità. Esplora come un palombaro, immergendosi negli abissi della nostra coscienza, gli aspetti più intimi e problematici, talora angoscianti, tal altra magici, dell’amore, motore del mondo, fuoco dipinto, canto modulato, elegiaca nostalgia delle cose, ma anche una memoria tragica di marinai alla deriva, amore fatto di gridi e sussurri, di luci e ombre, di musiche bianche e fiori, di sacrifici e rinunce, di voci che si fanno canto o grido, il tutto senza veli, scandagliando e denudando la propria anima fin nei recessi più nascosti, seguendo il corso dei ricordi, queste “ombre troppo lunghe per il nostro giovane corpo”. Dirà : “Ci sono due categorie di uomini. Quelli che ricordano di essere stati fiori e che mantengono la capacità di amare o di non amare. E quelli invece che sono diventati frutti, per aver reciso il loro rapporto col fiore badando più ai profitti e ai riconoscimenti pubblici”. Ecco una risposta che potrebbe dare ai giovani poeti, sulla soglia degli ottant’anni, ma dentro era come una fanciulla desiderosa di amare e di essere amata, dico fisicamente. Io mi presentai non sapendo come chiamarla, alla fine dissi: Maria Luisa, e la cosa le fece piacere, ma poi, in seguito, durante la cena in un ristorante di Piano di Sorrento, a picco sul mare, capì che non avevo letto tutte le sue poesie, come proclamavo spudoratamente (rispuntò il fiuto della “Volpe montaliana”), e lo capì semplicemente sfogliando le pagine del suo libro Poesie, edito negli Oscar Mondadori, vecchio di almeno una trentina d’anni fa, che le avevo porto perché me lo autografasse, cosa che fece, ma da allora non mi rivolse più la parola, assorta nel fumo delle sue cento sigarette e dei suoi pensieri. Ahimè, ero stato uno sciocco adulatore! E la vecchia erotomane (oltre a Montale, fu amante di Quasimodo e di altri letterati, ma sono convinto che anche allora avesse i suoi amanti), non me lo perdonò. Vedendola, alle due di notte, mentre fumando l’ennesima sigaretta gettava il suo sguardo nel mare, come una sirena in cerca di naviganti, sulla soglia della poesia, sulla linea del canto, pronta a far teatro dei suoi sentimenti, rivelandoli così come sono, nudi, belli, autentici, sinceri, capii che era quella la sua forza, la forza straordinaria e la bellezza della sua poesia, talora ermetica, oscura, incomprensibile; e in quell’attimo la vidi come una Venere che distilla gocce primigenie / che fa musica nello spazio in gemme di squillante blu… È ancora una pagina bianca, un’argilla informe / un fascio di forze vaghe che chiedono un ritmo. E poi fu Eva, madre dei viventi , e sorella e moglie e figlia, l’unica vera depositaria della verità dell’essere, l’unica che conoscesse la verità del giardino dell’Eden e mi sussurrasse all’orecchio, beffarda: è l’uomo che nasce dalla costola della donna e non viceversa. “C’è in questa inversione qualcosa di virile: come è virile la femminilità creatrice e matrice, che si pone come forza e scaturigine primaria nell’ordine dell’universo”. E in quel momento preciso, esatto,sublime, essenziale, unico, fatale, io mi innamorai perdutamente di Maria Luisa Spaziani. Ma lei , ormai, aveva altro da fare e aveva perduto ogni interesse nei miei confronti.