di Guglielmo Forges Davanzati
Si registra un diffuso consenso fra gli economisti in merito al fatto che l’Italia avrebbe bisogno di un ingente piano di investimenti pubblici, per le infrastrutture, la messa in sicurezza del territorio, le ricerca scientifica. Ben poco di tutto questo si trova nella cosiddetta manovra del popolo del Governo. Nel testo inviato alla Camera gli investimenti in conto capitale registrano una flessione di circa 1.5 miliardi. Il Governo, nel suo braccio di ferro con le istituzioni europee, rivendica la possibilità di aumentare il deficit pubblico, ma lo fa per aumentare la spesa corrente, ovvero per aumentare la spesa che ha minori impatti sulla crescita. Spesa che i governi usano per l’acquisizione di consenso nel breve termine.
Fin dal 1939, quello che viene considerato il padre della moderna finanza pubblica, Richard Musgrave, suggeriva l’applicazione di una ‘regola aurea’: non finanziare in disavanzo la spesa corrente, finanziare in disavanzo solo gli investimenti pubblici netti. La ratio di questa prescrizione sta nel fatto che gli investimenti effettuati oggi accrescono la dotazione di capitale di cui beneficeranno le generazioni future. La spesa corrente, per così dire, esaurisce i suoi effetti nel breve termine e, per conseguenza, non genera crescita.
La propaganda governativa prova a far credere che, a Bruxelles, un manipolo di ‘tecnocrati’ si opponga ad aumenti di spesa. In larga misura, ciò è falso. I ‘tecnocrati’ di Bruxelles (sia detto per inciso, in numero minore rispetto ai dipendenti della regione Lombardia) sono sì interessati a far rispettare le regole di funzionamento dell’Unione – regole stupide e per molti aspetti indifendibili – ma anche interessati al fatto che la spesa pubblica, eventualmente in eccesso rispetto a quanto stabilito nei Trattati, sia finalizzata a produrre crescita di lungo periodo.
Occorre a riguardo ricordare che i Trattati europei prevedono misure di sanzionamento estremamente lunghe, poco costose e di fatto mai applicate nei casi di sforamento del rapporto deficit/Pil. A nostro carico verrà aperta, per la prima volta nella storia dell’Unione Monetaria Europea, una procedura di infrazione per debito eccessivo. Cosa che segnala la durezza del braccio di ferro che il Governo sta facendo con la commissione europea.
In ogni caso, e anche nella fattispecie qui considerata, non è dunque responsabilità della pur indifendibile architettura istituzionale europea il fatto che sia difficile aumentare la spesa pubblica. Un aumento della spesa pubblica che non attivi crescita, in un Paese afflitto da una recessione ultradecennale, non crea problemi di compatibilità con i Trattati, ma di fiducia nei confronti dei creditori, ovvero dei sottoscrittori di titoli del debito pubblico. In questo contesto, ha senso un braccio di ferro con i ‘mercati’ per l’attuazione di misure che difficilmente avranno esiti positivi sul tasso di crescita dell’economia italiana? Lecito dubitarne. Il prodotto interno lordo – per quanto misura imperfetta della ricchezza di un Paese – è di fatto un indicatore del potere contrattuale di uno Stato e, al tempo stesso, la sua crescita è il presupposto essenziale per rendere sostenibile il debito. Nel terzo trimestre del 2019, l’economia italiana – su fonte ISTAT – ha fatto registrare un tasso di crescita nullo e non si capisce su quali basi il Governo preveda una ripresa dell’1.5% nel 2019. E’ una stima a dir poco in eccesso, se solo si considera che nel 2019 è previsto un aumento del prezzo del petrolio e soprattutto la fine del quantitative easing, e dunque dell’acquisto sui mercati secondari di titoli di Stato da parte della BCE.
Per comprendere la natura del problema, sebbene con qualche forzatura (giacché è evidente che non è possibile equiparare il bilancio di uno Stato al bilancio di una famiglia), si può far riferimento ai rapporti che intercorrono fra una banca e un soggetto che chiede un prestito. Per quale ragione la banca dovrebbe concederlo se si attende che il suo reddito sarà insufficiente a ripagarlo? Soprattutto, per quale ragione si renderebbe conveniente concedere credito se chi lo chiede impegna il reddito aggiuntivo per spese che non faranno aumentare la sua capacità di rimborsarlo? Fuor di metafora, e per quanto attiene a uno Stato, l’accresciuto debito può essere ripagato con misure di austerità o con misure di segno contrario, a condizione – per queste ultime – che vadano nella direzione di contrastare la dinamica recessiva. Le prime – le misure di austerità – hanno dato pessima prova: riduzioni di spesa in periodi di crisi hanno (e hanno avuto) il solo effetto di aumentare il tasso di disoccupazione, accrescere il rapporto debito/Pil, generare fallimenti di imprese, ridurre il tasso di crescita. Il solo esito positivo è stato un aumento delle esportazioni nette: la minore spesa si è tradotta in minori importazioni e l’aumento della disoccupazione, riducendo i salari, ha messo le (poche) nostre imprese esportatrici nella condizione di accrescere la loro competitività sui mercati internazionali via riduzione dei prezzi. Le politiche fiscali espansive non sono auspicabili in quanto tali, come vorrebbe una lettura piuttosto ingenua delle teorie economiche di Keynes. Lo sono a condizione che la ‘qualità’ della spesa pubblica sia tale da lasciare alle generazioni future una dotazione di capitale accresciuta rispetto a quella oggi disponibile, ovvero sia tale da favorire gli investimenti. La centralità degli investimenti nel riprendere un percorso di crescita risiede nel fatto che essi, nel breve periodo, accrescono la domanda interna e l’occupazione e, nel lungo periodo, accrescono la produttività del lavoro.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di Giovedì 8 novembre 2018]