di Paolo Maria Mariano
C’è un lato positivo nel poter scrivere una recensione che sia pubblicata e nel non fare il recensore di professione per una qualche testata periodica: si può scegliere di scrivere solo di libri la cui lettura ha lasciato un senso di soddisfazione, perfino un segno d’ammirazione per la capacità di scrittura dell’autore, per l’architettura della storia, per il senso della narrazione. Certo, si potrebbe essere inclini a scegliere testi che si è portati a stroncare, ma quello, se non fosse dovere professionale, potrebbe essere il vezzo di chi urla improperi per attirare su di sé l’attenzione, non avendo qualità altre; e lo sarebbe perché di talune narrazioni è probabile sia solo utile tacere. Per quanto mi riguarda, mi sforzo di ricadere nella prima accezione. Scrivo quindi di Cox, o il corso del tempo di Christoph Ransmayr (Feltrinelli, 2018), semplicemente perché rientra in quel novero di testi su cui vale la pena porre l’attenzione.
Altri ne hanno già scritto. Alcuni, soprattutto critici di lingua tedesca, si sono soffermati sulla trama – siamo nel Settecento cinese; l’imperatore Qiánlóng chiama nel suo regno il più grande orologiaio e inventore di automi del suo tempo, Alister Cox, inglese, assieme ai suoi tre più valenti collaboratori; a loro chiede opere di misurazione del tempo sempre più complesse, legate a una percezione soggettiva del tempo, tra la diffidenza crescente della corte, ossessionata dal mantenimento dei rituali che ne perpetuano l’esistenza, timorosa di qualsiasi cosa possa alterare forse solo in principio l’ordine costituito, che significa morte in quel tempo di potere assoluto senza contrappesi istituzionali – e questi critici della trama hanno rimproverato qualche deviazione dalla cosiddetta “correttezza politica”. Tralasciano, forse, che Ransmayr, austriaco dal viso fiero di stampo antico, si limita a indicare pratiche che la Storia ha testimoniato e che sarebbe stato solo ipocrita nascondere; e uno scrittore che vuole essere di calibro, che si sforza di esserlo per l’arte nascosta nello scrivere, non può permettersi d’essere ipocrita e neanche d’ammiccare alle mode che, per definizione, sono ciò che passa di moda. Per quel tipo di scrittore la battaglia è, proprio, con il tempo e null’altro.
Altri hanno paragonato con molta acutezza Cox alla produzione precedente di Ransmayr, indicando anche echi di opere di Wackenroder, che cominciò il romanticismo tedesco, e von Hofmannsthal.
Qui, più che fare nuovi paragoni o discutere di quelli avanzati, vorrei soffermarmi sulla singola opera, riferendomi solo al libro in sé.
Se guardiamo agli aspetti linguistici – e, per quanto mi riguarda, posso farlo in questo caso attraverso la traduzione competente di Margherita Carbonaro – notiamo l’attenzione alla struttura delle frasi, al suono delle parole, all’equilibrio di questa narrazione dal classico impianto lineare; osserviamo il gusto delle scelte. Se poi guardiamo al senso del testo, alla sua struttura interiore, vediamo che Cox tratta in sé del rapporto tra arte e potere, tra vanità e potere, tra perizia e invidia che quella perizia provoca, e poi, infine, tra dolore acuito dalla nostalgia e desiderio, mosso da quel dolore, di lasciare qualcosa – forse bellezza – che sia idea che rimane oltre la cosa, vada nel tempo oltre noi stessi e non sia la foschia che scompare all’apparire del sole. Non è Alister Cox – variante fantastica dell’orologiaio settecentesco James Cox – il protagonista del romanzo di Ransmayr, né lo è Qiánlóng, l’imperatore che fu reale committente di James Cox, e quest’ultimo non viaggiò mai verso la Cina o incontrò l’imperatore o intravide la più bella delle concubine imperiali, al contrario di quanto accade alla sua versione fantastica Alister nel romanzo; e in fondo non lo è neanche il tempo per se stesso, quanto invece protagonista è l’interazione dell’essere umano con il tempo, non tanto nella percezione del suo trascorrere, quanto nello svilupparsi della propria identità umana e delle ragioni del proprio agire nel tempo. E questa è una questione delicata da trattare, e per essa è essenziale avere cura (questo sì) del ritmo che il fluire della narrazione può indurre nel lettore, cioè del tempo stesso della narrazione, almeno così come Ransmayr fa, con lodevole consapevolezza.
È questione complessa scrivere in modo che la pagina non sia volatile; è necessario leggere tanto, ma ancora di più saper scegliere cosa si legge, e questo è materia dell’esperienza di lettura, della sua varietà, soprattutto dell’avere l’inclinazione a posare lo sguardo sulla pagina, perché, in fondo, leggere un ottimo libro, ancor più se è un grande libro, è anche leggere e curare se stessi … almeno un po’.