Alessandro Baricco ha sessant’anni. Ha scritto romanzi e saggi che molti conoscono.
Ian McEwan, scrittore inglese, ha dieci anni di più. Molti conoscono anche i suoi romanzi.
Non sono nativi digitali, dunque. Il digitale lo hanno scoperto, per una ragione o per un’altra, ad una svolta della loro esistenza, nella pratica del mestiere.
In un incontro sulle pagine di “Repubblica” conversano sul digitale, sull’influenza che questa condizione esercita sul tempo presente, su quella che probabilmente eserciterà nel tempo futuro.
Ad un certo punto si dicono che noi siamo gli ultimi che possono ragionare in libri o testi scritti; si dicono anche che gli scrittori sono l’unica élite che il web non abbia ancora abbattuto.
Probabilmente è vero. Però c’è da discuterne; c’è da tentare di comprendere perché possa essere totalmente vera o solo parzialmente vera sia la prima che la seconda affermazione.
Noi siamo gli ultimi che ragionano assumendo come riferimento i libri; gli ultimi che in relazione ad un determinato argomento confrontano le tesi di più libri; gli ultimi che si sono formati leggendo e rileggendo il libro di lettura e il sussidiario delle scuole elementari, le antologie della scuola media, i manuali delle superiori; fumetti, romanzi, saggi; noi siamo gli ultimi che per comprarsi i libri hanno risparmiato e risparmiano sulle scarpe, le camicie e tutto il resto. Siamo gli ultimi che dopo aver cercato il significato di una parola sul web poi vanno a verificare su uno dei dizionari di carta che hanno a portata di mano sulla scrivania. Siamo gli ultimi che della Rete, dei social e del virtuale si fidano e diffidano nella stessa misura.
Dopo di noi potrebbe sopravvenire la fede cieca, la devozione al web, l’idolatria.
Le generazioni che verranno non avranno i libri, o ne avranno pochi ed a quei pochi si rivolgeranno assai raramente, solo per obbligo o solo per caso.
Probabilmente sarà così. Siamo gli ultimi. Però non è del tutto illegittimo il dubbio che potrebbe anche non essere così.
Potrebbe accadere, in una prossima fase di questa civiltà, quando il digitale avrà invaso e pervaso ogni possibile sfera, quando per tutto si avrà bisogno di una tastiera, quando l’artificiale sarà naturale e connaturato, allora potrebbe anche accadere che consciamente o inconsciamente si avverta finanche sulla pelle una sensazione di superficialità, una necessità di approfondimento, un senso di insoddisfazione, di spaesamento, di naufragio. L’immenso universo digitale potrebbe provocare disorientamento, lo sgretolamento dei punti di riferimento, la cancellazione delle direzioni.
Potrebbe verificarsi a quel punto il ritorno ai libri. Potrebbe verificarsi in una coincidenza con il bisogno di avere delle certezze: da contraddire e da confutare, magari, ma in una condizione di confronto consapevole e critico. Potrebbe verificarsi quando il senso di inappagamento cognitivo diventerà insostenibile.
Con molta probabilità non accadrà alle generazioni che hanno scoperto il digitale mentre leggevano e rileggevano i loro libri. Quelle generazioni vivono e continueranno a vivere come sotto la sfolgorante luminaria di una festa, abbagliate, affascinate, stregate. Non solo questo, però: quelle generazioni hanno dentro una tale stratificazione di apprendimento determinato dai libri con cui riescono a compensare i vacillamenti delle ombre virtuali.
Non accadrà ad esse.
Se mai dovesse, accadrà alle generazioni che nell’oceano del virtuale nuotano come delfini.
Se mai dovesse, saranno quei delfini i protagonisti di una sostanziale riformulazione delle forme e dei codici ai quali ci stiamo abituando o ci siamo abituati.
Disse una volta Umberto Eco: il libro è come il cucchiaio, il martello, la ruota, le forbici: una volta che li avete inventati, non potete fare di meglio.
Qualche volta si può anche provare a mangiare senza cucchiaio. Ma poi gli esiti consigliano vivamente il ritorno alla posata costituita da una paletta concava ovale. Strumento vecchio ma basilare.
La seconda posizione sulla quale ci si potrebbe confrontare riguarda il rapporto fra lo scrittore e il web: fra la scrittura professionale, se così si può dire, e l’oceano nel quale, anche se non da delfini, diventa possibile recuperare elementi funzionali alla scrittura.
A questo proposito forse diventa necessario operare una prima distinzione fra la ricerca propedeutica alla scrittura e l’atto specifico della scrittura. Se la ricerca può utilizzare tutti i metodi e i mezzi che ha a disposizione, la scrittura che intende essere autentica esprime – ancora – la necessità di una relazione fra il corpo e la parola. Ci sono quelli che non solo ora che scrivono al computer ma anche quando usavano la gloriosa Olivetti, non solo quando tentano l’opera di narrativa ma anche quando stendono un pezzo per il giornale, hanno bisogno di leggere sulla carta le righe che scrivono, di fare gli interventi con la biro. Forse la spiegazione è più semplice di quanto possa sembrare. Forse basta soltanto considerare che fra la mano, la penna, il foglio, c’è un contatto diretto tra il sangue che scorre nelle vene della mano con quello che scorre – o dovrebbe scorrere – dentro le parole.
Che la scrittura si conformi all’ evoluzione e alle trasformazioni della civiltà è un fatto culturale e naturale. Abbiamo scritto sulle pareti delle grotte, sulla pietra, sul legno e sull’argilla, sulla cera, sulla carta di papiro, sulla pergamena; abbiamo scritto con il guano, con lo stilo, con le penne d’oca, con i pennini d’acciaio, con la stilografica. Ora scriviamo con una tastiera. Ma probabilmente si verificano circostanze in cui la scrittura autentica pretende una condizione di intimità, una relazione attiva e generativa con il linguaggio, con il suono di una parola, di una sola sillaba, pretende una corrispondenza di sensi, uno scambio di sensazioni, un’esperienza di compenetrazione, forse anche un’esperienza d’amore.
E’ in quelle circostanze che si verifica la sovrapposizione fra l’umanità dello scrittore e l’umanità della scrittura che egli compone, che lo scrittore e la scrittura estromettono qualsiasi mediazione per riconquistare il gesto primitivo, assoluto, essenziale del cavernicolo che racconta le sue storie scrivendo segni sulle pareti della spelonca soltanto con le mani sporche di guano. E’ nelle circostanze in cui la scrittura appartiene esclusivamente all’umano.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di Domenica 28 ottobre 2018]