di Gianluca Virgilio
“Una città come la nostra, bella e antica, con la sontuosità architettonica risultante dai periodici cambiamenti di gusto, è un’unica grande testimonianza della capacità d’amare e dell’incapacità d’amare durevolmente. La superba sfilata dei suoi palazzi non rappresenta soltanto una grande storia, ma anche un continuo mutar d’indirizzo nelle opinioni. Considerata sotto questo aspetto, essa è una volubilità pietrificata che ogni quarto di secolo si è vantata in modo diverso di avere ragione per sempre!”.
Robert Musil, L’uomo senza qualità.
Camminare nelle strade della città, sopra l’asfalto e il mattonato dei marciapiedi e del centro storico, per le vie aperte tra le colate di cemento che ti chiudono da ogni parte – il cielo è alto ed è difficile tenere a lungo il capo sollevato -, significa fare esperienza dell’amore e del disamore degli uomini, conoscere i loro ripensamenti in un muro abbattuto e poi ricostruito, avere la prova visibile della loro dedizione in una casa ben curata e della loro trascuratezza in una abbandonata, della loro costanza o volubilità, ed anche, spesso, della loro umiltà o tracotanza. Un edificio può essere il frutto d’un amore profondo oppure dell’ambizione e della vanità, dell’egoismo e dell’avidità, può ostentare il potere o costituire solo un riparo dalle intemperanze degli uomini e del mondo. Camminando per le strade della città si apprendono i sentimenti che prevalgono nella vita di tutti noi.
Pensiamo che la città sia sempre la stessa e invece siamo come quell’uomo che si risvegliò dopo ottant’anni e non capiva più la lingua dei suoi concittadini. Ricordo mio padre che alla fine della sua vita stentava a riconoscere la sua città. Ogni generazione cambia l’aspetto della città dov’è nata e dove ha operato, abbattendo e ricostruendo, spesso restaurando, mai lasciando le cose come le ha trovate. Pertanto, ci chiediamo: che cosa c’è di antico nelle nostre città?
Gli uomini non sono capaci di lasciare immutate le cose, così come nascendo le hanno trovate, perché non tollerano che esse si decompongano e muoiano sotto i loro occhi, si sciolgano al cadere della pioggia, si sgretolino al sole estivo. Gli uomini scorgono chiaramente in questa distruzione che il tempo produce la propria immancabile fine. Allora abbattono e ricostruiscono, oppure restaurano, e così si credono immortali. Ne deduco che noi camminiamo nelle strade della città, anche nei cosiddetti centri storici, sempre tra pietre e mattoni del nostro tempo, come quelli che i cristiani del tempo antico presero agli anfiteatri pagani per edificare le loro basiliche, incidendovi il segno della croce.
Ho trascorso una serata da amici in una casa seicentesca sopraffatto dal pensiero che in quello spazio chiuso da possenti muri avevano abitato decine di generazioni, ognuna delle quali aveva lasciato la sua impronta, chi aprendo una nuova finestra, chi sfondando una parete per farne un ambiente più grande, chi coprendo antichi affreschi con la calce, chi rifacendo il pavimento, ecc.; piccole modificazioni dello spazio, che sommate ora producevano una casa moderna dotata di un buon televisore al plasma e di un invisibile impianto WiFi. Che cosa vuol dire, allora, vivere in una casa del Seicento? Forse significa immaginare di avere alle spalle una lunga storia, di esserne a capo, una storia vaga e imprecisa, e per questo bella e avventurosa, se possibile anche nobile, una storia che funziona come garanzia che noi veniamo da molto lontano, da un passato remoto più o meno imprecisato, e questo ci dà l’illusione di un tempo avvenire lunghissimo, che verrà dopo di noi e di noi certo recherà una traccia…
Allo stesso modo, amiamo ricostruire i centri storici come una grande finzione, dotandoli di un racconto quanto più preciso e circostanziato è possibile, meglio se elaborato da uno studioso scientificamente accreditato. La finzione dei centri storici deve essere verosimile per incantare l’ignaro visitatore. Anche in questo caso, l’idea di avere una lunga storia alle spalle ci affascina perché ci dà l’illusione di venire da lontano e, dunque, la prospettiva di andare lontano, dove non si sa, ma certamente verso una fulgida meta… Così si esprime – si autorappresenta celebrandosi – l’amore degli uomini per la propria città, con la messa in scena di una storia antica scientificamente ricostruita. Del disamore non rimane traccia se non nelle periferie urbane, che non sono segnate nelle mappe stampate a cura della proloco d’ogni Comune, e delle quali ci si può anche dimenticare.
(2016)