di Guglielmo Forges Davanzati
È da salutare con favore il recente provvedimento del Governo che stabilisce un aumento dei finanziamenti alle Università meridionali? In prima battuta ovviamente sì. Si tratta, per la prima volta da un decennio, di un intervento perequativo, di freno alle divergenze regionali, in controtendenza appunto rispetto alle politiche degli ultimi anni. Le quali hanno sistematicamente definanziato selettivamente il sistema universitario italiano, con maggiore penalizzazione per le sedi del Sud. Gli stessi bandi per progetti di interesse nazionale (PRIN) dello scorso anno contenevano misure che si potrebbero considerare umilianti per chi lavora in Università del Mezzogiorno, con la costituzione di un fondo appositamente dedicato a queste: una sorta di riserva indiana. Altrettanto umiliante la gara fra Dipartimenti universitari, che ha visto “vincitori” al Sud solo 25 Dipartimenti (a fronte dei 28 Dipartimenti “eccellenti” della sola Lombardia): difficile ritenere che in tutte le sedi meridionali lavorino i peggiori ricercatori italiani o quelli più inattivi.
Il maggiore definanziamento delle sedi meridionali lo si registra con numerosi dati. Quello che verosimilmente interessa maggiormente le famiglie residenti al Sud è il clamoroso aumento delle tasse universitarie, aumentate (per effetto dei minori trasferimenti e, per conseguenza, della necessità da parte dei consigli di amministrazione universitari di evitare passivi di bilancio) di quasi il 90% dal 2005 al 2015.
La ristrutturazione del capitalismo italiano negli anni della crisi ha visto l’economia meridionale retrocedere considerevolmente rispetto a quella del Nord. Ciò conta anche per le politiche per (o contro) l’Università messe in atto negli ultimi anni, che – tramite la riduzione dei trasferimenti pubblici – hanno ridotto il numero di immatricolazioni per andare incontro a una domanda di lavoro espressa dalle imprese sempre meno qualificata. Politiche che hanno giocato sulla distonia cognitiva – la differenza fra percezione e realtà – della gran parte dell’opinione pubblica, blandita dalla retorica dei professori universitari nullafacenti e baroni e dall’idea che i ranking di sedi universitarie e di dipartimenti – anche non omogenei fra loro e dunque non confrontabili – conti qualcosa.
L’Italia ha perso, negli ultimi anni, circa il 25% della sua produzione industriale e, diventando sempre più un’economia con specializzazione in settori ‘maturi’ (agroalimentare, beni di lusso), è un’economia nella quale il lavoro molto qualificato non serve alle imprese. Con una specificazione rilevante. Le imprese innovative, che assumono laureati e che hanno bisogno di ricerca di base e applicata, sono quasi esclusivamente localizzate al Nord. Non desta quindi sorpresa il fatto che le risorse vengano destinate in misura crescente alle sedi settentrionali, dal momento che è lì che le imprese domandano forza-lavoro qualificata e ricerca scientifica. La legittimazione ‘tecnica’ alla base della redistribuzione delle risorse a danno del Mezzogiorno è la seguente: minori fondi implicano minore possibilità di fare ricerca di buon livello; minore ricerca di buon livello implica minori fondi. E ancora: l’aumento delle tasse universitarie impingua i bilanci delle sedi più ricche (evidentemente localizzate al Nord), il che, a sua volta, implica maggior possibilità di reclutare e, dunque, maggiore quantità di pubblicazioni scientifiche (ed eventualmente loro maggiore qualità), in una spirale perversa che nulla ha a che vedere con l’effettiva capacità e l’impegno dei ricercatori che lavorano nelle sedi del Sud. E’ una sorta di effetto “palle di neve”: quando le si lancia, la neve spontaneamente ingrossa quella in partenza più grande. Fuor di metafora, questo significa che le sedi universitarie più ricche (anche per il più facile accesso a finanziamenti privati) tendono a diventare sempre più ricche.
Le misure di definanziamento dell’ultimo decennio andrebbero inquadrate in una prospettiva di più ampia portata, che riguarda il nesso che, in molti Paesi, si è istituito fra processi di deindustrializzazione e politiche formative. La deindustrializzazione è un fenomeno per il quale l’incidenza del settore industriale sul Pil tende a declinare, ed è un fenomeno che ha riguardato (e riguarda) molti Paesi definiti avanzati nel corso degli ultimi decenni. La deindustrializzazione si associa a un aumento dell’incidenza dei servizi (si pensi alle attività culturali o turistiche) per le quali l’occupazione è, molto spesso, occupazione poco qualificata. Nel Mezzogiorno, salvo rare eccezioni, è certamente così. In queste condizioni, appare difficilmente controvertibile l’idea che l’istruzione serva sempre meno (pure al netto del fatto che comunque i laureati occupati in Italia guadagnano, in media, molto più dei diplomati).
Il fondamentale limite del provvedimento del Governo è che si tratta di una misura tampone (che nella migliore delle ipotesi può evitare il dissesto finanziario di alcune sedi del Sud), ma che non guarda ai problemi di carattere più generale che investono l’economia italiana e, ancor più, quella meridionale. Non guarda, in particolare, agli effetti che la deindustrializzazione – e la mancanza di una visione organica di sviluppo dell’economia italiana – hanno nel generare la continua perdita di rilevanza economica dell’istruzione. Dare più risorse è ovviamente un atto benvenuto. Ma darle in assenza di misure che modifichino il sistema produttivo può rivelarsi una misura sostanzialmente inutile al fine di un aumento dell’occupazione qualificata.